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Il lavoro nobilita l’uomo (che ce l’ha)

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Il lavoro è il tema centrale dell’agenda politica di qualsiasi partito. L’unica questione su cui sono tutti d’accordo: c’è poco lavoro, bisogna rilanciare le politiche del lavoro, i giovani hanno diritto a un lavoro, eccetera eccetera. Ma a che cosa pensiamo davvero quando pensiamo al “lavoro”? Un posto, un’attività, una necessità, un bisogno, un prezzo da pagare per vivere? La risposta non è di secondaria importanza. Anzi, può avere un impatto enorme sulla nostra vita “individuale” intanto che i massimi sistemi, le alte cariche, le istituzioni preposte studiano soluzioni “generali”.

Allora partiamo dalle concezioni più diffuse di lavoro. Quella cristiana lo vede come una pena frutto di una colpa (il biblico anatema divino su Adamo: “Ti guadagnerai da vivere col sudore della fronte”). Quella protestante lo legge come uno sforzo finalizzato a una conferma (la prova di essere predestinati alla salvezza di cui parla Max Weber in “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”). Quella marxista lo descrive come un esercizio servile alienante per il singolo e funzionale allo sfruttamento capitalistico.

Ciascuna di queste rappresentazioni, a ben vedere, fa torto al lavoro, nel senso che non lo considera un valore in sé e per sé, ma sempre uno strumento in vista di qualcos’altro (la sopravvivenza in vita per i peccatori cacciati dall’Eden e la salvezza futura per gli eletti del Signore) o addirittura un mezzo di oppressione (per i sostenitori della storia quale perenne lotta di classe). Non è azzardato affermare che la stragrande maggioranza di chi lavora – che a sua volta è una minoranza nel mare magnum di chi un lavoro lo vorrebbe, ma non ce l’ha – vive con  disagio e frustrazione il proprio rapporto con il lavoro: fonte di stress, di problemi, di preoccupazioni.

Lo si subisce con fatalità o per costrizione, quasi mai lo si fa per vocazione o per scelta. Eppure, c’è un’altra strada praticabile. Quella di recuperare il valore del lavoro in sé, inteso come attività manuale o intellettuale nella quale dispieghiamo creativamente le nostre energie. Qualsiasi cosa facciamo, c’è un modo per nobilitare la nostra “applicazione”. E cioè praticare il “dovere” con scrupolosa, certosina cura anche a prescindere dal ritorno economico per cui lo svolgiamo. Come se davvero lo amassimo e con la concentrazione abitualmente destinata a ciò che ci affascina e ammalia. È una finzione? Certo, ma funziona. Libera la mente dal ronzio dei pensieri disturbanti e ci ancora indissolubilmente al qui e ora.

Purtroppo, dobbiamo misurarci con una nuova filosofia del lavoro: quella neoliberista (oggi imperante) che lo connota come una variabile della crescita e del PIL da tenere sotto controllo, attraverso la coltivazione mirata di un tasso di disoccupazione “naturale”. Così da reprimere le spinte inflattive oppure da renderci “flessibili” e incapaci di progettare il futuro. Il sistema è oggi concepito per impedirci, con scientifica premeditazione, di lavorare tutti, generando quindi angoscia sociale, disagi personali, paura del domani.

Troppi sono privati della possibilità stessa di lavorare. E, quindi, del prerequisito indispensabile all’impresa “morale” di coltivare, financo di concepire, un’etica del lavoro. Il lavoro nobilita l’uomo se all’uomo è garantito il diritto di cimentarsi con il lavoro. Ma quel diritto, iscritto nella nostra Costituzione, è divenuto un privilegio per pochi.  È il peccato capitale della nostra civiltà.

Francesco Carraro

www.francescocarraro.com


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