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Il Dragone Verde: come la Cina usa l’ambientalismo per la sua guerra (economica) ibrida
La strategia cinese per il dominio green: finanziare l’ambientalismo occidentale per creare mercati per la propria tecnologia. Un’inchiesta tedesca svela la rete di influenza di Pechino.

Già nel 2019 Angela Merkel notava come stesse avvenendo una “guerra ibrida” contro l’Europa. L’allora Cancelliera tedesca, con una certa preveggenza, notava come movimenti di protesta apparentemente spontanei potessero essere in realtà il frutto di influenze esterne difficili da tracciare. Citava esplicitamente le proteste per il clima, insinuando che fosse difficile immaginare come “all’improvviso tutti i bambini tedeschi” avessero avuto la stessa idea senza alcuna spinta esterna. Ovviamente non era così.
Oggi, quell’intuizione si rivela più attuale che mai, ma il protagonista non è più (o non solo) Mosca. Questa non è l’analisi di un blog di contro-informazione, ma un’argomentazione presentata nientemeno che da Die Welt, un quotidiano tedesco assolutamente mainstream e storicamente vicino agli ambienti governativi. Un segno evidente che il clima, non solo quello atmosferico, sta cambiando in Germania. L’articolo svela come la Cina stia applicando una strategia simile, molto più sofisticata e su scala globale, usando l’ambientalismo come un cavallo di Troia per i propri interessi geoeconomici.
La lezione imparata bene e applicata in modo spregiudicato
Per capire la strategia cinese, è utile un breve ripasso. La storia non è nuova:
- L’Unione Sovietica: Negli anni ’80 sponsorizzò i movimenti pacifisti in Germania per ostacolare l’installazione di missili americani, agitando lo spettro di un “inverno nucleare” basato su modelli scientifici controversi. L’obiettivo era militare: l’URSS stava perdendo la corsa agli armamenti.
- La Russia: In tempi più recenti, ha sostenuto finanziariamente i movimenti “No-Fracking” in Occidente. Risultato? In Germania il fracking è stato vietato, aumentando la dipendenza dal gas russo. Un obiettivo puramente economico e strategico. Germania, Francia e Polonia hanno enormi riserve di gas, ma non vengono e non verranno sfruttate, e qualcuno paga perché non avvenga.
Oggi, Pechino ha imparato la lezione e l’ha perfezionata, applicando quella che il Dipartimento della Difesa USA definisce una “strategia che coinvolge l’intero Stato per modellare l’ambiente dell’informazione”.
La rete di influenza cinese: Il denaro non è “Green”
Al centro della strategia vi è una fondazione con sede a San Francisco ma con un nome che non lascia dubbi: Energy Foundation China (EFC). Ufficialmente dedicata a promuovere la protezione del clima, questa entità è un potente strumento di proiezione dell’influenza cinese.
Un’audizione di un sottocomitato del Senato degli Stati Uniti ha scoperchiato il vaso di Pandora. Dei ricercatori hanno presentato prove che dimostrano come, solo nel 2023, 14 delle principali organizzazioni ambientaliste statunitensi, quelle che si battono per leggi climatiche più severe, abbiano ricevuto finanziamenti dalla EFC per un totale di oltre 497 milioni di dollari. Una cifra enorme, in grado di falsare la comunicazione.
Nonostante un deputato democratico abbia liquidato la questione come “teoria del complotto”, i flussi di denaro sono documentati in fonti pubbliche. L’influenza si estende a nomi di primissimo piano:
- Nicholas Stern: Autore del celebre “Stern-Report”, uno dei documenti più influenti sui costi del cambiamento climatico, che ha spinto per obiettivi radicali. Stern ha ringraziato pubblicamente la EFC per il supporto finanziario.
- London School of Economics: Un’istituzione pesantemente coinvolta nella consulenza politica sul clima, che riconosce il generoso sostegno cinese.
- Rocky Mountain Institute (RMI): Un altro beneficiario dei fondi EFC, ha pubblicato uno studio contro i fornelli a gas, spingendo per una transizione a quelli elettrici. Una mossa che, guarda caso, sposta la domanda verso catene del valore (elettrificazione, batterie) dominate dalla Cina.
Il fine è chiarissimo: spingere l’Occidente a una rapida elettrificazione e decarbonizzazione per creare un mercato dipendente e affamato di quelle tecnologie che la Cina produce in condizioni di quasi-monopolio. Una mossa che, viste le decisioni insensate prese dal Parlamento Europeo, sta funzionando benissimo.
L’infiltrazione istituzionale
Ma non si tratta solo di denaro. Pechino agisce anche a livello istituzionale attraverso organismi come il China Council for International Cooperation on Environment and Development (CCICED). Questo consiglio, guidato direttamente dal Consiglio di Stato cinese, si presenta come una piattaforma di cooperazione internazionale, ma un report della Jamestown Foundation lo definisce senza mezzi termini uno strumento di “influenza sotto il manto della cooperazione ambientale”, che permette a Pechino di usare funzionari e rappresentanti occidentali come “figure di prestigio” per promuovere la propria agenda.
E chi troviamo nel consiglio del CCICED? Nomi noti dell’ambientalismo occidentale, come la direttrice della European Climate Foundation e la direttrice generale del WWF, oltre a rappresentanti della Commissione Europea. La Germania stessa è un partner attivo di questo consiglio, promuovendo un “dialogo sulla trasformazione” che, alla luce dei fatti, appare decisamente a senso unico.
Il paradosso delle conferenze sul clima
Questa strategia raggiunge il suo apice nelle conferenze internazionali sul clima. Mentre l’Occidente si impegna in obiettivi di riduzione delle emissioni sempre più stringenti e costosi, la Cina ottiene lo status di nazione a cui è permesso continuare ad aumentare le proprie emissioni. Un paradosso, considerando che Pechino ha ormai superato l’intera Unione Europea per emissioni storiche accumulate di CO₂.
La NATO stessa è allarmata. Il suo centro di comunicazione strategica parla di una “narrazione sistematica” focalizzata sulla “colpa” dell’Occidente, diffusa attraverso “piattaforme straniere” per legare i temi climatici a precisi interessi geoeconomici cinesi.
La conclusione, amara, è che mentre l’Occidente si impegna in una battaglia per il clima, rischia di farlo seguendo una sceneggiatura scritta a Pechino, con l’obiettivo non tanto di salvare il pianeta, quanto di assicurare il dominio economico del Dragone. Il fatto che ora ne parli apertamente la stampa mainstream tedesca è forse il primo passo per prendere coscienza del problema, anche se questa illusione ideologica non sparirà dal mattino alla sera: i soldi in gioco, investiti nel pagare associazioni ambientaliste e giornalisti, sono ancora tanti.
Domande e Risposte per il Lettore
1) In che modo concreto la Cina influenza le politiche ambientali occidentali?
La Cina adotta una strategia a due livelli. Primo, attraverso finanziamenti diretti a organizzazioni non governative (ONG), università e centri di ricerca influenti in Occidente tramite fondazioni come la Energy Foundation China (EFC). Questo crea un consenso accademico e mediatico favorevole a politiche climatiche radicali. Secondo, attraverso la partecipazione e la guida di organismi di cooperazione internazionale come il CCICED, dove riesce a cooptare figure di spicco della politica e dell’associazionismo occidentale, indirizzando l’agenda globale verso soluzioni che favoriscono la sua industria tecnologica.
2) Qual è il vero obiettivo economico della Cina con questa strategia “verde”?
L’obiettivo primario è geoeconomico. Spingendo l’Occidente ad adottare leggi per una rapida e forzata transizione energetica (stop a motori termici, elettrificazione degli edifici, etc.), la Cina crea un mercato di sbocco enorme e dipendente per i suoi prodotti. Pechino domina le catene di approvvigionamento globali di pannelli solari, turbine eoliche, batterie e minerali rari essenziali per la “green economy”. In questo modo, indebolisce la base industriale dei suoi rivali occidentali e rafforza la propria supremazia economica e tecnologica per i decenni a venire.
3) Perché è importante che sia un giornale come Die Welt a parlarne?
È un segnale di svolta cruciale. Finora, analisi di questo tipo erano spesso relegate a pubblicazioni di nicchia o considerate “scettiche”. Il fatto che un quotidiano mainstream, autorevole e vicino all’establishment politico tedesco come Die Welt pubblichi un’inchiesta così diretta indica che la percezione del problema sta raggiungendo il grande pubblico e la politica. La Germania è il motore economico dell’UE e un mercato chiave per la tecnologia cinese. Questa presa di coscienza potrebbe preannunciare un cambiamento nell’approccio, finora piuttosto ingenuo, della politica europea verso la Cina.

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