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IL CASO MPS: LA “CURA” PADOAN-GENTILONI CI E’ GIA’ COSTATA 6 MILIARDI di Luigi Luccarini.

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La divulgazione della lettera BCE del 5 dicembre scorso a MPS ha creato un vero e proprio terremoto nel sistema bancario italiano.

A maggior ragione se si considera che il settore sembrava in lieve recupero dai minimi fatti registrare a dicembre scorso, più o meno gli stessi di fine 2011 (Governo B., tempesta “spread”) e fine 2016 (Governo Renzi, tensioni “referendum”).

Invece eccoci tornati intorno quota 8000, appena un quarto rispetto a quanto valevano le nostre banche tutte insieme nel 2010.

Ma cosa è successo in concreto?

Il 12 gennaio scorso il Sole 24 Ore pubblica un articolo in cui si legge che MPS avrebbe divulgato al mercato per ragioni di “trasparenza” una lettera ricevuta il 5 dicembre da BCE nella quale l’istituto di Francoforte, nell’ambito dei suoi compiti di vigilanza, avrebbe formulato una raccomandazione a Siena che più o meno suona così: “avete 7 anni di tempo per azzerare tutte le sofferenze”.

Apriti cielo.

Non solo MPS da quel momento ha perso il 20% del suo valore, già ridotto abbastanza all’osso, ma le vendite sono tornate a fioccare su tutto il settore, che ad eccezione di Unicredit e Intesaha così visto i suoi players accusare nuovi cali. Anche abbastanza pesanti.

Questo perchè – si è detto – quella lettera fa parte di un addendum rivolto a tutto il sistema bancario italiano, da tempo sotto il tiro di Daniele Nouy, chair del Supervisory Board, ora sostituita dal nostro connazionale Andrea Enria senza che però quest’ultimanomina preluda ad una modifica delle politiche della Vigilanza.

La faccenda insomma è terribilmente seria. Anche perché èdall’ottobre del 2017 che BCE e Commissione EU hanno concordato di adottare nuove misure per contrastare i cosiddetti NPL (“Not performing loans”), richiedendo alle banche, a partire dal 2018, di accantonare capitali per il 100% del valore dei prestiti dubbi entro un paio di anni, che diventano, per l’appunto, sette per la parte coperta da garanzie.

Ovvio che per i nostri istituti si tratta di un’autentica mazzata, visto che il capitolo delle sofferenze rappresenta il loro problema per eccellenza, con il picco raggiunto nel 2015 di aumento del 50% circa rispetto al livello pre-crisi, conseguenza quasi inevitabile della recessione attraversata dal paese.

Nel caso di MPS, ad esempio, parliamo, in base alle ultime valutazioni di bilancio, di NPL per un controvalore lordo di 19,8 miliardi di Euro, coperti per ora al 56%. L’addendum quindi comporterebbe un analogo obbligo per perdite potenziali di 8,7 miliardi di euro, senza tenere conto delle nuove sofferenze eventualmente generate dalla gestione ordinaria. Ma parliamo anche di una Banca che, stando alle valutazioni di venerdì scorso, capitalizza appena 1,4 miliardi di Euro. E che con il continuo precipitare in Borsa non fa altro che aggravare la sua situazione.

Insomma, siamo alle solite.

Da una parte troviamo il sistema bancario italiano, in crisi per colpa di condizioni oggettive (la prolungata scarsa crescita del paese) ma anche di un management spesso non all’altezza – e siamo certamente generosi definendolo così.

Dall’altra BCE che avendo a che fare con le necessità di armonizzare le gestioni del credito di vari Stati, con differenti parametri di efficienza interna, ma anche normative e controlli di settore non sempre omogenei, detta regole di base che non impattano allo stesso modo su tutti.

Volendo c’è una terza parte, quella politica, che dimostra quasi sempre scarsa sensibilità ed avvedutezza nell’affrontare questioni che rivestono invece importanza fondamentale, stante il fatto che, come noto a tutti, il risparmio privato rappresenta la più grande ricchezza vantata dal nostro paese.

Ma andiamo con ordine.

La prima domanda da porsi è più che altro una provocazione.

Era proprio così necessaria la divulgazione della “lettera” BCE in un momento – parliamo della settimana appena trascorsa – in cui molti segnali provenienti dai mercati lasciavano intravedere un possibile rimbalzo su indici e titoli?

Certamente no, almeno per evitare che in tal modo il denaro degli investitori affluisse altrove.

Come poi è accaduto, sia in generale (venerdì Francoforte ha chiuso a +2,62% una seduta in cui a stento il nostro FTSE ha guadagnato l’1%) sia con riguardo ai singoli titoli del comparto, come può vedersi nel raffronto di andamento tra la chiacchieratissima Deutsche Bank e i nostri principali players (i già citati CRDI e ISP).

Detto che questo “pensar male” ricorda un po’ il proverbio andreottiano che forse troppi innamorati dell’idea Europa stanno trascurando, è comunque Giovanni Sabatini, direttore generale di Abi e presidente del Comitato Esecutivo della Federazione Bancaria Europea, intervistato da MF, ad offrire una considerazione in linea con quanto appena fatto notare..
D’altronde quella reazione c’è stata. Forse non così “eccessiva”,ma in ogni caso significativa, perché conferma la tendenza del mercato a trattare le nostre banche “a sconto” ed a venderne i titoli al minimo agitarsi di fronde.

Come pure pare evidente che raccomandazioni e azioni della Vigilanza BCE finiscono quasi sempre per accanirsi principalmente contro di loro, quando poi istituti di altri paesi hanno dimostrato nel tempo fragilità altrettanto gravi, tali comunque rendere necessari ampi interventi di supporto in sede EU.

Come nel caso della crisi delle banche spagnole laddove vennero messe a disposizione risorse per circa 41 miliardi che hanno consentito un ampio processo di ricapitalizzazione e la costituzione di una bad bank pubblica in cui far confluire attività illiquide.

Al contrario, per quelle di casa nostra si è preferito insistere con le richieste di pulizia interna del portafoglio, che hanno portato ad un aumento delle coperture sui crediti deteriorati, ma soprattutto ad una massiccia operazione di cessione a società di recupero, ormai nell’ordine di quasi il 75% di incagli e sofferenze, quando prima della crisi non superavano il 10% delle posizioni di dubbia riscossione.

E qui arriva la seconda domanda: ma questo tipo di soluzione offre veri benefici al patrimonio degli istituti di credito italiani?

Sembrerebbe di no, stando ai risultati di uno studio di Bankitalia che fa notare che nel 2017 il tasso di recupero delle sofferenze recuperate direttamente dalle banche è stato pari al 44%, mentre per quelle cedute si ferma al 26%.

In sostanza il meccanismo della cessione del credito giova soprattutto al cessionario, come dimostra l’andamento del titolo più rappresentativo del ramo, Dobank, in rapporto all’indice di settore (il FTSE Italia All Share Banks).

 

Tutto quindi lascia pensare che il nodo della gestione e della valutazione degli NPL non dovrebbe essere risolto semplicemente tirandoci una riga sopra, come sembra imporre BCE.

Ne è convinto Sabatini e ce lo dice nella sua recente intervista a MF: “noi valutiamo questi crediti sulla base di dati storici e se i precedenti dimostrano che alla fine del settimo-ottavo anno per un prestito garantito ti rimane un valore del 25-30% sarebbe giusto mettere a bilancio questa cifra, non zero, come ti chiede la norma di vigilanza prudenziale”. Ed ancora: “è ovvio che se sto negoziando la vendita di un pacchetto di NPL e nel frattempo cambiano le condizioni regolamentari che ne abbattono il valore di mercato, il compratore abbia tutto l’interesse a fermarsi o a imporre prezzi stracciati. E così il problema non si risolve ma si aggrava. La valutazione dei costi e benefici va fatta anche quando si emanano nuove regole o si fa azione di vigilanza. Ci vuole maggiore equilibrio e forse anche più chiarezza nella comunicazione”.

Anche perché “tra il 2017 e il 2018 ben 164 miliardi di Euro di crediti deteriorati sono stati ceduti ad un ristretto gruppo di operatori, soprattutto internazionali [Dobank è uno di questi in quanto controllata dalla holding multinazionale giapponese SoftBank Group Corp, ndr]. Il fenomeno è stato di entità tale che il vicedirettore generale di Banca d’Italia, Fabio Panetta, a giugno 2017 dichiarava che politiche generalizzate di vendita NPL trasferirebbero risorse a danno di banche italiane in favore di operatori specializzati.”

In effetti delle due l’una: o davvero non c’è valore in questi crediti deteriorati ed allora è incomprensibile l’interesse di altri soggettial loro acquisto in grande quantità, oppure questo valore esiste e quindi appare sconcertante l’insistenza di BCE affinché si operino svalutazioni e cessioni in termini così massicci e, stando al recente addendum, addirittura definitivi.

Che, conseguenza non trascurabile, finiscono per mettere in crisi bilanci ed indici patrimoniali di molte banche, costringendole a forti ricapitalizzazioni, portando ad una massiccia diluizione degli utili e così generando quel disamore degli investitori che stiamo vedendo sul mercato.

E così torniamo a parlare di MPS, da cui eravamo partiti.

Perché si tratta della Banca in cui lo Stato italiano a fine 2016 ha operato un’immissione di denaro pubblico di 6,9 miliardi di Euro, che ha portato alla fine in mano al Tesoro il 68,24% delle sue azioni.

Ebbene, oggi quella quota vale poco più di 1 miliardo.

Stiamo parlando quindi di una minusvalenza da record.

Di cui Padoan e Gentiloni non solo non hanno fortino alcuna spiegazione, ma vorrebbero pure vantarsi, attribuendosi il merito di aver così indicato la strada che l’attuale Governo dovrebbepercorrere nell’ambito dell’operazione di salvataggio di Carige.

E’ evidente invece che i risultati del loro investimento su MPS dovrebbero imporre loro almeno un prudente silenzio.

Anche perché quel decreto fu accompagnato da una gigantesca operazione di cartolarizzazione di crediti che BCE impose di deconsolidare dai conti della banca. Un carico di sofferenze, oltre 20 miliardi di Euro, che venne smobilizzato mediante cessioni a Dobank ed al Gruppo Cerved.

Ma che evidentemente non è bastata per generare pulizia nei conti della Banca.

Nel frattempo MPS è diventata una sorta di “salvadanaio” destinato a fornire liquidità in occasione delle emissioni di Titoli di Stato fino ad arrivare a fine agosto a detenere un ammontare dicirca 21 miliardi di BTP, più del doppio del suo patrimonio.

Ed anche questo rischia di diventare un problema se si considera che a fronte di questo generoso impegno alla sottoscrizione i regolatori europei vorrebbero imporre le banche ad accantonare un minimo di capitale per i bond acquistati, non più valutati “risk free”.

E chiaro quindi che anche per questo motivo il Tesoro, socio più che dominante di MPS, non può ora sottrarsi alle sueresponsabilità. Di gestione, in primo luogo. Ma anche di protezione del capitale a suo tempo così sottoscritto. Almeno di quel poco che ne rimane.

E nello stesso tempo del valore per i residui azionisti. Anche qui, almeno per quel poco che è rimasto.

Per questo diventa incomprensibile il fatto che lo Stato non abbia fornito una tutela alla “sua” Banca, almeno sul piano delle comunicazioni istituzionali.

Anzi sono apparse a dir poco sconcertanti la recente dichiarazione pubblica del sottosegretario Giorgetti, “nelle prossime settimane avremo un problema Montepaschi? Forse sì…” subito dopo la rivelazione della lettera BCE ed il sostanziale silenzio serbato dal resto del Governo sull’addendum (a parte la solita, estemporaneabattuta di Salvini)..

Mentre c’è chi, come la statunitense JP Morgan si è già impegnata a realizzare una sorta di nuovi “stress test” per le banche italiane(https://www.milanofinanza.it/news/jp-morgan-fa-lo-stress-test-alle-banche-aria-di-gacs-sugli-npe-201901180955179498)evidenziando il livello delle ricapitalizzazioni richieste per coprire al 100% gli NPL entro il 2026 in base alle recenti raccomandazioni della Vigilanza di Francoforte.

Così per tutta la scorsa settimana siamo stati accompagnati dalla sensazione che MPS possa saltare in aria da un momento all’altro: proprio ora che la tempesta finanziaria dell’autunno sembra essersi attenuata, i BTP hanno recuperato valore, il carico delle sofferenze appare fortemente diminuito, il management della Banca è quello scelto dal MEF.

Ed è chiaro che il mercato, a queste condizioni, è portato a credereche se una Banca in qualche modo nazionalizzata possa fare quella fine, figuriamoci le altre. E così reagisce vendendo i titolidi tutte. O pretendendo maggior remunerazione in sede di prestiti obbligazionari. In ogni caso aggravando i costi di provvista dei nostri istituti. Che reagiscono nell’unico modo per loro possibile in questa fase: aumentando gli oneri a carico dei loro clienti.

E’ ora di darsi una svegliata, insomma. Lasciando da parte le polemiche politiche, i rinfacci e le beghe da cortile. Tanto c’è ben poco da gonfiarsi il petto da parte del duo Padoan-Gentiloni dopo quanto sta accadendo all’istituto senese.

Ed in ogni caso le questioni sul tappeto stanno diventando troppo importanti perché possano essere affrontate soltanto dopo le elezioni di maggio o, peggio ancora, a novembre quando cambierà la governance BCE. Soprattutto perché fino ad ora si è fatto ben poco per prepararci ad impattarle.

Anzi, a dirla tutta, quasi nulla.

@luigiluccarini


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