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Il Caso Almaviva: la delocalizzazione UE che schiaccia i lavoratori

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Il giorno dopo la drammatica notizia dei 1.666 licenziamenti all’Almaviva Roma, call center del gruppo della famiglia Tripi, vi offriamo una sintesi dei fatti che hanno portato 1.666 famiglie a un Capodanno senz’altro triste.

Premesso che poco c’interessa in questa sede delle responsabilità di Renzi e della sua propaganda sulla “soluzione positiva del caso Almaviva” del maggio scorso, passiamo alla nostra ricostruzione degli eventi recenti.

A marzo il governo costituisce un tavolo per la crisi del settore dei call center italiani, soggetti a concorrenza di paesi italofoni a basso costo (Albania, Romania)  e penalizzato da gare sottocosto sia di privati che della pubblica amministrazione. Il tavolo si riunisce una sola volta. Per quanto riguarda Almaviva:

  1. A fine maggio 2016 si raggiunge un accordo tra Almaviva e sindacati favorito dal MISE con la mediazione del sottosegretario al Lavoro, Teresa Bellanova (sottolineato dal solito post trionfalistico di Renzi), che sembra chiudere una crisi che coinvolgeva piu’ di 3.000 lavoratori
  2. A ottobre Almaviva dichiara perdite per 2 milioni al mese e fa saltare l’accordo, a causa delle “mutate condizioni di mercato e dell’aumentata concorrenza sleale di paesi come l’Albania”. Almaviva denuncia, senz’altro con molte ragioni, sia l’inadempienza del governo che la scarsa collaborazione dei sindacati rispetto all’accordo di maggio.
  3. Dopo una nuova trattativa sempre mediata dal sottosegretario Bellanova, le Rsu di Napoli il 22 dicembre – alle 3 di mattina – firmano al MISE un’intesa con Almaviva che prevede soldi pubblici con la cassa integrazione per tre mesi (gennaio a zero ore, febbraio al 70%, marzo al 50%) e la garanzia, entro il 31 marzo prossimo, di arrivare a un accordo con riduzione sia posti che dei salari.
  4. Le Rsu di Roma non firmano subito e chiedono di far votare i lavoratori. Le RSU di Roma hanno valutato di non avere mandato a firmare un accordo che prevedeva riduzioni salariali e licenziamenti.
  5. La votazione dei lavoratori di Almaviva Roma si tiene 5 giorni dopo l’intesa, il 27/12: vincono i sì all’accordo con 590 voti favorevoli e 473 contrari, e un’affluenza di 1.100 su 1.666. Le attese sono ora che Almaviva blocchi i licenziamenti.
  6. Almaviva invece rifiuta di attendere l’esito del voto e fa partire poco dopo il 22 dicembre le lettere di licenziamento per 1.666 lavoratori, opponendo motivi “di tipo giurisdizionale stringenti e ineludibili”.
  7. A nulla è servito l’incontro del 29/12 al MISE tra Almaviva e i sindacati che portavano la disponibilità a firmare l’accordo.
  8. In definitiva, per 6 giorni di ritardo tra chiusura accordo al MISE e disponibilità a firmare, e per “motivi giurisdizionali stringenti e ineludibili” legati alle procedure di mobilità concluse il 22/12, l’Almaviva licenzia i 1.666 dipendenti di Roma.
  9. I salari dei dipendenti Almaviva Napoli, già molto bassi, dopo l’accordo saranno ridotti in media del 17% in deroga al contratto nazionale … 

Almaviva che ha ottenuto parecchie commesse pubbliche, non ultima quella del Sistri da 260 milioni, lamenta che i prezzi delle gare sono sempre sottocosto rispetto ai contratti nazionali di lavoro. Non possiamo giudicare se questo sia vero in mancanza dei testi dei contratti in questione, ma se lo fosse significherebbe che lo stesso governo ha tollerato pratiche di dumping sociale.

Sorvoliamo sulle gravi responsabilità politiche e analizziamo le ragioni del comportamento di Almaviva. La concorrenza nel settore dei call center è senz’altro feroce, con delocalizzazioni crescenti in paesi comunitari ed extracomunitari.

Il governo ha cercato in ottobre con un emendamento alla Legge di Stabilità di ostacolare le delocalizzazioni in paesi extra-UE, obbligando le aziende che trattano dati personali in paesi extra-UE a comunicarlo al MISE, tagliando loro ogni sussidio e concedendo al cliente che chiama la possibilità di scegliere un operatore residente in Italia. Sarebbero interessati paesi come l’Albania dove operano ben 25.000 operatori di call center a servizio di clienti italiani, con un’espansione geometrica negli ultimi anni.

Ciononostante pochi giorni dopo Fastweb annunciava il trasferimento in Albania di una parte dei suoi call center. La stessa Almaviva ha appena aperto un Call Center in Romania.

Mediamente, in Albania e in Romania un lavoratore di call center guadagna 250-300 euro al mese. Un dipendente italiano con contratto di solidarietà guadagna circa 860 euro al mese per 6 ore di lavoro al giorno, e 550 per 4 ore al giorno.

Ancora meno può fare il governo per LE DELOCALIZZAZIONI IN PAESI UE come la Romania. Qui opera in tutto il suo splendore la logica dell’Unione Europea: mettere in concorrenza al ribasso i servizi “tradable” e garantire la massima mobilità dei capitali. L’obiettivo dichiarato è quello di aumentare la concorrenzialità delle nostre industrie. Il risultato pratico è incremento dei profitti e deflazione salariale.

In sintesi:

  • Nulla importa ai burocrati UE che i posti di lavoro si distruggano in Italia se se ne creano altrettanti in Romania.
  • Nulla importa quindi a questi burocrati che 1.666 persone vengano licenziate da noi, nonostante costo del lavoro minimo grazie a salari da fame da 6.50 euro/ora.
  • Non solo, con i trattati commerciali TISA, CETA e TTIP l’obiettivo era di mettere in concorrenza al ribasso i lavoratori di Americhe ed Europa. Fortunatamente in questo caso il buon Donald Trump ha avuto il mandato dagli elettori USA di fermare il massacro (grazie USA!).

Se chiedete conto a un simpatizzante del PD vi risponderà che non c’è alternativa alla globalizzazione e questo è il prezzo da pagare per l’integrazione europea, e che il lavoratore deve essere mobile come il capitale. In pratica nella logica tecnocratica un lavoratore italiano deve abbandonare casa e famiglia e migrare dalla Romania all’Irlanda seguendo il vento e il contenimento dei costi di un call center.

E come i call center delocalizzano tante industrie e aziende di servizi, oppure semplicemente soccombono alla concorrenza di nazioni a basso salario (elettrodomestici verso l’Est Europa) o a cambio interno artificialmente svalutato dall’euro (auto ed elettronica verso il Nord Europa).

Basta verificare l’andamento relativo  della produzione industriale Italia/Germania post-euro:

Una catastrofe per le nostre imprese, una tragedia per i nostri lavoratori. Ora, secondo voi questa UE vale il prezzo che stiamo pagando?


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