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Economia

I veri fattori che incidono sul calo della produttività italiana

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Ha ragione Giorgia Meloni, quando dice che il calo della produzione non dipende dal governo, ma da fattori esogeni, sui quali la politica economica può fare poco o nulla, come per esempio la grave crisi economica che da due anni sta attanagliando la Germania, nostro primo partner industriale e commerciale europeo. La situazione congiunturale  e geopolitica determina effetti pesanti su un industria come la nostra, che dipende molto dall’export e che soffre di nanismo industriale oltre che di una soverchiante burocrazia e di costi di energia mediamente un 30% piu alti che nel resto d’Europa.

«La produzione industriale non può crescere perché siamo in un contesto di crisi per il commercio intraeuropeo e globale: la domanda dei nostri principali mercati di sbocco, la Germania e la Cina, sono in drammatico rallentamento. Ma nel complesso l’Italia è in grado di difendere la sua posizione di mercato, già nel medio periodo ne uscirà a testa alta». A dirlo  è uno degli economisti che più studiano il nostro tessuto produttivo: Marco Fortis, direttore e vicepresidente della Fondazione Edison nonché docente di Economia Industriale e Commercio Estero all’Università Cattolica.

Bisogna ripartire, secondo il professore, dagli elementi vitali della nostra produzione: settori che continuano a crescere come «i farmaci confezionati, l’alimentare, la cantieristica – continua Fortis – per lo più poco energivori e di nicchia e slegati dalla crisi tedesca. Che ci hanno consentito di scalare nella classifica dell’export, superando la Francia, la Corea e infine anche il Giappone, pur in presenza di un calo del dato assoluto». Insomma, è meno peggio di quel che sembra perché la crisi che stiamo attraversando è esogena, non intrinseca al nostro sistema industriale.”

In altre parole la produzione industriale italiana non può crescere, perché immersa in un contesto di crisi per Germania, Austria e Francia, ma anche dell’Est Europa, con tutto il commercio intracomunitario fermo. Anche l’export extra UE è in frenata. La Cina che per molti produttori occidentali sembrava uno sbocco infinito si è indebolita: per la crisi di un modello che ha raggiunto una specie di saturazione sul fronte del potere d’acquisto delle famiglie, appesantito dalla crisi immobiliare.

C’è stato anche un cambiamento nel modello sociale: che ha portato a una minore ostentazione di prodotti occidentali, anche di lusso, e a una maggiore propensione all’acquisto dei prodotti cinesi. I tedeschi non riescono più a vendere le auto di grande cilindrata e si erano illusi che il mercato cinese fosse eterno: non è così. Anzi, la crisi attuale della Germania dipende anche dal fatto che si sono bloccati due propulsori chiave: ovvero, il mercato auto cinese, che sembrava infinito, si è fermato, così come il gas a buon mercato di Putin. L’Italia risente di tutto questo contesto.

Secondo il Centro studi di Confindustria, nel suo Rapporto Industria dal titolo “Manifattura in trasformazione: rimarrà ancora competitiva?” , sono indicate chiaramente che le criticità strutturali dell’economia italiana sono figlie della debole dinamica della produttività. Tra il 1995 e il 2024, sebbene sia aumentata di più rispetto ai servizi e all’economia in generale, la crescita cumulata della produttività nella manifattura (+26 per cento) è stata significativamente inferiore a quella registrata nei grandi paesi dell’Ue: un terzo rispetto a quella di Francia e Germania (+80 per cento tra il 1995 e il 2024) e meno della metà rispetto alla Spagna (+60 per cento). Se l’Europa in termini di dinamismo e innovazione è il malato del mondo (rispetto a Stati Uniti e Cina), l’Italia è il malato d’Europa.

 

Ci sono anche dei segnali positivi, per certi versi sorprendenti: ad esempio, le medie e grandi imprese italiane sono più produttive delle omologhe tedesche, francesi e spagnole. Il problema è che sono troppo poche: in Italia solo il 42 per cento del valore aggiunto manifatturiero è generato da grandi imprese, mentre in Germania è il 75 per cento, in Francia il 74 per cento e in Spagna il 50 per cento. Al contrario, le micro e piccole imprese – che sono molto meno produttive – rappresentano in Italia il 30 per cento del valore aggiunto, il triplo rispetto alla Germania e il doppio rispetto alla Francia.

Ed ecco allora che accusare il governo Meloni per il calo di produttività appare quantomeno ingeneroso se non strumentale, considerando come la situazione congiunturale sia la principale causa di un un calo che dura comunque da oltre un ventennio.

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza rappresenta il fulcro di qualsiasi strategia di rilancio. Con oltre 36 miliardi di euro gestiti dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy (inclusi i fondi del Piano Nazionale Complementare), il PNRR mette a disposizione risorse senza precedenti per aggredire le debolezze strutturali del sistema produttivo. Lo strumento più innovativo e potente di questa strategia è il piano

Transizione 5.0, che dispone di una dotazione di 6,3 miliardi di eurom  segna un cambio di paradigma rispetto al passato. Non si limita a incentivare l’acquisto di tecnologie digitali (come faceva Transizione 4.0), ma lo condiziona al raggiungimento di un obiettivo misurabile di efficienza energetica: per ottenere il credito d’imposta, l’investimento in beni 4.0 deve generare una riduzione certificata dei consumi energetici di almeno il 3% per l’intera struttura produttiva o del 5% per il processo interessato. In questo modo, il piano affronta simultaneamente due problemi: il ritardo nella digitalizzazione e l’insostenibile costo dell’energia, incentivando anche l’installazione di impianti per l’autoproduzione da fonti rinnovabili.

L’importanza di questo approccio non va sottovalutata. Esso costringe le imprese, in particolare le PMI, a un salto di qualità manageriale. Non è più sufficiente acquistare un nuovo macchinario; è necessario ripensare l’intero processo produttivo in un’ottica sistemica, analizzare i dati sui consumi e riprogettare i flussi per ottimizzare l’uso delle risorse. Transizione 5.0, quindi, non è solo un sussidio, ma una leva strategica per indurre un cambiamento profondo nei modelli di business, spingendo le imprese verso quella riorganizzazione olistica dei processi che è il vero motore della competitività.

Il calo del 23% della produzione industriale italiana non è un dato congiunturale, ma il sintomo di patologie strutturali profonde e interconnesse: un costo dell’energia insostenibile, un fardello burocratico-fiscale oppressivo, una frammentazione eccessiva del tessuto produttivo e un deficit di innovazione applicata. La situazione è critica, ma non irreversibile.

Il Paese si trova a un bivio storico. La combinazione della potenza di fuoco finanziaria del PNRR, della leva strategica di Transizione 5.0 e del modello collaborativo e vincente dei distretti industriali offre un arsenale di strumenti unico per orchestrare una vera e propria rinascita manifatturiera. La sfida, oggi, non è più la mancanza di risorse o di diagnosi, ma la capacità di esecuzione.

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