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Il Bitcoin visto da Cambridge di Paolo Savona

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Nel 2017, la grande novità della finanza è stata l’evoluzione delle criptovalute da mezzi di pagamento a strumenti di investimento a fini speculativi. I Bitcoin, che delle numerose criptovalute in circolazione sono stati i progenitori, hanno registrato una crescita vertiginosa delle quotazioni da suscitare l’attenzione dell’Accademia.

L’Università di Cambridge (UK) ha dato vita al Centre for Alternative Finance che ha condotto e reso pubblica una ricerca che fotografa la situazione delle criptovalute, un mercato giustamente considerato alternativo alla finanza tradizionale; essa si è avvalsa delle informazioni raccolte da un team guidato da Garrick Hileman e Michel Rauchs presso 144 società e professionisti operanti nel settore e delle riflessioni contenute in circa 300 articoli scientifici sull’argomento che hanno indotto gli autori a suddividere il mercato composto oggi da 4.037 criptocurrency in Bitcoin veri e propri, Altcoin (che li imitano senza innovare, come Ethereum) e le dApps/0ther (che innovano lo strumento e la tecnica usata blockchain). Il titolo della ricerca è Global Criptocurrency Benchmarking Study che, in parole povere, significa che lo scopo perseguito è individuare quale di queste monete telematiche funge da riferimento del mercato. Il risultato è quasi scontato: sono i Bitcoin che svolgono questa funzione leader, anche se il loro peso è sceso nell’ultimo biennio dall’86 al 72% del totale delle criptovalute.

Lo studio è la più articolata esposizione dello stato e dell’evoluzione di questo settore del mercato globale e fornisce dati che smentiscono la tesi dei banchieri centrali di una situazione non ancora matura per essere regolata, che questo giornale ha ripetutamente contrastato invitando le autorità a vedere oltre la punta del loro naso. L’interpretazione che esse non abbiano niente a che fare con le “pazzie” raggiunte dai valori dei Bitcoin e delle altre criptovalute viene sconfessata, non solo per i motivi da noi addotti che i regolamenti emanati in materia e l’avvio dei contratti future ne hanno legittimato l’esistenza, ma perché è emerso che il 52% delle piccole operazioni e 35% delle grandi sono fatte da società autorizzate a operare dalle autorità.

Lo studio di Cambridge cala quindi una pietra tombale sulla tesi della non responsabilità delle autorità di governo e di controllo per l’esplodere della Bitmania e il suo possibile crash.
Tuttavia, anche questo meritevole Centro di ricerca non trae tutte le implicazioni macroeconomiche che portano a sostenere che le criptovalute non vanno proibite o sottoposte a vincoli lasciando le cose come stanno sui mercati tradizionali, ma occorre che lo Stato si impossessi dello strumento e della tecnica del blockchain per dare vita a un nuovo sistema dei pagamenti, di investimento dei risparmi e di concessione del credito. Il tema viene solo sfiorato dalla ricerca condotta, forse perché è stata promossa dalle carte di credito Visa, ma anche finanziata da 91 società private operanti nel settore e altre che non hanno voluto rendere pubblico il sostegno, tutte interessate allo sviluppo delle criptocurrency a prescindere dalle loro implicazioni di sistema, secondo la visione miope che prevale sul loro futuro.

Prima di esporre qualche utile, ancorché noioso dato statistico, anticipiamo telegraficamente i capisaldi delle conclusioni, che gli stessi promotori considerano striking and thought-provoking (attraenti e stimolanti intellettualmente):
✓ le criptocurrency si sono evolute da moneta in attività finanziarie telematiche nelle quali investire con intenti speculativi, quindi ad alto rischio, con conseguenze sul funzionamento del mercato monetario e finanziario ordinario;
✓ esse operano sia a livello globale che locale, con una concentrazione elevata all’atto della nascita (le “miniere”) nelle province della Cina del Nord, nel Nord America, in Alaska e nella City di Londra;
✓ la tecnologia blockchain – la catena di blocchi di informazioni di operatori dotati di una propria esclusiva chiave di accesso, su cui si fonda la nascita e la vita delle criptocurrency – rappresenta solo la prima applicazione di questa metodologia alla finanza con potenzialità per ogni altra attività economica; questa si può considerare la vera grande innovazione telematica del secondo decennio del terzo millennio;
✓ i gestori dei wallet (portafogli digitali che contengono criptocurrency in forma diversa dai Bitcoin) hanno poteri di congelare i conti e quindi ingerirsi nel meccanismo per sanzionare eventuali violazioni, creando rischi per la sicurezza del sistema; essi offrono anche servizi a pagamento diversi dalla sola custodia.

I principali dati statistici indicano che:
• a metà 2017, dopo meno di 10 anni dalla nascita e prima dell’impennata dei prezzi dei Bitcoin, il loro valore complessivo in circolazione era di 27 mld di dollari, un valore pari a quello creato dall’informatica della mitica Silicon Valley. Oggi dovrebbero aver raggiunto in metà anno cinque-sei volte quel valore;
• i partecipanti al mercato delle criptovalute vengono stimati attualmente tra i 3 e i 6 milioni, ma il numero è in rapida espansione;
• gli impiegati diretti nel settore è minimo (1879 persone, di cui il 13% addetti alla sicurezza del sistema), perché fanno tutto i possessori di criptovalute con i loro computer in collegamento con computer centrali decentralizzati di almeno 120 gigabyte di potenza di memoria. Il settore è a basso uso di lavoro umano e a elevato capitale capace di creare “ricchezza e profitti scritturali”;
• si stima che esistano da 6 a 8 milioni di wallet, l’80% dei quali prevedono il ritorno alle valute nazionali delle criptovalute possedute, una intercambiabilità che ha potenziali effetti destabilizzanti anche sulla politica monetaria e sugli andamenti della finanza ordinaria;
• ogni giorno nascono 144 nuovi blocchi di criptocurrency, non tutti caratterizzati dalle proprietà di sicurezza dei Bitcoin;
• i pagamenti effettuati con le criptocurrency si basano per il 79% sui rapporti intrattenuti con banche, suscitando in prospettiva conflitti relazionali con le unità non bancarie per il loro tentativo di fagocitare l’intera attività;
• il costo delle transazioni in criptocurrency, che nel 2014 era ancora modesto, per alcune inesistente, è salito mediamente al 6% circa, con guadagni per gli operatori del settore nettamente più elevati della finanza ordinaria.
Un ampio spazio della ricerca è dedicato alla sicurezza del sistema, base fondamentale sia della sopravvivenza di questo mercato perché opera su esclusive basi fiduciarie, sia dell’attrattività che esso esercita sulle risorse provenienti dalla criminalità, agevolandone l’investimento.

La ricerca del Centro di Cambridge è ricca di dettagli sui diversi aspetti di questo nuovo mercato secondo un’ottica macroeconomica di tipo puramente aggregativo. Esso, tuttavia, torna utile per definire una politica di riforme delle istituzioni monetarie e creditizie, nonché forme di tutela del risparmio diverse e più efficaci rispetto a quelle esistenti.

Paolo Savona, Milano Finanza 6 gennaio 2018


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