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I nazionalisti scozzesi hanno le chiavi di Downing Street?

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I sostenitori del bipartitismo in Italia citano sovente il Regno Unito come modello di alternanza perfetta tra due partiti, Conservatori e Laburisti, questo modello di alternanza perfetta, favorito dal sistema uninominale a turno unico, che ha dominato la politica albionica negli ultimi ottant’anni sembra però essersi ormai guastato in maniera irrimediabile.

Il processo di declino dei due poli storici ha per la verità le sue radici negli anni ’80 quando la nascita del partito Liberal-Democratico presentò la prima seria sfida al duopolio conservatore-laburisti. Nei primi anni ’80 una corrente centrista del Labour lasciò la casa madre per costruire un’alleanza con il partito Liberale, erede degli storici Whigs e a partire dagli anni ’20 schiacciato nell’irrilevanza dal dupolio Tories-Labour.

Nel 1983 questa curiosa coalizione arrivò a un passo dal sorpasso al Labour ottenendo il 25% dei suffragi contro il 27% del Labour. In termini di seggi però il risultato della coalizione centrista fu assai meno entusiasmante, la scarsa organizzazione territoriale del futuro partito Liberal-Democratico diede alla coalizione appena il 4% dei seggi. Nel 1988 la coalizione prese l’attuale nome di partito Liberal-Democratico e mantenne negli anni a venire un consenso abbastanza stabile tra il 17% e il 23% dei consensi, raccogliendo i voti degli scontenti di ambo i poli e progressivamente migliorando anche il rapporto tra voti e seggi, pur restando sempre assai sotto-rappresentato rispetto ai due partiti di massa.

Nel 2010 però l’incantesimo del bipartitismo perfetto si ruppe improvvisamente, i Conservatori si ritrovarono con una maggioranza relativa dei seggi e furono costretti a stringere un patto di coalizione proprio con i Lib-Dem di Nick Clegg dando vita al primo governo multipartitico degli ultimi 65 anni.

Sebbene durante il quinquennio del governo Cameron la coalizione governativa abbia guidato una discreta ripresa economica del Regno Unito, il governo è divenuto rapidamente impopolare. Come spesso accade l’impopolarità si è scaricata principalmente sul partner “junior” della coalizione, ovvero i Lib-Dem, che hanno visto evaporare i loro consensi e navigano, nelle rilevazioni nazionali attorno al 7%. Ma a vincere i consensi della protesta non è stato il partito Laburista, che nelle rilevazioni è impantanato in un testa a testa all’ultimo voto con i Tories, bensì altre formazioni emergenti.

A livello nazionale la destra euroscettica dello UKIP e i Verdi hanno raccolto i voti di protesta. La formazione di Nigel Farage è accreditata del 14% dei consensi e dovrebbe diventare il terzo partito in termini di voto popolare. Anche i Verdi sono in ottimo stato di salute e i sondaggi accreditano agli ecologisti circa il 6% del voto popolare. Purtroppo però il sistema uninominale puro renderà vita difficile a UKIP e Verdi che difficilmente vedranno aumentare i seggi a loro disposizione in parlamento, rispettivamente due per l’UKIP e uno per i Verdi.

Ciò che in questo momento sta monopolizzando il dibattito politico è infatti l’ascesa sorprendente dei nazionalisti scozzesi. Sconfitti al referendum per l’indipendenza di settembre, gli indipendentisti sono sorprendentemente tornati alla carica e al centro del dibattito politico britannico. Da metà anni ’60 difatti le terre al di là del Vallo di Adriano sono un vitale bacino di voti e seggi per il Labour. Nelle ultime quattro tornate elettorali il dominio Laburista in Scozia si è ulteriormente accentuato grazie alla candidatura alla premiership di due scozzesi, Tony Blair prima e Gordon Brown poi. Alle scorse elezioni per il parlamento britannico il Labour ha ottenuto 41 dei 59 seggi scozzesi raccogliendo il 42% del voto popolare, mentre i Nazionalisti si fermarono al 20% dei voti e 6 seggi.

La fine della leadership scozzese nel Labour da un lato, e il dibattito sull’indipendenza dall’altro sono i due ingredienti che stanno facendo collassare la sinistra britannica in Scozia. Il recente referendum sull’indipendenza ha segnato un’importante spaccatura tra l’elettorato laburista e la dirigenza del partito in Scozia. Se infatti la dirigenza del Labour si è spesa fino allo spasmo per mantenere nell’Unione il fortino scozzese, arrivando per l’occasione perfino a riesumare dal sarcofago la mummia di Gordon Brown, l’elettorato del Labour si è diviso a metà sulla questione. Enigmatico il caso di Glasgow, la più popolosa città della Scozia si è espressa a sorpresa a favore dell’indipendenza, contravvenendo agli ordini del Labour, che nella politica di quella città esercita un’egemonia assoluta da oltre trent’anni.

Se da un lato la campagna unionista del Labour è riuscita a mantenere la Scozia nell’Unione, dall’altro ha definitivamente alienato al partito il voto degli indipendentisti che, stando alle intenzioni di voto, si tufferanno tra le braccia dello Scottish National Party. Appare ormai chiaro che tra pochi mesi l’egemonia laburista in Scozia sarà spazzata via in un colpo solo. I sondaggi più ottimisti per il Labour assegnano all’SNP un vantaggio di dieci punti, altri danno ai Nazionalisti addirittura la maggioranza assoluta dei consensi. Insomma, non è una questione di “se” i Nazionalisti spazzeranno via il Labour dalla Scozia, è una questione di quanto dura sarà la batosta. Una batosta imprevista e clamorosa che impedirà, ancora una volta, la formazione di una maggioranza monocolore a Westminster. Chi tra Tories e Labour uscirà con una maggioranza relativa dalle urne dovrà fare i conti con in Nazionalisti scozzesi, che otterranno dai 40 ai 50 seggi, risultando fondamentali per la formazione di un governo a Londra.

Quali condizioni porranno gli indipendentisti scozzesi, e cosa riusciranno a strappare è tutto da vedere, ma al di là della Manica si prospettano tempi alquanto interessanti e curiosi.


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