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FARE LA GUERRA GIUSTA

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 Robert Kagan ha scritto sul Washington Post(1) un pregevole articolo nel quale sostiene che gli Stati Uniti sono stati impegnati in moltissimi conflitti armati, dal 1898 in poi, e perfino con maggiore frequenza di prima negli ultimi lustri. E si chiede se abbiano usato troppo spesso la forza o se non l’abbiano usata abbastanza. O anche se non l’abbiano usata troppo poco (primi anni della Seconda Guerra Mondiale, ad esempio) per poi usarla perfino troppo generosamente dopo. Insomma ci sarebbe un effetto “pendolo” tra l’inazione e l’attivismo. Né si può dire che il pacifismo assicuri la pace, ché anzi, a volte, il non aver agito prima, quando la minaccia era piccola, ha costretto gli Stati Uniti ad agire poi con molto maggiore sforzo e maggiore spesa. Oggi tutti giudicano la guerra in Iraq un errore, ma a suo tempo, ricorda Kagan, essa fu votata da settantasette senatori su cento, anche democratici. Non si può affermare a priori che l’uso della forza sia un errore. Come disse George Schultz quando era Segretario di Stato, “La forza e la diplomazia vanno sempre insieme… La dura realtà è che la diplomazia non sostenuta dalla forza è inefficace”.

Anche la conclusione di Kagan è da segnalare: “La questione oggi è di trovare il giusto equilibrio fra quando usare la forza e quando non usarla. Possiamo senza rischi assumere che la risposta sta da qualche parte fra sempre e mai”.

L’articolo è certo interessante ma lascia l’insoddisfazione di un banchetto in cui, da un piatto all’altro, ci saremmo aspettati sempre qualcosa di migliore. Tutte le incertezze di cui parla il grande editorialista, tutti gli errori di giudizio degli uomini di Stato, tutti i riferimenti storici non forniscono infatti indicazioni per il futuro. Inutile dire a qualcuno: “Fai la cosa giusta”, perché in questo modo gli si lascia soltanto l’intera responsabilità dell’eventuale errore. Chi agisce – o non agisce – pensa sempre di fare la cosa giusta. Il problema fa tornare alla mente il vecchio detto: “Allah, dammi la forza di sopportare i mali contro cui non posso lottare, Allah, dammi la forza di lottare contro i mali contro cui posso vincere, Allah, dammi la saggezza di distinguerli”. Ed è proprio questo il punto.

Il passato non fornisce indicazioni univoche rispetto al futuro. La stessa riuscita azione audace dell’uno, se non ha successo può divenire la prova dell’avventatezza di un altro: e tutti sapranno spiegare perché già da prima si sarebbe dovuto capire che i due casi erano differenti. La misura della difficoltà di identificare “la cosa giusta” per il futuro è data già dalla difficoltà di identificare “la cosa giusta” per il passato. In campo storico le discussioni a volte sono vivaci come se si trattasse di avvenimenti recenti: quale fu la principale causa della caduta dell’impero Romano? Che cosa avrebbe potuto salvarlo, qual era “la cosa giusta” da fare? Il Terrore fu una necessità o una crudele follia?

La valutazione del passato è opinabile. Di una guerra andata male si può sempre dire che la situazione sarebbe ancora peggiore se non la si fosse combattuta, come si può dichiarare inammissibile inerzia un non intervento, se le conseguenze sono tragiche. Benché il trattato di pace glielo consentisse, la Francia, ancora piena di orrore per la Prima Guerra Mondiale, non intervenne nella Ruhr per frenare il riarmo tedesco: e ciò, invece di assicurarle la pace, le procurò l’invasione tedesca e quattro anni di servaggio. Il pacifismo generò la guerra. E tuttavia, parlandone al futuro, non sarebbe stato chiamato warmonger, guerrafondaio, e coralmente stramaledetto, chi allora avesse insistito per vedere l’esercito francese varcare la frontiera con la Germania?

Siamo abituati a giudicare i fatti del passato dalle loro conseguenze evidenti, ma dimentichiamo troppo spesso che, sul momento, chi agiva le conseguenze non le immaginava neppure. Ironizziamo sull’Invencible Armada, ma chi può dire se l’hanno battuta gli inglesi o la tempesta? E quale sarebbe stato il risultato dello scontro, senza la tempesta? Nutriti da migliaia di film americani in cui il solo parlare spagnolo rendeva ridicoli, siamo tutti pronti a ironizzare su quell’impresa. Invece i contemporanei, prima che il maltempo della Manica ci mettesse lo zampino, non l’avranno certo pensata così. Anche i giapponesi non hanno mai dimenticato di essere stati salvati da un forte vento, che ha dato il nome ai kamikaze.

L’articolo di Kagan è inutile, a meno che non ne traiamo una lezione di tolleranza nei confronti di chi deve decidere. Non è detto che altri avrebbero fatto meglio. E molto – come diceva Machiavelli – dipende dalla fortuna.

Gianni Pardo, pardo.ilcannocchiale.it

17 luglio 2014

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(1)http://www.washingtonpost.com/opinions/robert-kagan-us-needs-a-discussion-on-when-not-whether-to-use-force/2014/07/15/f8bcf116-0b65-11e4-8341-b8072b1e7348_story.html


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