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GLI ERRORI DELLA CASSAZIONE NELLA SENTENZA A FAVORE DI CAROLA RACKETE (Di Domenico Caruso)

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La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 112 del 20.02.2020, ha rigettato il ricorso proposto dalla Procura della Repubblica di Agrigento avverso l’ordinanza del GIP di non convalida dell’arresto in flagranza eseguito dai militari della Guardia di Finanza del comandante della Sea Watch 3 Carola Rackete per i reati di cui agli artt. 1100 cod. nav. (resistenza o violenza contro nave da guerra) e 337 c.p. (resistenza a un pubblico ufficiale).

Per il primo reato, i giudici di Piazza Cavour, hanno ritenuto non sussistente l’elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice poiché la motovedetta della Guardia di Finanza non è da considerare “nave da guerra” atteso che al suo comando vi era un Sottufficiale con i gradi di maresciallo e non un Ufficiale di Marina; per il secondo reato è stata ritenuta sussistente la causa di giustificazione dell’adempimento di un dovere (art. 51 c.p.) nel caso specifico il dovere di prestare soccorso e salvare chiunque si trovi, per mare, in situazioni di pericolo.

A tal fine, la Corte Regolatrice ha richiamato il quadro normativo internazionale e le varie convenzioni internazionali che sanciscono il dovere di prestare soccorso ai naufraghi e di portarli in un “luogo sicuro” ragion per cui la Rackete non aveva altra scelta che quella di disobbedire agli ordini impartiti dalle autorità italiane che, vietando l’ingresso in porto della Sea Watch, intendevano far rispettare le norme del decreto sicurezza bis e del Testo Unico in materia di contrasto all’immigrazione illegale.

La ricostruzione operata dalla Corte di Cassazione presta il fianco ad alcune critiche in virtù del fatto che le convenzioni internazionali richiamate nella sentenza sono state concepite e si applicano nei confronti di unità navali impegnate in autentiche operazioni di soccorso in relazione a reali situazioni di pericolo e non certo a imbarcazioni di ONG il cui scopo dichiarato è far sbarcare in Italia migranti irregolari con operazioni nelle quali tutte le attività poste in essere sono prodromiche alla creazione di uno stato di necessità funzionale all’elusione delle normative nazionali di contrasto all’ingresso illegale nel territorio dello Stato.

E’ verità processuale risultante da diverse sentenze di legittimità (per tutte Cassazione, sentenza n. 41225/2019) quella secondo la quale i trafficanti operanti in Libia che organizzano il trasporto via mare dei migranti a bordo di imbarcazioni prive di ogni sistema di sicurezza creano deliberatamente situazioni di pericolo tali da obbligare il soccorso secondo quanto stabilito dalle convenzioni internazionali e, per questa via, intendono “ strumentalizzare gli obblighi convenzionali al fine di realizzare, attraverso le operazioni di soccorso marittimo e il trasbordo dei passeggeri sulle imbarcazioni all’uopo utilizzate, l’obiettivo perseguito fin dall’inizio, ovvero, appunto, il raggiungimento del territorio italiano”.

Nessuno può negare che la Sea Watch navigasse nella zona Sar di competenza libica alla ricerca di “naufraghi” soccorsi il 12 giugno per poi fare rotta verso le acque territoriali italiane ed entrare il 26 giugno nel porto di Lampedusa con il tentativo di speronamento della motovedetta della Guardia di Finanza che intendeva impedire l’attracco al molo.

E’ di tutta evidenza che la permanenza in mare per ben 14 giorni, il mancato sbarco dei migranti nei più vicini porti libici, tunisini, maltesi o in porto olandese (lo Stato di bandiera della Sea Watch), la pervicace ostinazione del comandante della nave ad approdare solo in Italia rifiutando soluzioni negoziate, rappresentano circostanze univoche che consentono di escludere con ragionevole certezza la sussistenza di pericoli attuali e concreti per la vita dei migranti e la configurabilità, nel caso di specie, dell’esimente dell’adempimento di un dovere.

Una riflessione deve essere fatta sulla manovra di accosto della Sea Watch con la motovedetta della Guardia di Finanza che cerca di frapporsi tra la nave della ONG e il molo. I finanzieri a bordo hanno dichiarato che il comandante della nave ha manovrato con le eliche di prua non facendo nulla per evitare la motovedetta che si è dovuta allontanare in tutta fretta per evitare la distruzione.

Mi chiedo come mai la Procura di Agrigento non abbia contestato il tentato omicidio dal momento che dirigere una nave di oltre 600 tonnellate contro una piccola motovedetta è da considerare atto idoneo diretto in modo non equivoco a commettere un delitto che solo per un soffio non si è consumato grazie al disimpegno dei finanzieri.

In questo caso sarebbe stata ritenuta operante la causa di giustificazione dell’adempimento di un dovere?

Vorrei tanto che gli ermellini rispondessero a questo interrogativo.


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