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Attualità

Giorgio La Pira: “La cosa più importante nelle politiche economiche? Le attese della povera gente”

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di Davide Gionco

Condividiamo questo estratto del libro “La dignità del lavoro” di Federico Caffé, in cui il grande economista parla di Giorgio La Pira, politico democrastiano del dopoguerra, nonché terziario domenicano e francescano.

Federico Caffé riporta a sua volta un estratto da “Cronache sociali”, n. 1 del 15.04.1950.

La visione cristiana dell’economia di La Pira e di altri politici del tempo, che metteva al centro le persone con i loro bisogni, fu il motore del poderoso sviluppo economico italiano negli anni ’50-’60-’70.
Da quando, a partire dagli anni ’80, si sono affermati in Italia modelli economici che mettono al centro la “competitività” e non la solidarietà, è iniziato il declino dell’economia italiana.

Vorremmo consigliare la lettura di questo testo a tutti i politici che sono convinti che la priorità sia corrispondere alle esigenze dei “mercati.

Buona lettura.


La politica economica e finanziaria del Vangelo

I.

L’attesa della povera gente (disoccupati e bisognosi in genere)? La risposta è chiara: un governo a obiettivo, in certo modo, unico: strutturato organicamente in vista di esso: la lotta organica contro la disoccupazione e la miseria.

Un governo, cioè, mirante sul serio (mediante l’applicazione di tutti i congegni tecnici, finanziari, economici, politici adeguati) alla massima occupazione e, al limite, al “pieno impiego”.

Altra attesa “rispetto al governo” la povera gente né aveva, né ha: senza saperlo essa fa propria la tesi dell’”Economist” del febbraio scorso: il “pieno impiego” è l’imperativo categorico fondamentale di un governo che sia consapevole dei compiti nuovi affidati agli Stati moderni.

Ma volere seriamente la massima occupazione e, al limite, il pieno impiego, significa accettare alcune premesse e volere alcuni strumenti senza l’uso dei quali non è possibile raggiungere quel fine.

II.

C’è anzitutto una premessa di natura squisitamente cristiana: è vano “per un governo “parlare di valore della persona umana e di civiltà cristiana, se esso non scende organicamente in lotta al fine di sterminare la disoccupazione e il bisogno, che sono i più terribili nemici esterni della persona.

Il documento inequivocabile della presenza di Cristo in un’anima e in una società è stato definito da Cristo medesimo: esso è costituito dalla intima ed efficace “propensione” di quell’anima e di quella società verso le creature bisognose.

Vi sono disoccupati? Bisogna occuparli. La parabole dei vignaioli è decisiva in proposito: tutti i disoccupati che nelle varie ore del giorno oziavano forzatamente nella piazza “perché nessuno li aveva ingaggiati: nemo nos conduxit!” furono occupati; esempio caratteristico di “pieno impiego”: nessuno fu lasciato senza lavoro (Mt. 20,7).

Vi sono creature bisognose? Affamati? Assetati? Senza tetto? Ignudi? Ammalati? Carcerati? Bisogna tendere ad essi efficacemente il cuore e la mano (Mt. XXV, 31-46): l’esempio di questa “propensione” all’intervento è fornito dal Samaritano: scese da cavallo e prese minutamente cura del ferito (Lc. 34).

E si badi: non si tratta soltanto (come spesso si crede) di atti di carità confinati nell’orbita di azione di singoli: impegno di amore, cioè, che investe soltanto le singole persone: no, si tratta di un impegno che parte dai singoli e che investe l’intiera struttura e la essenziale finalità del corpo sociale.

Costruire una società cristianamente significa appunto costruirla in modo che essa garantisca a tutti il lavoro, fondamento della vita, e, col lavoro, quel minimo di reddito necessario per il “pane quotidiano” (cioè vitto, alloggio, vestiario combustibile, medicine, per sé e per la propria famiglia).

Solo così si può realizzare il fine che san Tommaso assegna a una società cristiana: garantire a tutti la possibilità di quel “riposo” restauratore e della preghiera che è l’atto che segue. Per dir così, al lavoro, che costituisce l’operazione ultima, la più delicata e la più pacificante e gioiosa della persona.

E’ questa una premessa che gli uomini di governo devono tener ferma nella loro mente: stella polare della loro azione politica, giuridica, finanziaria: dar lavoro a tutti, dare il pane quotidiano a tutti; sopra queste finalità prime, improrogabili, elementari, deve essere costruito l’intero edificio dell’economia, della finanza, della politica, della cultura: la libertà medesima, respiro della persona, è in certo modo preceduta e condizionata da queste primordiali esigenze del lavoro e del pane.

Orazione fondamentale del Signore: Dacci oggi il nostro pane quotidiano!

 

III.

Questa fondamentale premessa cristiana è, del resto, convalidata da una altrettanto fondamentale premessa economica: premessa, è vero, che non vige nell’orbita dell’economia classica, ma che è posta a base di tutto l’edificio dell’economia nuova: la disoccupazione è un consumo senza corrispettivo di produzioneè perciò, uno spreco di forze produttive (oltre che essere un disastramento morale e spirituale della persona).

E la ragione è evidente: i disoccupati esistono, se esistono devono vivere, per vivere devono consumare. Consumare senza produrre: è questo il paradosso economico della disoccupazione.

La povera gente “che ha buonsenso” non si dà pace quando riflette su questa incongruenza dell’attuale struttura dell’economia: ma come, con tante case da costruire, con tante terre da bonificare, con tanti beni essenziali da produrre, con tante “aree depresse” da elevare, si può permettere l’esistenza di tanti milioni di braccia operose?

E si tenga conto, inoltre, del fatto del “moltiplicatore”: per uno che cessa di lavorare cessano di lavorare altri (concetto tecnico in Di Fenizio, Economia politica, pp. 456 e segg.).

Come mai sia possibile questo vero “impazzimento” economico e morale la povera gente non lo capisce; essa comprende che c’è qualcosa di specioso, di fondamentalmente errato, nella risposta inumana che comunemente si dà per giustificare questo triste fenomeno della disoccupazione: Non c’è denari!

Il problema è complesso, si sa, ma una soluzione positiva di esso non può non esistere. La Provvidenza dà in proposito un insegnamento sicuro: per ogni bambino che nasce, nascono due fonti di latte destinate ad alimentarlo!

E poi c’è sempre l’altra risposta: Mancano i danari? Eppure vivere bisogna, per vivere bisogna consumare e per consumare bisogna spendere: quindi, in ultima analisi, i danari si trovano sempre, necessariamente!

Qui viene proprio da dire: più che i danari manca l’impegno necessario per mettere in circolazione il talento unico messo sotto terra! E’ un problema di “dinamica” della volontà, della tecnica inventiva, della finanza, dell’economica, della politica.

Che queste intuizioni della povera gente (basate sulle cose e sul Vangelo) non siano scientificamente errate lo dimostra l’impostazione delle più moderne teorie economiche.

Sentite Beveridge (Relazione §198) che riporta da Keynes: “E’ meglio occupare gente a scavare buche e a ricolmarle che non occuparla affatto (cfr. §301): le persone occupate inutilmente daranno occupazione ad altre con quello che guadagnano e spendono. E’ meglio occupare gente, comunque venga trovato il danaro per pagarle, che non occuparle affatto: l’ozio forzato è uno spreco di risorse materiali e di vite umane che non potrà mai essere rimediato e che non può difendersi con ragioni di ordine finanziario”.

A proposito del “moltiplicatore”, il Beveridge soggiunge: “Ogni atto ha una catena infinita di conseguenze; perciò l’atto di dare impiego a un disoccupato e di pagargli un salario non si esaurisce lì. L’uomo che viene assunto e percepisce un salario superiore alla somma che egli riceveva a titolo di sussidio per la disoccupazione o di assistenza (quando la riceve!) spenderà per la maggior parte o interamente il suo reddito addizionale in beni e servizi forniti da altri e darà occupazione ad altri. Costoro a loro volta avranno un reddito maggiore: ne spenderanno una parte dando luogo a una nuova occupazione e così via. Fintanto che in una comunità vi saranno dei disoccupati, il dare un’occupazione retribuita a uno di essi aumenterà il numero degli occupati di più di una unità, e aggiungerà alla produzione nazionale più di quello che egli da solo produce. L’effetto primo verrà moltiplicato grazie ai secondi e ai terzi effetti”.

Questa premessa economica “che indica l’occupazione come essenziale finalità di un’economia sana a causa degli incrementi produttivi che necessariamente ad essa si collegano” è ora divenuta la stella polare della politica economica dei più grandi Stati del mondo: prescindendo dagli Stati a struttura comunista, ad essa si ispirano la Gran Bretagna (con la politica del pieno impiego sostanzialmente condivisa da tutti i partiti) e gli stessi Stati Uniti di America. L’obiettivo della massima occupazione sta alla base della politica economica che gli Stati Uniti perseguono all’interno e all’estero: il piano ERP medesimo non esiste, in ultima analisi, senza un intrinseco rapporto con tale obiettivo.

Occupare tutte le unità lavorative, e quindi incrementare la produzione e, con essa, il tenore di vita degli uomini: è l’imperativo categorico che si impone agli Stati e ai governi del tempo nostro (“Economist”, cit.).

 

IV.

Se la disoccupazione deve essere eliminata “obiettivo fondamentale di uno Stato moralmente, socialmente ed economicamente sano “devono essere voluti e usati i mezzi per eliminarlo: questi mezzi si riassumano in uno solo: la spesa.

E infatti cosa è, in ultima analisi, la disoccupazione? Spesa non fatta: occupazione e disoccupazione si analizzano in queste posizioni: spesa che determina occupazione e, quindi, produzione; carenza di spesa che determina deficienza nella domanda dei beni e quindi disoccupazione, e quindi, carenza di produzione.

Il perno di tutta la nuova teoria economica sta qui, Keynes esplicitamente lo dice: l’occupazione dipende dalla spesa, e la spesa può essere di due specie: spesa di consumi, spesa per l’investimento. Quel che viene risparmiato, ossia quel che non viene speso in beni di consumo, crea occupazione soltanto se viene investito, o cioè speso per accrescere l’attrezzatura di beni capitali, quali le fabbriche, i macchinari, le navi, o ad accrescere le scorte di materie prime (Beveridge, op. cit. §120). Proporzionare la spesa “e, quindi, la produzione” alla occupazione: ecco il problema.

 

V.

Anzitutto, chi opererà questo proporzionamento? Basterà, cioè, che lo Stato decida alcuni provvedimenti finanziari economici e politici a favore dell’iniziativa privata perché si operi automaticamente la spesa voluta e, perciò, il desiderato assorbimento della manodopera disoccupata?

No: che lo Stato abbia il dovere di favorire l’iniziativa privata in modo da orientare, stimolarne e accelerarne il ritmo produttivo e, quindi, la capacità di spesa e di occupazione, non c’è dubbio; ma non v’è parimenti dubbio che per questa via indiretta non si opererà mai il pieno impiego della manodopera: “l’automatico proporzionamento” è una di quelle pseudoarmonie economiche che l’esperienza dolorosa e permanente della disoccupazione ha sempre smentito.

“La rivoluzione operata nel pensiero economico da J.M. Keynes” dice Beveridge, op. cit. §140, ”e aiutata dall’esperienza degli anni dopo il 1930 sta nel fatto che non viene più assunta come sicura l’adeguatezza della domanda di manodopera. L’analisi keynesiana porta alla conclusione che, anche astraendo dalla depressione ciclica, vi può essere deficienza cronica o pressoché cronica nella domanda complessiva di manodopera, per cui la piena occupazione si presenta fuggevolmente in casi rari (cfr. §25; §120 e §126).

Non bastano, quindi, i provvedimenti del primo tipo: bisogna prenderne altri di tipo diverso. Bisogna, cioè, che lo Stato intervenga direttamente con un piano organico di investimenti capaci di operare, a scadenze determinate, il graduale assorbimento della manodopera disoccupata; questi “massicci” investimenti pubblici costituiscono, del resto, uno stimolo efficacissimo per gli investimenti privati.

Il proporzionamento, perciò, della spesa all’occupazione non può essere determinato e attuato che dallo Stato: spetta al governo la determinazione del quanto della spesa (in base al numero discriminato dei disoccupati), calcolando la parte di spesa indiretta (operata dall’iniziativa privata per effetto dei provvedimenti di cui si è parlato) e quella di spesa diretta (mediante piani organici di attività produttiva pubblica).

Circa il numero discriminato dei disoccupati, Fanfani (in “Oggi”, 2 marzo 1950) ci dà alcuni dati che possono essere una base per il calcolo della spesa. “Grosso modo”, egli dice, “detratta la disoccupazione temporanea fisiologica o di frizione, ci sono in Italia un milione e seicentomila uomini, donne e ragazzi maggiori di 14 anni che vorrebbero guadagnarsi il pane e non possono. Rimossi alcuni dei ricordati ostacoli (di cui egli ha parlato prima), l’iniziativa privata potrebbe ridurre i senza lavoro a un milione e quattrocentomila: ai duecentomila giovani fra i 14 e i 18 anni in esso compresi si dovrebbe provvedere con corsi di addestramento professionale spendendo venti miliardi. Per dar lavoro al restante milione e duecentomila occorrerebbe nel primo anno disporre in media di seicento miliardi di lire”.

I calcoli di Fanfani sono quelli di un realizzatore: di uno, cioè, che vuole fare e che, pur non nascondendosi l’estrema difficoltà dell’impresa, è deciso ad attuarla ad ogni costo; sono calcoli fondati sulla realtà e lievitati dalla speranza (per chi agisce a favore dei propri fratelli c’è sempre, immancabilmente, una provvidenza materna che diventa moltiplicazione misteriosa ma reale di aiuti: è un’attiva incognita finanziaria ed economica di cui bisogna sempre tener conto, come dato certo, nella definizione dei bilanci). I disoccupati sono forse di più? Ci vogliono più di seicento miliardi? Ma il problema si pone in altro modo, e cioè: se si spendono realmente, produttivamente e rapidamente (spezzando tutte le invecchiate e arteriosclerotiche resistenze della burocrazia) seicento miliardi di investimenti pubblici, si riuscirà davvero “il lavoro produce lavoro!” a occupare circa un milione di disoccupati; ma un milione di disoccupati occupati significa una vera rivoluzione economica nel nostro Paese. C’è il “mistero” produttivo del moltiplicatore (la moltiplicazione dei talenti, non bisogna mai dimenticare il valore reale del Vangelo!): un milione di occupati in più significa la scomparsa quasi integrale della disoccupazione in Italia.

 

VI.

Ma la spesa pubblica non esclude quella privata, anzi la presuppone: perché la disoccupazione sia assorbita è necessario che sia orientata, stimolata e accelerata la spesa privata. Bisogna, anzi, in certo modo, calcolare il volume di spesa che deve essere prodotto da questo stimolo e da questo acceleramento: ai seicento miliardi preventivati di spesa pubblica bisogna aggiungerne altri di spesa privata. Quanti? La risposta non è facile a darsi: se usiamo i criteri di Fanfani, possiamo dire non meno di cento miliardi.

L’obbiezione di fondo è facile: una nuova spesa privata di queste dimensioni in una situazione di “depressione” economica come quella attuale? Con una politica finanziaria che è orientata verso la contrazione della circolazione della spesa? Con un’instabilità grave di tutto il settore agricolo dove l’impiego e la circolazione del capitale provato tendono, in certo senso, a sparire?

La risposta è chiara: questa nuova spesa privata suppone l’eliminazione di questi gravi ostacoli allo “scorrere” del risparmio verso gli investimenti: suppone, cioè, un cambio di orientamento nella politica finanziaria ed economica (monetaria, creditizia, fiscale) del governo; e suppone anche una stabilizzazione sociale nel settore dell’agricoltura: pensare meno alle leggi “che servono poco” e più alla spesa “che serve molto” (costruzione di case, industrializzazione delle culture, bonifica dei terreni incolti e, in genere, stabile occupazione del bracciantato).

Dette queste cose “che concernono il governo” bisogna dirne altre che concernono i privati: il risparmio ha valore solo come strumento di spesa capace di creare nuova occupazione e, quindi, nuova produzione. Altra legittimità sociale esso non possiede: è una legge economica (il risparmio è di per sé un fatto puramente negativo: significa non spendere; il risparmio in sé non ha alcuna virtù sociale. La virtù sociale del risparmio da parte di una persona dipende dal fatto che vi sia qualche altro che desidera spendere tale risparmio. Beveridge, op. cit. §123), ed è anche una legge della vita morale: Non vogliate tesaurizzare, dice categoricamente il Vangelo (Mt. VI, 19). La condanna del risparmiatore avaro è tremendamente rappresentata nel pauroso che empì i suoi granai senza pensare alla morte che lo attendeva (Lc. XII, 16): risparmiare per spendere o far spendere (il talento non doveva essere sotterrato ma almeno consegnato ad altri capaci di metterlo a frutto (Lc. XIX, 22; Mt. XXV, 14-30); questa è la “politica economica e finanziaria” del Vangelo.

Ecco ciò che i privati possessori di risparmi devono capire: è una tremenda responsabilità quella che grava sopra di loro, morale ed economica insieme: perché il risparmio non speso equivale a lavoro mancato e, quindi, a disoccupazione aumentata.

Ecco perché il problema del risparmio “cioè il problema delle fonti di spesa” è il problema fondamentale, in certo modo, di una comunità statale: sopra di esso poggia, appunto, come su una base, l’edificio della piena occupazione (cfr. Beveridge, op. cit. §124).

Ma la disoccupazione creata o aumentata significa lesione grave dell’ordine morale, dell’ordine economico e dell’ordine sociale; su questa lesione, come sul terreno propizio, si radicano le piante parassite dell’odio e del sovvertimento (cfr. Beveridge, Prefazione).

 

VII.

Bisogna spendere: deve spendere lo Stato, devono spendere i privati. Ma come? Disordinatamente o, invece, organicamente, cioè alla stregua di certi programmi di produzione che si distendono nel tempo (spesa pianificata a lungo termine?). La risposta è ovvia: spendere organicamente secondo piani determinati (Beveridge, §32, p. 202; §209). Non bisogna lasciarsi impressionare dalle parole: “pianificare” significa mettere ordine, orientare verso uno scopo; significa che il sistema economico e finanziario di uno Stato, anzi “l’intero sistema economico e finanziario e mondiale” non può più essere lasciato a se stesso, ma deve essere finalizzato in vista di scopi proporzionati all’occupazione e ai bisogni essenziali dell’uomo. Lo stesso piano ERP, in ultima analisi, ad altro non dovrebbe mirare. Chi vuol costruire saldamente una casa e chi vuol fare efficacemente una guerra (qui: guerra efficace alla disoccupazione e alla miseria) deve “pianificare” la propria azione affinché essa dia un risultato felice (Lc. XIV, 28).

Quali obiettivi avranno questi piani? Evidentemente essi saranno scelti secondo un criterio di priorità sociale (Beveridge, §35; pp. 198, 214 e segg.). Vi sono dei bisogni essenziali che attendono di essere rapidamente soddisfatti: case da costruire (perché non estendere e accelerare i piani esistenti?), energia da produrre, terre da bonificare, aree depresse da industrializzare; quanto bene da compiere, quanto amore concreto da seminare, quanta speranza e quanta gioia da donare!

 

VIII.

Come finanziare questi piani? Dove trovare i danari occorrenti per questa spesa? Ecco: prima di rispondere a queste domande “che potrebbero provocare la risposta pigra: non ci sono i danari perché il bilancio dello Stato è in deficit “bisogna fare una premessa: l’ozio forzato è uno spreco di risorse materiali e di vite umane, che non potrà mai esser rimediato e che non può difendersi con ragioni di ordine finanziario (Beveridge, §198). Bisogna capovolgere il modo comune di impostazione del problema, cioè proporzionare la cassa alla spesa e la spesa all’occupazione; si comprende, è un’impostazione del problema che esige un grande sforzo di riflessione, di volontà creatrice. Partire dall’uomo, cioè dal fine, non dal danaro, cioè dal mezzo.

E’ questa un’impostazione secondo il Vangelo (perché una impostazione umana dell’economia attira la benedizione di Dio e opera dei veri miracoli, incognita di ogni calcolo generoso!) ed è anche un’impostazione economicamente sana (perché tra l’altro i danari per dar da vivere ai disoccupati bisogna trovarli necessariamente).

Questa impostazione esige che il Ministro del Tesoro (o quello del Bilancio o quello delle Finanze) rovesci, per dir così, il suo modo usuale di considerare la finanza dello Stato e il bilancio dello Stato; tale bilancio deve essere compilato con riferimento non più al danaro ma al potenziale umano disponibile: tanti uomini da occupare, tanti danari da spendere. Deve diventare un bilancio a “scala” umana (Beveridge §182).

Questo “rovesciamento”, del resto, non è poi così nuovo nella politica economica e finanziaria dei grandi Stati moderni: a parte gli Stati a struttura comunista, i grandi Paesi dell’Occidente (dalla Gran Bretagna all’America) costruiscono ormai i loro bilanci “anche se con graduazioni diverse” in vista del pieno impiego e del più alto tenor di vita della popolazione.

E allora in concreto cosa fare? Ecco, bisogna cominciare: chi ben comincia è a metà dell’opera! Il Ministro del Tesoro lo sa, basta iniziare con poco per muovere molto: con appena duecento milioni di erogazioni effettive (a tutto dicembre 1949), il piano case Fanfani ha già provocato investimenti effettivi, e quindi lavoro, per dieci miliardi di lire!

Dove trovare le “fonti”, le “buche” nelle quali stagna il risparmio? Vorrei fare queste domande: si può sinceramente affermare che il fondo lire non avrebbe potuto costituire (e non lo può ancora) “intelligentemente manovrato” una fonte preziosa di tanto lavoro produttivo?

Una manovra veloce di trecento miliardi avrebbe potuto, in questi due anni, portare tanta acqua al terreno arso della nostra disoccupazione (per uno studio attento e non certo sospetto, cfr. Valerio in “Rivista di Politica economica”, gennaio 1950).

E poi c’è l’altra faccia del fondo lire: quella dell’impiego dei dollari ERP per l’acquisto di attrezzature industriali: anche qui quale pigrizia e, cioè, quanto lavoro impedito e quanta produzione non ottenuta (dice Valerio p. 21: “L’Italia è, quindi, al penultimo posto, seguita solo dalla Germania per la quale sono evidenti le giustificazioni”).

Ancora: e quei 466 miliardi di debitori diversi (situazione Banca d’Italia al 31 dicembre 1949) cosa rappresentano? Le famose valute pregiate? Ma non è un assurdo questa euforia di crediti esteri mentre all’interno facciamo languire, per mancanza di spesa e, quindi, investimenti, due milioni di uomini? Faccio mie questa parole pensose (E. Cambi in “Rivista bancaria”, sett.-ott., p. 78 a proposito del non uso del fondo lire): “Considerata la disoccupazione che si lamenta e poiché è certa l’esistenza di materiali, o in ogni caso sicura la possibilità di approvvigionarli, l’utilizzazione dei messi finanziari, con risultati provvidi ed efficaci, si presenterebbe del tutto piana e naturale, oltre che necessaria. In sostanza esiste un importante, diremo fondamentale, strumento per dare, in varie forme, alla vita economica del Paese impulso e vigore, e non si usa o si stenta a usarlo. E’ saggio?”.

Ancora: si può sinceramente dire di avere “inventariato” tutte le banche nelle quali stagnano miliardi di risparmio inoperoso? Ha mai il Ministro del Tesoro avuto in proposito qualche colloquio con i dirigenti delle massime banche italiane che sono tutte, o quasi, dello Stato?

Ancora: e il ricorso a prestiti esteri? E lo sfruttamento razionale del patrimonio demaniale? E il metano? Quante terre incolte, quanti beni inoperosi!

Un buon amministratore mette a profitto ogni cosa per dar incremento alla sua azienda e lavoro ai suoi operai.

Quante altre cose da dire: problema dei residui passivi, problemi delle aziende Iri, problema del Fim, dell’Imi, e così via.

Conclusione. Non è serio dire: Non ci sono danari per fare investimenti e, quindi, per dare lavoro. Bisogna dire: Per trovare i danari bisogna dare una frustata energica a tutto l’apparato economico finanziario dello Stato, bisogna svegliarlo dal sonno e dalla pigrizia in cui è immerso, ricordandogli che a quel sonno e a quella pigrizia corrispondono: a) il disastramento morale di due milioni di disoccupati; b) una riduzione del reddito nazionale di almeno cinquecento miliardi all’anno. E bisogna finirla con lo spauracchio che viene sempre messo innanzi per impaurire i gonzi: quello dell’inflazione!

Si sa, non bisogna fare inflazione; ma l’inflazione è una cosa seria, non è quella cosa giornalistica che viene sbandierata ogni giorno.

E infatti: inflazione significa danaro senza cose, rappresentante senza rappresentato; ma se le cose ci sono e c’è il danaro che le rappresenta, dov’è l’inflazione? Se cresce la popolazione (e, quindi, la spesa) è chiaro che deve crescere anche “a parità di velocità di circolazione “il volume del danaro che circola. L’inflazione c’è soltanto quando alla crescita della circolazione “a parità di velocità” non corrisponde una crescita proporzionata della produzione. E’ così chiaro!

E allora: se spendo un milione di lire per costruire un milione (anzi più) di case, o per bonificare un milione di terra, o per produrre un milione di energia, dov’è l’inflazione?

Il “vuoto inflazionistico” viene definito dall’ammontare di moneta che la collettività cerca di spendere… “in eccedenza al suo reddito di piena occupazione e al di sopra del valore delle merci realmente prodotte” (Di Fenizio, op. cit., p. 473).

L’inflazione, invece, la produce proprio la disoccupazione, perché disoccupazione significa, in ultima analisi, produzione mancata contro spesa fatta (per mantenere in vita i disoccupati): cioè danaro senza cose!

E infine non bisogna dimenticare una cosa essenziale del sistema finanziario attuale: i fenomeni non si producono più ad arbitrio di questo o di quel Paese. Le monete sono ormai legate in un organico sistema di dimensioni mondiali: descrivono l’orbita di un piano definito (orbita del dollaro a Occidente, del rublo a Oriente). E quindi, inflazione e deflazione non sono più fenomeni che si operino “automaticamente”: sono fenomeni provocati, negoziati, regolati. Il mercato della moneta è, ormai, esso pure regolato.

I danari, anche se in proporzioni modeste, ci sono: ecco il punto di partenza. Si tratta di iniziarne il movimento e di manovrarlo opportunamente nel tempo. E che i danari ci siano è, infine, rilevabile inequivocabilmente da questo fatto semplicissimo: due milioni di disoccupati gravano annualmente, sul bilancio nazionale, per una somma che va dai 250 ai 300 miliardi (da L. 300 a L. 400 al giorno ciascuno):questo è un fatto che nessuna argomentazione economica, finanziaria, politica o metafisica può cancellare.

 

IX.

Ma tutto questo presuppone una cosa: che lo Stato si assuma questo compito nuovo di assicurare ai cittadini il lavoro (e il pane che ne deriva) e, quindi, di “regolare” adeguatamente, attraverso la spesa, la domanda di lavoro (Beveridge, §180; §372; §31). L’assunzione di tale compito fondamentale produce trasformazioni profonde nella struttura del governo in genere e in quella dei Ministeri finanziari (e della spesa) in ispecie.

Il governo diventa così davvero quello che già san Tommaso preconizzava: l’architetto del bene comune; il garante, per tutti, del lavoro e del pane.

Questi mutamenti strutturali del supremo organo del potere esecutivo portano mutamenti strutturali in tutto l’apparato amministrativo dello Stato: i congegni burocratici costruiti cento anni or sono e destinati a finalità di dimensioni estremamente piccole e totalmente diverse da quelle attuali non possono certamente portare il peso di compiti così nuovi e così vasti; ci vuol altro che “l’inchiostro nero” ancora richiesto per firmare le quietanze del Tesoro!

 

X.

E infine: nell’attesa che tutto questo avvenga bisogna provvedere alla immediata spesa dei dieci miliardi che spettano “per l’anno 1949-50 “al Ministero del Lavoro per i cantieri di rimboschimento, cantieri scuola, corsi di qualificazione e riqualificazione. E bisogna provvedere all’erogazione dei quindici miliardi già maturati a favore del piano case e all’erogazione di tanti altri miliardi già stanziati e che stagnano nelle “sacche” della burocrazia (lavori pubblici, agricoltura, trasporti, poste, marina mercantile).

Spesa fatta, occupazione creata, produzione incrementata, sofferenze lenite, energie e ricchezza moltiplicate, benedizioni di Dio ricevute! Vale proprio la pena.


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