Politica
LE FRONTIERE NON SONO PIU’ SACRE
A chi ha rischiato di morire, in aereo, in ascensore o in mare, si consiglia di risalire in aereo, di riprendere subito un ascensore e di andare immediatamente per mare. Lo scopo è chiaro: si tratta di esorcizzare quel pericolo confermando che, di solito, non avviene niente di speciale, e di non permettere che la paura riesca a farsi un tale nido, nell’anima, che non si abbia più il coraggio di attività normalissime.
E tuttavia l’animo umano offre esempi di un effetto opposto del passaggio del tempo. Si dimenticano i dolori passati e si rivestono di rosa future conquiste, anche se al prezzo di prove che, sul momento, avevamo giurato di non volere più affrontare. Qualcuno ha detto che, se le donne hanno più d’un figlio, è perché hanno cattiva memoria.
Avviene anche sul piano collettivo. La Prima Guerra Mondiale produsse in Francia un tale disgusto della morte e della guerra, da provocare un pacifismo suicida, con i risultati che si videro nel 1940. In quel gigantesco massacro i tedeschi non avevano patito di meno, e fu proprio in Germania che fu pubblicato quell’autentico, immortale manifesto contro le illusioni della retorica che è “Niente di nuovo sul fronte occidentale”. E tuttavia, forse perché quella guerra, oltre che patirla, l’avevano anche perduta, appena dieci anni dopo la pubblicazione del libro di Remarque, i tedeschi scatenarono il più tremendo conflitto di tutti i tempi, di cui proprio loro finirono col pagare il massimo prezzo.
Stavolta però la lezione fu efficace per molto più tempo, e per l’intero mondo civile. Non fu più nemmeno necessario essere pacifisti, anche se ci furono Paesi, come l’Italia e il Giappone, che l’irenismo lo iscrissero addirittura nella loro legislazione. L’orrore per la guerra aveva creato una nuova mentalità. Essa non era più tremenda, era inverosimile, assurda, obsoleta. L’opinione pubblica l’aveva espulsa dalla storia. Prova ne sia che anche di fronte alle ingiustizie più assurde nessuno pensò più di riprendere le armi. Si sopportò a ciglio asciutto lo spostamento verso ovest di un intero Paese, la Polonia. La perdita di grandi territori, per la Germania. L’annessione dei Paesi baltici e la schiavitù dell’intera Europa orientale. Senza dimenticare la repressione nel sangue del legittimo anelito di libertà degli ungheresi, nel 1956. Qualunque bruttura, qualunque prevaricazione, ma non la guerra. Le frontiere erano divenute intangibili non perché “giuste”, ma perché toccarle avrebbe potuto creare pericoli che nessuno era più disposto a correre.
Il tempo è passato. Settant’anni dopo soltanto i vecchi al di sopra degli ottanta hanno un’idea di ciò che sia la guerra. Per gli altri è un sostantivo incontrato nei libri di storia. Si è dimenticato perché per tanti decenni le frontiere siano state considerate intangibili e si è ridata dignità a parole che parevano passate di moda come l’irredentismo, l’autodeterminazione dei popoli, il nazionalismo. La Russia di Putin – anche per riscattare il basso grado di credibilità cui l’avevano condotta il crollo dell’Unione Sovietica, l’audacia incoraggiata dalla vodka di Yeltsin e la debolezza borghese di Gorbaciov – ha da anni deciso di ritrovare la sua dignità imperiale e i presunti diritti ad essa connessi. Si è visto con la politica seguita nel Caucaso, e poi in Crimea, e poi in Ucraina. I rapporti internazionali, che sembravano ridotti ad una serie di congressi di Vienna, hanno ricominciato a rendere meno sereni i nostri sonni. I Paesi baltici, che speravano di avere archiviato il servaggio imposto dal troppo ingombrante vicino, vivono momenti di ansia. Indubbiamente la Nato, di cui si sono precipitati a far parte, ha l’obbligo di soccorrere militarmente qualunque Stato membro che sia aggredito. E se, venuto il momento, non lo facesse? I patti delle alleanze valgono quanto vale l’interesse a tener loro fede.
Forse assistiamo alla fine di un’epoca. I russi crederanno in buona fede di avere ragione, nel sostenere i fratelli di nazionalità ucraina; saranno perfino comprensibili, dal punto di vista psichiatrico, per il loro complesso di accerchiamento: certo è che stanno scoperchiando il Vaso di Pandora. Il nome di questa donna significava “tutti i doni”, ma lo scrigno che lei aprì conteneva tutti i mali, tutti i guai che può dare la fine del pacifismo incondizionato.
Naturalmente il sentimento della sacralità delle frontiere, per decenni considerate intangibili, era soltanto un pregiudizio. Forse nulla è sacro, e certo non lo sono le frontiere. Ma se la conseguenza di quell’errore era la pace, si potrebbe definire quell’errore il più benefico della storia.
Probabilmente alla Russia andrà bene, perché, come diceva La Fontaine, “la raison du plus fort est toujours la meilleure”, la ragione del più forte è sempre la migliore: ma se riuscirà a mangiare fino al torsolo questa mela, non è detto che non abbia a pentirsene. Quando la storia si rimette in moto, non si sa mai chi calpesterà.
Gianni Pardo, [email protected]
8 febbraio 2015
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