Su Foreign Policy il prof. P. Chovanec, della Columbia University, ribadisce che il problema dell’eurozona sono gli squilibri tra i paesi, non i debiti pubblici. In questo senso, la Germania è il paese più sbilanciato di tutti, e una sua uscita dall’euro sarebbe la soluzione migliore, come già da tempo ha chiarito il Manifesto di Solidarietà Europea.
Di Patrick Chovanec, 20 Febbraio 2015
Lo scorso anno, la Germania ha registrato un surplus commerciale record di 217 miliardi di euro, seconda solo alla Cina nel dominio globale delle esportazioni. Per alcuni, questo fa della Germania un faro luminoso in un’economia dell’eurozona altrimenti anemica — un “fattore di crescita,” come la definisce il ministro delle finanze tedesco, Wolfgang Schäuble. In realtà, le croniche eccedenze commerciali tedesche sono al cuore dei problemi dell’Europa; anziché stimolare l’economia globale, la stanno trascinando a fondo. Il modo migliore per porre fine a questa situazione perversa è che la Germania lasci l’eurozona.
Di solito i tedeschi rispondono a tali accuse con una sorta di disorientamento risentito. Abbiamo eccedenze commerciali, spiegano pazientemente, semplicemente perché siamo molto più competitivi rispetto alla maggior parte dei nostri partner commerciali. Potete incolparci, chiedono, se il mondo preferisce acquistare le superiori merci tedesche (e non hanno nulla di desiderabile da darci in cambio)? Quindi il ragionamento è questo: il resto del mondo deve solo migliorare, fare i compiti a casa e diventare un po’ più simile alla Germania. Nel frattempo, non ci dovete odiare perché siamo bravi e belli…
Contrariamente a quanto sostiene la mitologia popolare, tuttavia, non c’è assolutamente alcuna ragione per cui l’essere “competitivi” costringa ad avere un avanzo commerciale.
Già nel 1817, l’economista David Ricardo spiegò che il miglior presupposto per il commercio è avere un vantaggio comparato, non assoluto. In altre parole, anche se un paese è più bravo a fare tutto, dovrebbe esportare ciò che sa fare meglio e importare quello in cui è meno competitivo. Avere un vantaggio generalizzato non implica che sia economicamente sensato produrre tutto in casa propria, e men che meno vendere più di quello che si desidera avere in cambio. O, per dirla in modo un po’ diverso, non esiste una ragione intrinseca per cui guadagnare di più non possa significare spendere di più, consumando beni pubblici e privati, nonché investire di più in capacità produttiva futura.
Le eccedenze commerciali si hanno quando un paese sceglie di spendere meno di quanto produce — quando ha un eccesso di risparmio, che va oltre la sua necessità di credito interno. L’eccesso di risparmio viene prestato all’estero, finanziando così la possibilità di un altro paese di spendere più di quanto produce e, con un deficit commerciale, acquistare la produzione eccedente del suo finanziatore. È vero che un paese altamente produttivo potrebbe avere le risorse per produrre un eccesso di risparmio, mentre un paese meno produttivo potrebbe essere incline a prendere in prestito anziché trovare i risparmi di cui ha bisogno. Ma fondamentalmente, gli squilibri commerciali nascono non da un vantaggio competitivo, ma da delle scelte su quanto risparmiare e su dove distribuire il risparmio — in patria o all’estero.
In alcune circostanze può avere senso riportare degli squilibri commerciali? Certo che sì. Nel XIX secolo, la rivoluzione industriale della Gran Bretagna le ha consentito di ottenere grandi profitti dall’aumento della produzione, parte dei quali sono stati investiti negli Stati Uniti. Questo denaro prestato all’economia americana in rapida crescita ha generato rendimenti superiori a quelli che avrebbe prodotto in patria, creando al contempo un mercato di sbocco per le merci britanniche. I potenziali guadagni di produttività hanno creato una situazione “win-win”: aveva senso per gli americani prendere in prestito e per i britannici concedere prestiti. Ma questo caso evidenzia anche una cosa che è facile dimenticare: avere un avanzo commerciale significa finanziare il deficit commerciale di qualcun altro.
La crisi dell’Eurozona è spesso definita una crisi di debito. Ma, in realtà, l’Europa nel suo complesso non ha avuto un problema di debito estero, ma un problema di debito interno: le eccedenze commerciali tedesche e il crescente debito nella periferia europea erano le due facce della stessa medaglia.
I tedeschi hanno risparmiato (molto), e la moneta unica li ha indotti — anziché a risparmiare di meno o a investire questi soldi in patria — a prestarli ai loro partner commerciali dell’eurozona, che li hanno usati per acquistare merci tedesche. Nel 2007, il surplus commerciale tedesco aveva raggiunto i 195 miliardi di euro, tre quinti del quale proveniva dall’eurozona. Berlino può anche chiamarla “parsimonia”, ma non si può dire che l’eccesso di risparmio della Germania, che spesso le sue banche avevano difficoltà a mettere a frutto, sia stato investito bene. Al contrario, esso ha dato ai tedeschi l’illusione della prosperità, scambiando lavoro reale (che si riflette nel PIL) con cambiali di carta che potrebbero non essere mai ripagate.
Qualcosa doveva cambiare, ma cosa? Normalmente, ogni paese avrebbe perseguito la propria politica monetaria, contando sugli aggiustamenti del cambio per spostare la localizzazione della domanda, da quei paesi che non possono permettersela a quelli che invece potrebbero. Con una moneta unica, però, questo aggiustamento non si è potuto verificare. Allora, i debitori europei sono stati costretti a ridurre drasticamente la domanda, attraverso una combinazione di austerità fiscale e rientro dal debito. I loro disavanzi commerciali con la Germania sono calati sensibilmente — ma a causa di minori importazioni, non di maggiori esportazioni. Tutti i cosiddetti PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) hanno visto crollare il loro commercio complessivo con la Germania — nel caso di Grecia e Irlanda, di più di un terzo. Così, il riequilibrio avvenuto in Europa, è avvenuto a scapito della crescita.
L’Eurozona è finita in trappola. I paesi europei avevano bisogno di muoversi in direzioni diverse, ma sotto una moneta unica si sono trovati costretti allo stesso passo. In Europa “vivere nei limiti dei propri mezzi” ha voluto dire una Germania che ha continuato a risparmiare più di quanto consumava, anziché sostenere la tanto necessaria domanda di beni. L’allentamento monetario — e un euro più debole — si limitano semplicemente a deviare gli squilibri interni dell’Europa verso l’esterno. Il surplus commerciale della Germania con gli Stati Uniti è esploso (aumentando del 49% tra il 2007 e il 2013) e i deficit nei confronti di Cina e Giappone sono collassati (riducendosi del 71% e del 78% rispettivamente). Nel frattempo, la bilancia commerciale della Germania con il Brasile e la Corea del Sud si è capovolta, da deficit a surplus.
A partire dal 2012, praticamente tutta la crescita del PIL dell’eurozona, su base annua, è arrivata dalle esportazioni nette — ulteriore conferma della debolezza della domanda interna europea come motore di crescita. È discutibile, tuttavia, se affidarsi all’accumulo di ulteriore debito da parte degli americani — e rischiare che essi vadano nella direzione della Grecia — sia in realtà una strategia affidabile. In linea di principio, ha più senso ridurre il deficit commerciale dell’Europa con la Cina. Ma in pratica, questo ha voluto dire non tanto intercettare il mercato cinese di consumo di massa quanto vendere macchinari e beni di lusso nel boom cinese degli investimenti alimentati dal credito, che in se stesso è rivolto al mantenimento dell’enorme avanzo commerciale verso gli Stati Uniti. La questione non è — come spesso viene presentata — cosa sia giusto – ma cosa sia sostenibile. E una situazione in cui gli americani interpretano il ruolo di “consumatori di ultima istanza” del mondo, continuando a prendere soldi in prestito e vivendo al di sopra dei propri mezzi, non è sostenibile.
Quindi che cosa si dovrebbe fare? La soluzione migliore – e la meno probabile — è che la Germania esca dall’euro e permetta al nuovo marco tedesco di rivalutarsi. In questo, l’esperienza degli Accordi di Plaza del 1985 dà qualche speranza. Mentre uno yen più forte ha raschiato appema la superficie del surplus commerciale strutturale del Giappone, il comportamento tedesco si è rivelato molto più sensibile agli incentivi derivanti da un marco più forte.
L’anno scorso, i politici tedeschi si sono dimostrati molto più disposti a provare ad aumentare la domanda innalzando il salario minimo, tagliando l’età pensionabile e aumentando le pensioni — mosse che potrebbero funzionare, ma rischiano di danneggiare la produttività, che in definitiva è all’origine della capacità di consumo della Germania . Perversamente, quegli stessi politici si rifiutano di tagliare le tasse o aumentare la spesa pubblica, cosa che nel 2014 ha portato la Germania a conseguire il suo primo bilancio federale in pareggio dal 1969, un anno prima del previsto. Per la maggior parte dei tedeschi, qualsiasi riferimento al fatto che questa disciplina fiscale dovrebbe essere allentata puzza di sregolatezza in stile greco, ma c’è un altro modo di vedere la questione. L’eccesso di risparmio è già lì; l’unica domanda è “dove” prestarlo. Un indebitamento sul mercato interno per guidare una vera ripresa europea potrebbe essere preferibile a buttarlo (ancora una volta) all’estero, in modo che gli altri comprino cose che in realtà non possono permettersi.
Con una popolazione che invecchia, forse è comprensibile che i tedeschi vogliano risparmiare. Ma non c’è alcuna ragione intrinseca per dirigere quel risparmio all’estero quando c’è una urgente necessità di distribuirlo in casa. La «crescita» guidata dalla Germania finanziando squilibri commerciali insostenibili — all’interno e all’esterno dell’eurozona — è un’illusione. È una crescita presa in prestito, solo per un po’. Per la Germania, e per il mondo, è un cattivo affare.