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Euro crisis

Foreign Affairs: Le ragioni contro l’”Europa”

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Post di Voci dall’estero di Malachia Paperoga 

Cartoon by David Simonds. Angela Merkel's hard line on debt threatens the euro project.

Sir Noel Malcom, storico e giornalista inglese di grande fama, già nel 1995 aveva chiara l’impossibilità storica e politica di procedere verso gli Stati Uniti d’Europa. Con dei chiari e semplici ragionamenti, prevedeva inevitabilmente quanto si sta oggi verificando: il dogmatismo filo-“europeo”, il paternalismo delle élite che svuota la democrazia, l’egemonia tedesca, la spinta verso l’opacità e la corruzione, le conflittualità e paralisi della politica estera. Malcom dimostra chiaramente che la spinta verso un superstato europeo si basa su ragionamenti chiaramente illogici e antistorici. Alla luce dell’evidenza dei fatti, sarebbe ora che la politica europea ne prendesse definitivamente atto.

 

di Sir Noel Malcolm, marzo/aprile 1995

UN IDEALE SBAGLIATO

Le ragioni contrarie all’”Europa” non sono le ragioni contrarie all’Europa. Piuttosto il contrario. L’«Europa» è un progetto, un concetto, una causa: l’obiettivo finale verso cui la Comunità europea (CE) si sta muovendo fin dai suo titubante inizio negli anni ‘50. Essa comporta la creazione di uno stato europeo unito, con una propria costituzione, un governo, un Parlamento, una moneta, una politica estera e un esercito. Alcuni dei meccanismi per arrivarci sono già in atto, e i progetti in circolazione sono già tali da lasciare pochi dubbi sul disegno complessivo. Coloro che sono a favore dell’Europa – ossia coloro che sono a favore dell’aumento della libertà e della prosperità di tutti coloro che vivono sul continente europeo – dovrebbero vedere con un misto di allarme e sgomento la creazione di questa entità politica estremamente artificiale.

In breve, il progetto “Europa” ha quasi completamente espropriato il significato naturale della parola. Nella maggior parte dei paesi europei oggi, la gente parla semplicemente dell’essere “europeisti” o “antieuropeisti”; chiunque voglia mettere in discussione una maggiore integrazione politica sarà semplicemente liquidato come persona animata da un’ostilità xenofoba verso il resto del continente. Altri elementi del linguaggio politico “europeo” rafforzano questo atteggiamento. Durante la discussione del 1991-93 sul trattato di Maastricht, per esempio, c’è stata un’enfasi quasi ipnotica sulle metafore riguardanti i trasporti. Venivamo avvertiti che non dovevamo “perdere il treno”, che quando il treno europeo sarebbe partito saremmo “rimasti al palo”, o che il nostro scarso entusiasmo ci avrebbe costretto a sopportare un viaggio scomodo nel vagone di coda. Tutte queste metafore presupponevano un itinerario fisso e una destinazione preordinata. O eri a favore di quella destinazione, oppure eri contro l’”Europa”. La possibilità che qualcuno potesse sostenere altri obiettivi positivi per l’Europa è stata così eliminata dalla coscienza dei politici europei.

Il concetto di “Europa” è accompagnato, in altre parole, da una dogma di inevitabilità storica. Questo può assumere varie forme: una credenza utopistica nel progresso inevitabile, una fede quasi-marxista nelle ferree leggi della storia (che coinvolge nuovamente il tramonto dello stato-nazione), o una sorta di misticismo cartografico che intuisce che alcuni grandi aree del mappamondo chiedono a gran voce di evolvere verso una singola unità geopolitica. Queste credenze hanno ricevuto durissimi colpi dalla storia del ventesimo secolo. L’inevitabilità è, infatti, una parola che si sente per lo più sulle labbra di quelli che vogliono stravolgere il mondo per realizzare i cambiamenti che desiderano.

A PICCOLI PASSI

Le origini del progetto politico “europeo” si possono far risalire a diversi politici, scrittori e visionari del periodo tra le due guerre mondiali: persone come il teorico mezzo-austriaco mezzo-giapponese Richard Coudenhove-Kalergi, l’ex ministro degli esteri italiano Carlo Sforza e Jean Monnet, un venditore di brandy francese trasformatosi in burocrate internazionale. Quando la loro idea di un’Europa unificata e razionalizzata è stata lanciata inizialmente negli anni venti e trenta, suonava molto simile nello spirito alla contemporanea campagna per rendere l’esperanto la lingua del mondo. Chi, in quella fase, avrebbe potuto dichiarare tranquillamente che uno di questi due progetti avrebbe avuto dalla sua parte la forza dell’inevitabilità storica e l’altro no? Entrambi avevano vantaggi teorici da offrire, anche se quasi certamente essi venivano superati dalle difficoltà pratiche per conseguirli. Non è difficile, certamente, immaginare una storia alternativa dell’Europa dopo la seconda guerra mondiale, in cui la CE non fosse mai venuta alla luce e nella quale, pertanto, il progetto di un’Europa unita occuperebbe una nota a piè di pagina piccola quasi quanto quella dedicata alla Lega Internazionale dell’Esperanto. Le cose sembrano inevitabili solo perché la gente le ha fatte accadere.

L’impeto che sta dietro l’idea “europea” venne da un piccolo gruppo di politici in Francia e in Germania, i quali decisero che un’impresa sovranazionale avrebbe potuto risolvere il problema della rivalità franco-tedesca, da essi identificata come causa principale delle tre grandi guerre europee iniziate nel 1870. Per questo solo scopo, un accordo che coinvolgesse  solo quei due paesi sarebbe stato sufficiente. Ma contemporaneamente c’erano anche altri fattori, in particolare la guerra fredda, che rendeva auspicabile il rafforzamento dell’Europa occidentale come blocco politico, e il malcelato risentimento del Presidente francese Charles de Gaulle verso “gli anglosassoni”, che lo faceva guardare con favore alla CE, intesa come zona liberata dagli Anglosassoni che avrebbe potuto essere dominata politicamente dalla Francia. Ma anche con questi fattori in gioco su larga scala, difficilmente il progetto “Europeo” sarebbe decollato senza l’ingenuità di alcuni individui, in particolare Monnet e l’ex ministro degli esteri francese Robert Schuman. Il metodo che loro inventarono era quello che i teorici politici ora chiamano “funzionalismo”. Integrando insieme le economie dei paesi partecipanti un passo per volta, credevano che alla fine si sarebbe raggiunto un punto in cui l’unificazione politica sarebbe sembrata una naturale espressione del modo in cui questi paesi stavano già interagendo [qualcuno ha detto “Metodo Juncker? NdVdE]. Come diceva Schuman nel 1950, “l’Europa non verrà costruita tutta in una volta, o come un tutt’uno: essa sorgerà da realizzazioni concrete che creeranno anzitutto una solidarietà di fatto.

E così il metodo ha proceduto, dal carbone e acciaio (il Trattato della Comunità europea del carbone e dell’acciaio), attraverso l’agricoltura e il commercio (il trattato di Roma), alla regolamentazione ambientale e di ricerca e sviluppo (Atto Unico Europeo), ai trasporti, formazione, immigrazione e a un’intera batteria di misure progettate per portare alla completa unione economica e monetaria (il trattato di Maastricht). La marcia verso l’unificazione politica è continuata passo dopo passo, con l’istituzione di una Corte Europea,   lo sviluppo del Parlamento Europeo – che è passato dall’essere un luogo di discussione tra funzionari incaricati dagli stati nazionali a un’assemblea eletta direttamente con reali poteri legislativi – l’estensione del voto a maggioranza qualificata al Consiglio dei ministri e perfino l’annuncio, nel trattato di Maastricht, di quella che è stata chiamata cittadinanza europea, della quale devono ancora essere definiti diritti e doveri. Quasi tutti questi cambiamenti politici venivano giustificati di volta in volta sulla base di motivi pratici: solo un leggero aggiustamento per rendere le cose più facili, o più efficaci, o per riflettere nuove realtà. Anche i cambiamenti economici e i trasferimenti di nuove aree di competenza alle istituzioni CE vengono solitamente presentati come meri aggiustamenti pratici. Nel frattempo, molti politici europei continentali (come il Cancelliere tedesco Helmut Kohl e il Presidente francese François Mitterrand) parlano apertamente del grande obiettivo politico finale: la creazione di uno stato federale europeo.

Esiste uno strano distacco tra questi due tipi di discorso “Europeo”, quello pratico e quello ideale. Ma questo è solo un segno del successo del “funzionalismo”. Le ragioni pro-“Europa” passano continuamente dall’uno all’altro, da rivendicazioni sui vantaggi pratici a espressioni di idealismo politico, e poi tornano indietro. Se qualcuno è in disaccordo con i sostenitori dell’«Europa» sui vantaggi pratici, essi dicono, “ok, potresti aver ragione su questo o quello svantaggio, ma sicuramente è un prezzo che vale la pena pagare per un ideale politico così meraviglioso.” E se uno mette in dubbio l’opportunità politica dell’ideale, ecco che rispondono, “non importa, pensa solo ai vantaggi economici.” La verità è che entrambi gli argomenti pro-“Europa” sono fondamentalmente errati.

L’ASSURDA PAC

Il progetto economico incarnato nella Comunità Economica Europea (CEE) rispecchia molto bene le sue origini in un episodio di contrattazione franco-tedesca. All’industria tedesca è stato permesso di inondare gli altri Stati membri con le sue esportazioni, grazie a un insieme di regole finalizzato ad eliminare le barriere artificiali alla concorrenza e al commercio all’interno del “mercato comune”. Alla Francia, d’altro lato, è stato concesso un elaborato sistema di protezione per l’agricoltura, la cosiddetta Politica Agricola Comune (PAC).

Gli obiettivi generali della PAC, fissati nell’articolo 39 del trattato di Roma, includevano mercati stabili e “un tenore di vita equo alla popolazione agricola.” Su tale fragile base, la Francia ha istituito uno dei sistemi più complessi e costosi di protezionismo agricolo della storia umana. Esso si basa su elevate tariffe verso l’esterno, alte sovvenzioni alle esportazioni e sostegno ai prezzi interni mediante interventi di acquisto (si tratta del più costoso sistema di sostegno ai prezzi mai inventato, poiché significa raccogliere e immagazzinare decine di milioni di tonnellate di prodotti in eccesso). Nel momento in cui questo sistema è stato compiutamente realizzato nel 1967, i prezzi agricoli della comunità europea sono aumentati del 175% rispetto ai prezzi mondiali delle carni bovine, del 185% per quel che riguarda il grano, del 400% per il burro e 440% per lo zucchero. Il costo annuale della PAC è oggi [ossia nel 1995 NdVdE] di 45 miliardi di dollari ed è in aumento; e più del dieci per cento del costo si ritiene sia dovuto a una miriade di truffe. Grazie a questa politica, una famiglia europea di quattro persone oggi paga più di 1.600 dollari all’anno di costi alimentari addizionali – una tassa nascosta maggiore della “poll tax” che provocò rivolte per le strade di Londra.

Anche i più ferventi sostenitori dell’”Europa” sono sempre un po’ imbarazzati dalla PAC. La massiccia corruzione che ne scaturisce – finti esportatori che raccolgono le sovvenzioni alle esportazioni, importazioni contrabbandate e ri-etichettate come prodotti CE, oliveti italiani inesistenti che ricevono sovvenzioni enormi e così via – è abbastanza imbarazzante, ma è il sistema stesso ad essere indifendibile. Dieci o venti anni fa, i suoi fautori sostenevano che esso avrebbe generato scorte di cibo utili nel caso in cui l’Europa occidentale fosse finita sotto assedio. Già allora l’argomento sembrava  fragile e ormai suona assolutamente inconsistente. Se messi sotto pressione, [tali fautori] insisteranno dicendo che la PAC viene gradualmente riformata, sottolineando che le montagne di manzo e i laghi di vino stanno diventando sempre più piccoli. Queste riforme, tuttavia, si ottengono solo spendendo ancora più soldi con sistemi come i famigerati pagamenti “set-aside” dati agli agricoltori come ricompensa per non piantare più nulla. In genere, però, i difensori dell’«Europa» diranno che il PAC è solo uno sfortunato dettaglio, che sono consapevoli dei suoi problemi, e che non si dovrebbe davvero usare la PAC per infangare il nome dell’”Europa”.

Ma la PAC non è solo un dettaglio. È, di gran lunga, la voce di spesa più importante della CE, visto che pesa per il 60% del suo bilancio annuale. Essa domina la politica commerciale estera della CE, distorce il mercato mondiale e mina seriamente la capacità dei paesi extracomunitari più poveri di esportare i propri prodotti agricoli. Ha quasi mandato all’aria l’Uruguay round dell’Accordo generale sulle tariffe il commercio (GATT), grazie all’irrazionale ossessione del governo francese sul protezionismo agricolo – irrazionale, perché l’agricoltura pesa solo per il 4% del PIL francese, mentre il restante 96% avrebbe beneficiato da tariffe globali inferiori.

Non si può fare un bilancio del funzionamento economico dell’«Europa» senza iniziare con la PAC, e nessuno studio che la esamini non può non concludere che  è un colossale spreco di denaro. Perfino la Commissione Europea, che la amministra, ha ammesso che “gli agricoltori non sembrano aver beneficiato del crescente sostegno che hanno ricevuto.” Gli appassionati dell’«Europa» spesso fanno elogi sperticati dei successi europei, come il sistema autostradale tedesco o le ferrovie francesi – cose che sono state costruite dai governi nazionali. In pratica l’unica cosa importante realizzata della CE – l’unica cosa che ha costruito e gestito da sola – è la PAC. Non è un precedente incoraggiante.

LIVELLARE IL TERRENO DI GIOCO

La PAC ha dato il “la” ad altri settori della politica commerciale della CE. Anche se sarebbe ingiusto dire che la CE si comporta come una “fortezza europea” (finora), è tuttavia vero che l’”Europa” ha sviluppato un elaborato sistema di tariffe e accordi commerciali discriminatori per proteggere le proprie industrie sensibili. L’agricoltura ha le tariffe più alte; poi ci sono prodotti come l’acciaio, il tessile, l’abbigliamento e le calzature (come la Polonia, l’Ungheria e la Repubblica Ceca hanno scoperto con sgomento – il cibo, l’acciaio, il tessile, l’abbigliamento e le calzature sono infatti i loro prodotti più importanti). La CE è stata all’avanguardia nello sviluppare le cosiddette restrizioni volontarie alle esportazioni con paesi come il Giappone. Inoltre, l’ “Europa” ha mostrato una straordinaria ingegnosità nell’adattare le misure “antidumping” del GATT per bloccare il flusso di innumerevoli importazioni: macchine da scrivere elettroniche, scavatori idraulici, stampanti a matrice, audiocassette e luci alogene dal Giappone; lettori di Compact disc da Giappone e Corea; piccoli televisori a colori da Corea, Cina e Hong Kong e così via.

Un recente studio della politica commerciale della CE di L.A. Winters usa la frase “liberalizzazione gestita” per descrivere le tattiche dilatorie della CE nei confronti di un commercio più libero. La “liberalizzazione gestita“, osserva Winters, “è un sostituto della liberalizzazione vera, ma in senso negativo, perché in genere attenua la concorrenza proprio in quei settori che hanno maggior bisogno di una migliore efficienza.” E questo non deve nemmeno sorprendere, dal momento che la politica commerciale emerge da un sistema di contrattazione politica in cui i governi degli Stati membri della CE competono per proteggere le loro industrie preferite. Massicce sovvenzioni statali alle imprese di bandiera (le case automobilistiche francesi, le acciaierie spagnole, le compagnie aeree nazionali belga e greca) sono pratica comune. Inoltre, i funzionari della Commissione Europea a Bruxelles sono fortemente influenzati dalla tradizione francese dirigista, secondo la quale il ruolo dello stato è quello di selezionare e coltivare speciali industrie “vincenti”. Questa è stata la forza trainante dietro i nuovi poteri concessi alla CE nel 1986 per “rafforzare la base scientifica e tecnologica dell’industria europea”. In pratica, questo significa spendere milioni di dollari dei contribuenti per sviluppare i microchip francesi che non dovranno mai competere sul mercato con quelli dell’Asia orientale.

All’interno delle barriere tariffarie, è stata in realtà creata una sorta di zona di libero scambio. Molti ostacoli al commercio sono stati rimossi (anche se importanti barriere rimangono nel regno di servizi, come stanno ancora scoprendo le imprese assicuratrici inglesi quando cercano di penetrare il mercato tedesco), e l’industria nel suo complesso ha beneficiato di questo processo di liberalizzazione interna. Tuttavia, gli effetti a lungo termine possono essere più dannosi che benefici. Nel loro tentativo di creare un piano di parità per la concorrenza all’interno della CE, gli amministratori dell’”Europa” hanno livellato verso l’alto, non verso il basso. Hanno cercato di aumentare sia gli standard, sia i costi dell’industria in tutta la Comunità sugli alti livelli praticati nel paese industriale più importante dell’Europa, la Germania. Quando questo processo sarà completo, gli industriali all’interno della CE potranno infatti vendersi merci uno con l’altro a parità di condizioni, ma i loro beni saranno tutti non competitivi sul mercato mondiale.

Questo livellamento verso l’alto avviene in due modi. Il primo è l’armonizzazione delle norme. Bruxelles ha emesso una massa di regolamenti che stabiliscono le specifiche più minute per i prodotti e i processi industriali; l’influenza dominante su questi è stata quella dell’Istituto Tedesco per le Norme, che ha i più severi standard in Europa. L’armonizzazione è destinata a semplificare il compito dei produttori, che ora hanno un solo standard dentro la CE invece di quelli diversi nazionali. Ma in molti casi, mentre l’attività di far corrispondere un prodotto allo standard diventa relativamente più semplice, essa diventa anche assolutamente più costosa. Inoltre, la CE ha poteri relativi alla tutela dell’ambiente, la salute e la sicurezza sul lavoro, che vengono utilizzati sempre di più per imporre costi in stile tedesco alle industrie e ai servizi. I costi sono particolarmente pesanti soprattutto per le piccole imprese, che devono pagare un prezzo sproporzionato alla loro dimensione per il controllo delle attrezzature, le ispezioni e la certificazione. Questo distorce il mercato a favore delle grandi aziende, penalizzando le piccole imprese che sono i germogli di tutte le economie in crescita.

Il secondo modo in cui il campo di gioco viene livellato allo standard tedesco è nei costi sociali del lavoro. I datori di lavoro tedeschi pagano pesantemente per il privilegio di dare lavoro alla gente: esistono regimi pensionistici generosi da pagare per l’assicurazione sanitaria, lunghe vacanze, congedi di maternità e paternità e altre forme di assicurazione sociale. Di conseguenza, il costo della manodopera è di 25 dollari all’ora nell’ex Germania Ovest (il più alto del mondo), rispetto a 17 dollari in Giappone, 16 dollari negli Stati Uniti e 12 dollari nel Regno Unito.

Le pratiche di lavoro tedesche prevedono che una macchina in una fabbrica tedesca operi in media per sole 53 ore alla settimana, al contrario di 69 ore in Francia e 76 in Gran Bretagna. E il lavoratore medio in Germania spende solo 1.506 ore ogni anno effettivamente al lavoro, in confronto alle 1.635 ore in Gran Bretagna, 1.847 negli Stati Uniti e 2.165 in Giappone. Negli ultimi cinque anni, la Commissione Europea ha proposto tutta una serie di misure per aumentare i diritti dei lavoratori e limitare il loro orario di lavoro. Quando le misure in questo cosiddetto programma di azione sociale non avrebbero avuto il sostegno unanime richiesto dagli Stati membri (in particolare dalla Gran Bretagna), esse erano camuffate come questioni di salute e sicurezza, per le quali è richiesto solo un voto di maggioranza. Ulteriori costi sui datori di lavoro sono stati imposti da un “protocollo sociale” aggiunto al trattato di Maastricht. Anche se la Gran Bretagna è riuscita a guadagnare una speciale esenzione dal presente accordo, è probabile che molte delle nuove misure adottate nell’ambito del protocollo alla fine arriveranno anche in Gran Bretagna attraverso altre parti della macchina amministrativa “Europea”.

Alcune di queste misure sono ispirate, senza dubbio, dalla preoccupazione per la situazione dei lavoratori più poveri negli Stati membri meridionali della comunità. Ma lo scopo generale delle misure è chiaramente quello di proteggere le economie con un costo del lavoro alto (soprattutto la Germania) da concorrenti che impiegano manodopera più conveniente. Nel breve o medio termine, questa politica danneggierà le economie dei paesi più poveri, che si vedranno imporre artificialmente alti costi di lavoro. A lungo termine, nuocerà anche alla Germania, riducendo il suo incentivo ad adattarsi alla concorrenza di tutto il mondo. L’”Europa,” la cui quota di commercio mondiale ed il relativo tasso di crescita economica sono già in declino, entrerà nel prossimo secolo inciampando sotto il peso delle proprie spese come un peloso mammut, che sprofonda in una tundra in fase di disgelo.

L’espressione finale di questa sindrome di livellamento all’insù è il progetto di unione monetaria. Come indicato nel trattato di Maastricht, l’idea è di creare un euro – marco, gestito da un’entità modellata a immagine e somiglianza della Bundesbank e situata a Francoforte. I passi precedenti in questa direzione non sono stati incoraggianti: lo SME (Sistema Monetario Europeo), che collegava le valute degli Stati membri al marco tedesco, è spettacolarmente crollato nell’ottobre 1992. Questo fallimento è costato al governo britannico quasi 6 miliardi di dollari nel tentativo senza speranza di sostenere la sterlina, e si pensa che la Germania abbia speso circa 14 miliardi di dollari in un altrettanto futile sforzo per sostenere la lira italiana. I tassi di interesse artificialmente elevati che paesi come la Gran Bretagna avevano imposto per mantenere la parità della loro valuta con il marco tedesco hanno seriamente aggravato la recessione del 1989-93; i costi umani dell’inutile indebitamento, dei fallimenti e della disoccupazione non possono essere calcolati.

Lo SME è stato, come ha notoriamente detto il Professor Sir Alan Walters, consigliere dell’ex primo ministro britannico Margaret Thatcher, “sostenuto a metà”. Le valute non erano né completamente fisse né liberamente fluttuanti ma agganciate a dei rapporti fissati che potevano essere cambiati. Questo ha fornito ai mercati mondiali, nei momenti di pressione su ciascuna di queste valute, un’irresistibile scommessa unidirezionale. Tale problema, naturalmente, non si presenterà una volta che le valute dell’«Europa» saranno fuse in un singolo euro-marco – anche se le attività dei mercati delle valuta mondiali nei giorni appena prima che i termini di conversione verranno annunciati saranno una meraviglia per gli occhi.

Una volta che l’euro-marco verrà introdotto, si presenteranno una serie di problemi diversi. Qualunque sia il ” programma di convergenza economica” doverosamente intrapreso dai governi degli Stati membri, questa moneta unica interesserà un certo numero di economie nazionali con caratteristiche estremamente differenziate. Finora, la flessibilità delle valute nazionali è stata uno dei modi essenziali in cui i punti di forza e le debolezze di quei paesi si sono evidenziati e sono stati compensati. Tolto questo meccanismo, ci saranno altre forme di compensazione, come il crollo delle industrie o la migrazione di massa della manodopera.

La Commissione Europea riconosce questo problema e ha una soluzione pronta: massicci trasferimenti di denaro verso le economie più deboli dell’”Europa”. Gli strumenti per amministrare questo enorme programma di sovvenzioni sono già in atto, in forma di fondi regionali, fondi “strutturali” e “pagamenti di coesione.” Tutto quello che è mancato finora è il denaro reale, per il quale il Presidente uscente della Commissione Europea, Jacques Delors, ha recentemente proposto l’aumento del bilancio europeo di più di 150 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni.

Un modello per il futuro di un’Europa unificata economicamente può essere trovato nell’Italia moderna, che ha unito le prospere, avanzate province del nord con la povertà da terzo mondo del sud. Dopo più di un secolo di Unione politica ed economica, enormi disparità rimangono ancora tra le due metà dell’Italia- nonostante (o anzi in parte a causa di) tutte le sovvenzioni che si sono riversate al sud attraverso istituzioni come la Cassa del Mezzogiorno, la società indipendente istituita dal governo italiano per aiutare a sviluppare il sud. Come gli italiani del sud hanno avuto l’opportunità di scoprire, un’economia basata sulle sovvenzioni unisce alle inefficienze delle pianificazioni dello stato, le possibilità quasi illimitate di ruberie e corruzioni. È una triste ironia che oggi, proprio mentre i leader dell’”Europa” si stanno preparando all’unificazione, i politici dell’Italia stanno seriamente pensando di smantellare il loro paese in due o tre stati separati.

POLITICA STERILIZZATA

Alla faccia dei benefici economici dell’unità europea. A questo punto i sostenitori dell’”Europa” di solito passano all’altra loro linea di difesa. Questa non è solo un’impresa arraffasoldi, dicono, da valutare in termini di perdite e profitti: l’«Europa» è un ideale politico, un’avventura spirituale, un nuovo esperimento di cooperazione e fratellanza. Non è forse vero che ha reso impensabile la guerra in Europa? Non è forse il naturale passo successivo per l’umanità, in un momento in cui la vecchia idea della sovranità nazionale è evidentemente obsoleta? Non mostra forse la via per l’abolizione dell’antica sensibilità nazionale, con tutta la sua ostilità, i suoi pregiudizi e i suoi risentimenti?

Sfortunatamente, la risposta a tutte queste domande è: no. L’argomento che la CE è responsabile della mancanza di guerre nell’Europa post-1945 è difficile da giustificare. Un motivo molto più evidente è la guerra fredda, che ha obbligato l’Europa occidentale ad adottare una posizione di difesa comune e un sistema di deterrenza così efficace che la guerra fra Europa occidentale e orientale non è mai avvenuta. Il fatto che un gruppo di paesi dell’Europa occidentale è stato in grado di cooperare nella CE è stato più un sintomo della mancanza di tensioni belligeranti in Europa occidentale nel dopoguerra che una causa. Si sono stabilite democrazie liberali nella maggior parte dei paesi europei dell’ovest dopo il 1945; anche se la CEE non fosse esistito, è difficile immaginare uno scenario in cui la Germania avrebbe voluto invadere la Francia, o la Francia sganciare bombe nucleari sulla Germania. Anche ammettendo per amor di discussione che la CEE ha assicurato la pace per l’ultima generazione o due, questo non può essere usato come scusa per richiedere una più stretta integrazione, poiché la CEE ha avuto questo presunto effetto in un momento in cui essa non era un’entità sovranazionale unita ma un gruppo di nazioni-stato cooperanti.

L’idea di “Europa”, tuttavia, è fondata sulla convinzione che il concetto di stato-nazione sia obsoleto. Questo è un dogma di fede contro cui gli argomenti razionali non possono prevalere. È inutile sottolineare che i paesi di maggior successo nel mondo moderno – il Giappone, gli Stati Uniti, e perfino la Germania stessa – sono stati-nazione. Poco importa far notare che alcune delle economie oggi più dinamiche sono quelle di piccoli stati – Corea del sud, Taiwan, Singapore… – che non sentono alcuna necessità di fondersi in grandi entità sovranazionali. Ed è considerato di cattivo gusto sottolineare che le federazioni sovranazionali più recentemente note erano l’U.R.S.S. e la Repubblica federale di Jugoslavia. Queste sono solo le ultime di una lunga lista di stati multinazionali che sono crollati in tempi recenti, dall’Impero Austro-Ungarico alle varie federazioni postcoloniali istituite dagli inglesi in Africa centrale, Africa orientale e nelle Indie occidentali. La Nigeria, per esempio, è riuscita a mantenere il Biafra solo tramite la guerra e la fame; l’India ha bisogno delle forze armate per mantenere il Nagaland e il Kashmir. “Ma l’Europa non sarà così,” dicono i federalisti. “Abbiamo tradizioni di tolleranza reciproca e comportamento civile.” Sì, abbiamo alcune di queste tradizioni; si tratta di tradizioni che si sono evolute all’interno di stati-nazione abbastanza stabili. Rimane da vedere se queste tradizioni riusciranno a durare indefinitamente sotto le nuove condizioni di politica multinazionale.

Come sarà la vita politica in una Federazione europea come quella attualmente proposta da Bruxelles e da Bonn? Alcuni dei poteri dei governi nazionali saranno trasferiti verso l’alto a livello europeo, mentre altri si sposteranno verso il basso per una “Europa delle regioni” (Catalogna, Baviera, Galles, ecc.). La visione ufficiale della vita politica al più alto livello è essenzialmente quella di Jean Monnet, il primo inventore della comunità: il sogno di un tecnocrate, un mondo in cui vengono concepite soluzioni su larga scala per problemi su larga scala da parte di lungimiranti amministratori esperti. (L’argomento più comune per l’abolizione degli Stati-nazione è che oggi i problemi sono semplicemente troppo grandi perché i singoli Stati possano fronteggiarli. Di fatto invece, ci sono sempre stati problemi che attraversano i confini internazionali, dai servizi postali, alla lotta alla droga, al commercio globale. Non può essere la dimensione del problema che impone che esso venga affrontato da un’autorità sovranazionale piuttosto che dalla cooperazione internazionale, ma qualche altro criterio che i sostenitori della federazione europea ancora devono spiegare).

Questa visione tecnocratica rappresenta un mondo politico “sterilizzato”, dal quale è stata estirpata con cura la politica reale. Le cose andranno sicuramente in modo diverso. La politica reale funzionerà ancora a livello europeo. Tuttavia, non prenderà la forma di una politica democratica a livello federale. Per ottenerla infatti, avremmo bisogno di partiti radicati in tutta l’”Europa”, operanti in tutta quanta la Federazione nel modo in cui operano i partiti Repubblicano e Democratico in tutti gli Stati Uniti.

Ci sono già alcuni fantomatici raggruppamenti transnazionali al Parlamento Europeo: il gruppo socialista, il partito popolare europeo (i democristiani) e così via. Ma queste sono solo alleanze formate a Strasburgo da membri del Parlamento Europeo eletti sulla base dei propri partiti nazionali. Nessuno può realmente immaginare i normali elettori, per esempio, danesi che si ispirano al leader del loro euro-partito preferito, che magari fa i suoi discorsi in portoghese. La semplice realtà delle differenze linguistiche, culturali e geografiche rende impossibile immaginare una politica di massa a livello federale che diventa la forma prevalente della vita politica in Europa. Al contrario, il perseguimento degli interessi nazionali di politici nazionali continueranno agli alti livelli “Europei”. Però ciò avverrà in un modo sottilmente diverso dal modo in cui i rappresentanti locali all’interno di un sistema politico nazionale fanno pressioni per gli interessi delle rispettive località. Anche se un membro del Parlamento dello Yorkshire può fare forte pressioni per conto dello Yorkshire, su tutte le principali questioni questo stesso membro voterà secondo ciò che pensa sia l’interesse della Gran Bretagna; questo parlamentare appartiene a un partito nazionale che affronta questi problemi con politiche nazionali.

L’arte della politica “Europea”, invece, sarà quella di non fare nulla di più che camuffare gli interessi nazionali come se fossero interessi di tutta l’Europa. Visto che ogni nazione paga solo una piccola percentuale del bilancio europeo, ogni gruppo di politici nazionali cercherà di massimizzare le spese di quei progetti europei che portano beneficio al proprio paese. Il modus operandi della politica europea, pertanto (già visibile nel Consiglio dei Ministri oggi), sarà lo scambio di favori e il “do ut des”: tu sostieni la mia proposta frivola, anche se pensi che è una cattiva proposta, e in cambio io sosterrò la tua. Questa è una ricetta non solo per aumenti della spesa fuori controllo, ma anche per un’incoerenza radicale nell’elaborazione delle politiche. E con la politica al massimo livello che funzionerà come una corsa per accaparrarsi i fondi, è difficile pensare che i politici al livello inferiore delle “Regioni europee” non lo replicheranno: avranno meno poteri governativi reali ma più opportunità populiste per corteggiare gli elettori con la spesa.

Questo tipo di vita politica è accompagnato da due gravi pericoli. In qualsiasi sistema dove la responsabilità democratica è attenuata e la possibilità per i politici di fare accordi a porte chiuse è facilitata, la probabile conseguenza è una crescita della corruzione politica. Le pratiche di corruzione già sono comuni nella vita politica di diversi paesi europei: la loro emersione ha portato recentemente alla persecuzione, alla fuga in esilio, o al suicidio di ex primi ministri, in Italia, Grecia e Francia. Un’Europa federale, anziché correggere questi vizi, offrirà loro un più ampio campo d’azione.

Esiste un pericolo ancora più grave, tuttavia, per la vita politica dell’”Europa” federale: la rinascita della politica di risentimento e di ostilità nazionalista. Il nazionalismo aggressivo è una sindrome tipica dei diseredati, di coloro che ritengono essere stati privati del potere. Gli stranieri sono spesso l’obiettivo più conveniente di un tale risentimento, qualunque sia la vera causa del sentimento di impotenza. Ma in un sistema dove il potere è stato davvero portato via ai governi nazionali e trasferito a organismi europei in cui, per definizione, il voto di maggioranza si troverà sempre nelle mani di stranieri, tale pensiero nazionalistico acquisirà un’innegabile logica. Naturalmente, se l’”Europa” si dovesse muovere sempre in direzione di un aumento senza precedenti nella prosperità per tutti i cittadini, i motivi di risentimento potrebbero essere lievi; ma questo non è, tuttavia, uno scenario che si possa dare per scontato (e infatti stiamo sperimentando come è andata a finire NdVdE). A questo proposito, l’intero progetto “europeo” fornisce un classico esempio della fallace convinzione che il modo per rimuovere le ostilità tra Stati, popoli o gruppi è quello di costruire nuove strutture sopra le loro teste. Troppo spesso questo metodo produce esattamente il risultato opposto. Il modo in cui più comunemente viene espressa questa argomentazione è che la Germania ha bisogno di essere “legata” o “tenuta sotto” da una struttura di integrazione europea, per evitare che divaghi pericolosamente negli spazi vuoti della Mitteleuropa. Se la Germania ha davvero interessi diversi dal resto dell’”Europa”, il modo per affrontarla, di sicuro, non è forzarla in una camicia di forza istituzionale (che può solo aumentare il risentimento tedesco a lungo termine), ma escogitare modi per perseguire quegli interessi che sono compatibili con gli interessi dei suoi alleati e partner. Finora, la partecipazione della Germania all’”Europa” sembra piuttosto il comportamento a una festa di bambini di un zio gioviale che, per mostrare buona volontà, permette che gli vengano legate le mani dietro la schiena. Non è una posizione in cui vorrà rimanere a lungo, e il suo umore potrebbe cambiare quando dovesse accorgersi di innumerevoli piccole dita che gli si infilano nelle tasche.

PRIMA COME UNA FARSA . . .

La domanda cruciale è se l’«Europa» abbia un ruolo importante sulla scena mondiale. L’attuale “Europa” è un prodotto dell’era della guerra fredda. Ora che tutta la situazione dell’Europa orientale è cambiata, ci si dovrebbe aspettare che gli ingegneri della CE tornassero a ridisegnare la situazione geopolitica. Invece, essi stanno spingendo per concretizzare gli stessi piani a ritmo più serrato. Alcuni entusiasti dell’”Europa”, come l’ex Commissario CE Ralf Dahrendorf o il ministro degli esteri britannico Douglas Hurd, hanno affermato perfino che lo sviluppo interno della CE negli anni ‘80 ha giocato un ruolo determinante nel portare alla caduta del comunismo nell’est. Mi sorgono parecchi dubbi riguardo al fatto che i dissidenti dell’Europa orientale abbiano mai detto: “avete sentito la nuova direttiva di Bruxelles sui livelli consentiti al rumore dei tosaerba? A questo punto dobbiamo davvero abbattere il regime comunista!” La tesi di ‘Hurd/Dahrendorf ha una curiosa somiglianza con il recente video musicale di Michael Jackson dal titolo “riscattando l’Europa orientale,” in cui la popstar sconfigge l’armata rossa da solo mentre bambini adoranti inneggiano messaggi di buona volontà (casualmente) in Esperanto.

Dalla rimozione della cortina di ferro, le nuove democrazie dell’Europa orientale hanno trovato il loro apparente salvatore stranamente riluttante ad aiutarlo in un modo utile – vale a dire, acquistando i loro beni. Tutte i PECO (Paesi dell’Europa Centrale e Orientale) vogliono unirsi all’«Europa», naturalmente, per due semplici ragioni: perché è un club per ricchi, in cui i membri possiedono enormi fondi per gli investimenti, e perché vogliono far parte di una sorta di raggruppamento di sicurezza. Il primo requisito potrebbe essere soddisfatto da una qualsiasi forma di collaborazione economica tra Nazioni, del genere che la CE ha rappresentato per i suoi primi vent’anni; non richiede l’integrazione politica europea. Al contrario, uno sviluppo simile sarebbe una strana ricompensa per quei paesi dell’Europa Orientale che si sono appena liberati dall’abbraccio di un altro impero multinazionale.

La questione della sicurezza europea è simile. L’effetto a lungo termine della fine della guerra fredda si tradurrà in una graduale riduzione dell’impegno militare americano in Europa. Questa prospettiva risulta anche gradita in alcune parti dell’Europa, soprattutto in Francia e in Germania–dove l’antiamericanismo è fiorito a lungo. Chiaramente, gli europei dovranno avere più cura della propria difesa. Ma la domanda è se ciò richiede un esercito “europeo”, l’integrazione politica, una politica estera “europea” e un governo “europeo”. Per più di 50 anni, la NATO è riuscita a difendere l’Europa occidentale senza alcuna traccia di questa integrazione politica, e la NATO è chiaramente l’organizzazione internazionale di maggior successo nella storia moderna.

“Naturalmente,” è la risposta, “la NATO è stata in grado di funzionare come un libero corpo intergovernativo, perché i suoi membri stavano affrontando una chiara minaccia comune. Le minacce e le sfide ora saranno più variegate, quindi gli accordi intergovernativi saranno più difficili da ottenere.” Ma questo è proprio il motivo per cui tali questioni non dovrebbero essere incanalate in un governo “europeo” che opera con votazione a maggioranza. L’«Europa» è infatti un insieme di paesi con diversi interessi nazionali e diversi impegni esteri. Su ogni singola questione di sicurezza, i singoli Stati possono avere preoccupazioni loro proprie e non condivise dai loro colleghi (come la Gran Bretagna riguardo le Falkland, la Francia riguardo il Nord Africa, la Germania e l’Italia riguardo la Jugoslavia e così via). Cercare di formare un’unica politica “europea” su queste questioni, o attraverso l’unanimità, o il consenso o la maggioranza qualificata, significa garantire nel migliore dei casi un compromesso inefficace e nel peggiore dei casi una totale auto-paralisi.

Questa semplice verità è stata dimostrata in due volte negli ultimi quattro anni – la prima volta come una farsa, la seconda come una tragedia. La farsa è stata la reazione dell’”Europa” all’invasione irachena del Kuwait del 1990, quando la Germania non voleva nemmeno inviare alcuni jet per l’addestrmento in Turchia, la Francia ha mandato una portaerei nel Golfo Persico carico di elicotteri anzichè di aerei e il Belgio si è rifiutato di vendere munizioni all’esercito britannico. La tragedia è la Jugoslavia. “Questa è l’ora dell’Europa!” gridò l’egregio Jacques Poos, ministro degli esteri del Lussemburgo, quando l’esercito del Presidente jugoslavo Slobodan Milošević aprì il fuoco in Slovenia e Croazia nell’estate del 1991. “Noi non interferiamo negli affari americani; Abbiamo fiducia che l’America non interferirà negli affari europei,” ha detto Jacques Delors, esprimendo l’unico tema coerente e distintivo della politica estera “europea”: uno sgraziato antiamericanismo. Il desiderio di produrre una politica estera attraverso il consenso è stato abbastanza forte da fare in modo che quei paesi che capivano cosa stava accadendo in Jugoslavia (soprattutto la Germania) fossero tenuti sotto scacco da quelli che non capivano (soprattutto la Gran Bretagna). Di conseguenza, il riconoscimento della Croazia e della Slovenia è stato ritardato di sei mesi, e quando è finalmente arrivato lo ha fatto senza essere accompagnato da misure di protezione per le altre potenziali vittime degli attacchi di Milošević.

La mentalità dietro all’entusiasmo per una politica estera “europea” mostra una logica infantile. “Pensa quanto forte ed efficace sarebbero le nostre politiche estere se le mettessimo tutte insieme!”. Allo stesso modo, si potrebbe dire: pensa che bel colore possiamo ottenere se mescoliamo tutti i colori sulla tavolozza! Il risultato, inevitabilmente, è una tonalità marrone simile al fango.


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