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Flotta USA record ai Caraibi: la USS Ford studia il Venezuela, mentre si colpiscono i narcos
Tensione altissima nei Caraibi: la flotta USA guidata dalla USS Ford pronta a colpire il Venezuela? E una controversa “guerra al fentanyl” infiamma le acque.

La tensione sta salendo rapidamente nei Caraibi. La portaerei USS Gerald R. Ford, il colosso della marina statunitense, si sta avvicinando all’area e, secondo il Washington Post, i piloti del suo stormo aereo sono già impegnati a studiare nel dettaglio le capacità della rete di difesa aerea del Venezuela.
Alla Casa Bianca si discute intensamente sulla possibilità di colpire obiettivi terrestri in Venezuela. Il presidente Donald Trump ha mantenuto il riserbo sui dettagli, dichiarando sibillinamente a EFE: “Ho già deciso. Non posso dirvi cosa sarà“.
Un “Grande Bastone” nei Caraibi
Sul tavolo del Presidente ci sono molteplici opzioni di attacco, supportate da un dispiegamento navale che non si vedeva in zona dalla fine della Guerra Fredda. Secondo i calcoli del CSIS, la US Navy ha attualmente quasi 300.000 tonnellate di naviglio militare dislocato nei Caraibi.
La task force è tecnicamente impressionante e comprende:
La portaerei USS Gerald R. Ford (con i suoi squadroni di caccia F/A-18 Super Hornet e aerei da guerra elettronica E/A-18 Growler).
Gli incrociatori USS Lake Erie e USS Gettysburg.
I cacciatorpediniere USS Gravely, Mahan, Bainbridge, Winston S. Churchill e Stockdale.
Tre navi d’assalto anfibio con elementi della 22a Marine Expeditionary Unit (MEU).
Almeno un sottomarino d’attacco (la cui presenza è probabile ma non confermata).
Questa armata navale trasporta una scorta significativa di missili da crociera Tomahawk, l’opzione preferita per attacchi chirurgici limitati.
Opzioni sul tavolo: missili sì, invasione no
Nonostante la potenza di fuoco, le forze attualmente schierate non sono sufficienti per un’invasione su larga scala di un paese delle dimensioni del Venezuela. Si parla, infatti, anche di possibili missioni di forze speciali (SOF).
Per fare un paragone tecnico, l’invasione della molto più piccola Panama nel 1989 richiese 20.000 soldati statunitensi. L’attuale task force imbarca una singola MEU, che conta circa 2.200 Marines.
Come ha valutato il CSIS: “La potenza di fuoco a lungo raggio disponibile per gli Stati Uniti nei Caraibi è ora paragonabile ai livelli utilizzati in passate campagne di portata e durata limitate”. Gli obiettivi probabili, secondo l’analisi, sarebbero le strutture dei cartelli della droga o siti legati al regime di Maduro, con una certa sovrapposizione tra i due bersagli. Un modo per cogliere due piccioni con una fava.
La “guerra parallela” al Fentanyl (che non c’è)
Mentre la flotta manovra, l’amministrazione continua un’altra campagna militare, più silenziosa ma letale: attacchi aerei contro sospette imbarcazioni per il traffico di droga. Al 10 novembre, il bilancio è salito a 20 attacchi e 80 morti.
Ciò che rende questa operazione controversa è la sua giustificazione legale. Di fronte alle crescenti preoccupazioni (anche internazionali) sulla legalità di queste esecuzioni, il Wall Street Journal ha rivelato la tesi del Dipartimento di Giustizia (DOJ).
La giustificazione si basa sulla premessa che le barche trasportino fentanyl destinato agli Stati Uniti e che il fentanyl costituisca una “minaccia da arma chimica” da intercettare con ogni mezzo.
C’è un problema in questa narrazione. In oltre un decennio di abbordaggi e ispezioni nei Caraibi, la Guardia Costiera statunitense non ha mai segnalato il ritrovamento di fentanyl a bordo di un’imbarcazione (solo cocaina e, occasionalmente, marijuana). La stragrande maggioranza del fentanyl venduto negli Stati Uniti è prodotto in Messico e contrabbandato attraverso il confine terrestre meridionale. Questo non vuol dire che non possa esserci ora, ma che, in passato, non c’era.
Il memorandum del DOJ serve a garantire l’immunità ai militari statunitensi coinvolti, ma il rischio legale si sposta sul piano internazionale. Esperti avvertono che se gli attacchi venissero visti come uccisioni illegali di civili (una posizione già presa dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani), i singoli militari potrebbero essere perseguiti all’estero.
Come ha dichiarato alla PBS il tenente colonnello Frank Rosenblatt (in pensione), presidente del National Institute of Military Justice: “Se un militare fa affidamento sull’immunità [del DOJ], ciò non significa che un altro stato non possa perseguirlo… Se ci sono accuse di aver commesso crimini atroci, allora altri paesi… potrebbero invocare la propria giurisdizione universale e portarli davanti ai tribunali nazionali di un altro paese”.
Domande e risposte
Gli Stati Uniti stanno per invadere il Venezuela? È molto improbabile. Sebbene la forza navale sia imponente (300.000 tonnellate, un record), le forze di terra (una Marine Expeditionary Unit da 2.200 uomini) sono palesemente insufficienti. L’invasione di Panama nel 1989 richiese 20.000 soldati. L’assetto attuale è più adatto a “operazioni limitate”, come attacchi missilistici (Tomahawk) o raid di forze speciali, piuttosto che a un’occupazione su larga scala di un paese delle dimensioni del Venezuela.
Perché gli USA attaccano i barchini, definendo il fentanyl “arma chimica”? Si tratta di una giustificazione legale molto controversa. L’amministrazione la usa per autorizzare attacchi letali contro i presunti trafficanti, aggirando le normali procedure. Tuttavia, questa tesi è debole: la Guardia Costiera USA non ha mai trovato fentanyl su barche nei Caraibi (solo cocaina); la maggioranza del fentanyl entra via terra dal Messico. L’ONU ha già definito questi attacchi “uccisioni illegali”, sollevando dubbi sulla reale motivazione dell’operazione.
I soldati americani che partecipano a questi raid rischiano qualcosa? Sì, sul piano internazionale. Il Dipartimento di Giustizia USA può offrire immunità legale interna, ma questa non ha valore all’estero. Esperti di diritto militare avvertono che se questi attacchi sono visti come crimini (uccisioni extragiudiziali di civili), i singoli militari potrebbero essere arrestati e processati in altri paesi, anche anni dopo, in base al principio della “giurisdizione universale”.









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