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FLESSIBILITA’ DEL MERCATO DEL LAVORO: PROBLEMA O OPPORTUNITA’? (di Matteo Mariotti)

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In questo articolo andiamo ad esaminare se le varie riforme del mercato del lavoro effettuate in Italia, volte a flessibilizzare l’entrata e l’uscita dal mondo del lavoro, hanno portato vantaggi o svantaggi all’economia nazionale.

COSA SONO LE RIFORME DEL MERCATO DEL LAVORO?

Le riforme del mercato del lavoro si collocano in un contesto di riforme strutturali che l’Italia dovrebbe effettuare per crescere economicamente ed aumentare l’occupazione. Il percorso di riforma del mercato del lavoro è iniziato nel 1997 con il pacchetto Treu, poi la legge Biagi del 2003, in seguito la legge Giovannini del 2013, e infine si è concluso con il Jobs Act e l’”abolizione” dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori ad opera del Governo Renzi. A grandi linee è stato questo il percorso seguito dai vari esecutivi per flessibilizzare il mercato del lavoro.

La flessibilità del lavoro, in entrata, ma soprattutto in uscita, contribuirebbe a ridurre il costo del lavoro per le imprese, riducendo sia i costi di licenziamento, sia il costo del fattore lavoro. Minori tutele lavorative portano infatti ad una riduzione dei salari reali (deflazione salariale), tali da rendere così i sindacati e i lavoratori più deboli sul piano della contrattazione. Su ciò ha influito molto anche la libertà di movimento dei capitali: “o accetti il salario che ti propongo o delocalizzo”, tertium non datur.

Riforme simili sono state effettuate in Francia con i loi travail, in Germania con il piano Hartz, in Spagna, Grecia, e Portogallo. Obiettivo finale, non era tanto l’aumento dell’occupazione e/o la crescita, quanto il recupero delle competitività sui mercati esteri, che è avvenuto tramite una riduzione del prezzo dei beni esportati. Svalutare il cambio, infatti, allo stato attuale delle cose ci è impossibile in quanto siamo in un regime di cambi fissi. Si svaluta così il salario (in gergo tecnico deflazione salariale), in una corsa al ribasso tra paesi europei, a scapito della domanda interna.

Inoltre, secondo la vulgata mainstream, maggiore flessibilità avrebbe anche aumentato la produttività delle nostre imprese.

HANNO FUNZIONATO QUESTE RIFORME?

Rispondiamo andando a guardare i dati.

L’ISTAT, nel “Rapporto annuale 2019 – La situazione del Paese” certifica che sono aumentati i part time (1 milione in più rispetto al 2018) e i contratti a tempo determinato +760.000 rispetto al 2008. Inoltre gli occupati a tempo pieno sono calati di 876.000 unità, e le ore lavorate sono 2 miliardi in meno rispetto al periodo precedente alla crisi. Ricordiamo che per l’ISTAT è considerato occupato chi nella settimana di riferimento dell’indagine ha lavorato almeno un’ora.

L’occupazione è quindi si aumentata, ma quella precaria.

Occupiamoci ora della produttività. Secondo uno studio effettuato da Robert Gordon e Ian Dew-Becker in “The role of labor market changes in the slowdown of European productivity growth” la flessibilità del lavoro ha contribuito al calo della produttività. In alcuni passi leggiamo:

“I nostri risultati suggeriscono che almeno nel breve periodo imposte più basse e una deregolamentazione del mercato del lavoro innalzano la crescita dell’occupazione ma deprimono quella della produttività […]. Riducendo le tutele legislative dei lavoratori, i sussidi di disoccupazione e le aliquote medie di imposta, i paesi provocano una diminuzione del tasso di crescita della produttività tale da cancellare in tutto o in parte i benefici di un’occupazione più alta […]. La nostra analisi suggerisce che alcune riforme considerate prioritarie dall’Agenda di Lisbona potrebbero si innalzare il tasso di occupazione, ma anche ridurre la produttività, determinando, come nelle nostre simulazioni, effetti trascurabili sul reddito pro capite”.

E ancora in “Experience, Innovation and Productivity. Empirical Evidence from Italy’s Slowdown” di Francesco Daveri e Maria Laura Parisi troviamo:

“Queste modifiche legislative (il pacchetto Treu) dettero pieno riconoscimento legale a una quantità di forme contrattuali part-time e temporanee, alcune delle quali esistevano da prima, anche se confinate al mercato del lavoro non ufficiale. L’abbondanza di lavoro a buon mercato derivante da queste riforme monche ha determinato un declino del rapporto capitale/lavoro di equilibrio. Potrebbe anche aver scoraggiato la capacità innovativa di molti imprenditori, che sono stati posti a confronto con la tentazione irresistibile da adottare tecniche che usassero in modo intensivo i lavoratori part-time, la cui disponibilità sul mercato del lavoro era aumentata”.

Inoltre in “Alcune riflessioni sulle cause reali della crisi finanziaria”, Giuseppe Travaglini scrive:

“Il basso costo del lavoro ha agito da disincentivo per le imprese ad accrescere l’efficienza, rendendo profittevoli attività a basso valore aggiunto, altrimenti marginali […]. La moderazione salariale quindi, oltre che deprimere le retribuzioni e i consumi, favorendo l’indebitamento, ha depresso l’investimento di qualità, i processi innovativi e la crescita della ricchezza nazionale”.

Ulteriore conferma di quanto sostenuto può essere trovata in “Reforms, labour market functioning and productivity dynamics: a sectoral analysis for Italy” di Cecilia Jona Lasinio,e Giovanna Vallanti, in “Is there a trade-off between labour flexibility and productivity growth? Some evidence from Italian firms” di Federico Lucidi e ancora in “Italy: from economic decline to current crisis” di Pasquale Tridico.

CONCLUSIONI

In conclusione possiamo affermare che le riforme del mercato del lavoro non hanno arrecato giovamento all’economia italiana, anzi, hanno amplificato il calo di produttività (una risorsa meno preziosa viene usata peggio), e hanno inasprito la crisi di domanda domestica che stiamo vivendo. Tali riforme, al massimo, andrebbero applicate nelle fasi di espansione del ciclo economico e non nelle fasi di recessione, come invece è avvenuto.

E’ quindi ora necessario fare un passo indietro, rectius un passo avanti, magari ristabilendo nei contratti collettivi un’indicizzazione, che tenga conto della produttività e dell’inflazione (scala mobile), e riabilitando l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Inoltre sarebbe urgente ripensare radicalmente il progetto di integrazione europea, che scarica i costi sui lavoratori smantellando i diritti sociali e deflazionando i salari.

Matteo Mariotti

FONTI:

  • Oltre l’austerità, S. Cesaratto, M. Pivetti
  • Dieci anni di legge Biagi in Italia, W. Passerini
  • Alcune riflessioni sulle cause reali della crisi finanziaria, G. Travaglini
  • Reforms, labour market functioning and productivity dynamics: a sectoral analysis for Italy”, C. J. Lasinio, G. Vallanti
  • Is there a trade-off between labour flexibility and productivity growth? Some evidence from Italian firms”. F. Lucidi
  • Italy: from economic decline to current crisis” di P. Tridico
  • Experience, Innovation and Productivity. Empirical Evidence from Italy’s Slowdown”, F. Daveri e M. L. Parisi
  • The role of labor market changes in the slowdown of European productivity growth”, R. Gordon e I. Dew-Becker
  • “Rapporto annuale 2019 – La situazione del Paese”, ISTAT

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