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Fare e disfare, è tutto un lavorare”: questo proverbio vale per tutti, anche a Davos di Guido Salerno Aletta

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Fare e disfare, è tutto un lavorare”: questo proverbio vale per tutti, anche a Davos, e si applica pure ai Presidenti americani che vi partecipano per comunicare al mondo la loro visione del futuro. Stavolta, con Donald Trump siamo davvero agli antipodi rispetto a quanto avveniva nel 2000, quando Bill Clinton annunciava al mondo l’ingresso della Cina nel Wto, e la grande prosperità che sarebbe derivata dalla New Economy.

Era il 29 gennaio del 2000, e si stava traghettando il mondo nel nuovo millennio. Ed era davvero tutto un altro pianeta: i no-global protestavano violentemente contro il turbocapitalismo occidentale che rendeva ancor più poveri i Paesi poveri; la Cina si apriva al capitalismo puntando sulla competizione nella manifattura; le quotazioni delle dot-com sul Nasdaq macinavano un record dietro l’altro.
Mai previsioni furono più azzardate di quelle di Bill Clinton, che aveva sostenuto l’ingresso della Cina nel Wto affermando che l’accordo avrebbe determinato un “win-win result” per entrambi i Paesi, sottolineando che le esportazioni americane in Cina già determinavano “centinaia di migliaia di American jobs”, e che queste cifre sarebbero sostanzialmente cresciute con il nuovo accesso al mercato cinese determinato dagli accordi del Wto .

Addirittura, tra i suoi consiglieri c’era chi sosteneva che senza l’ingresso nel Wto la Cina avrebbe esportato ancora di più negli Usa, mentre il mercato cinese sarebbe rimasto chiuso alle merci americane. Il deficit commerciale americano era già massiccio, visto che nel 1999 l’import di merci dalla Cina era stato di 81 miliardi di dollari, a fronte di un export di soli 13 miliardi, con un rapporto di 6 a 1, ed un disavanzo di 68 miliardi. Allora si calcolava che, a fronte di 170 mila posti di lavoro creati dall’export verso la Cina, quelle importazioni avevano già fatto evaporare in America ben 880 mila posti di lavoro ben retribuiti.

Le cose, come tutti sanno, sono andate ben diversamente: fra 1l 2000 ed il 2016, il totale del disavanzo americano per merci è arrivato a 4.006 miliardi di dollari. Nella peggiore delle ipotesi formulate nel 1999, il deficit del 2016 non avrebbe dovuto superare i 200 miliardi di dollari, ed invece è stato di 347 miliardi di dollari, con importazioni per 462 miliardi ed esportazioni per 116 miliardi. Naturalmente, c’era chi la pensava diversamente, ma prevalse la logica della apertura senza vincoli di sorta. La New Economy avrebbe pareggiato i conti.

La esaltazione che Bill Clinton faceva delle nuove tecnologie legate ad Internet non ebbe miglior sorte: il 31 gennaio del 2000, appena due giorni dopo l’intervento a Davos, il Nasdaq toccò la vetta di sempre, con 4.696 punti. Da allora cominciò a crollare, senza sosta, fino a settembre del 2002, quando quotò 1.172 punti. Il livello del gennaio 2000 fu ripreso solo nel novembre del 2014, per approdare in questi giorni intorno a 7.100 punti: lo scoppio della bolla di Internet fu disastrosa, e solo poche imprese da allora sono riuscite a trovare un modello di business convincente. Non è stato così per gli ISP e per le compagnie di telecomunicazioni, visto che anche gli operatori mobili non sono più riusciti a ritornare ai valori del 2000.

Donald Trump si presenta ora a Davos come un fautore della Old Economy e del riequilibrio del commercio estero americano, al limite del protezionismo. Alla globalizzazione che ha favorito i Paesi con un basso costo del lavoro ed un welfare inesistente, i Paesi ricchi hanno cercato di recuperare terreno riducendo i salari: ma è stata, anche in America, una sfida socialmente e politicamente destabilizzante. La New Economy non crea abbastanza posti di lavoro e non compensa neppure economicamente l’abbandono della Old Economy. Purtroppo, diciotto anni dopo, sono due lezioni che in molti devono ancora imparare, e non solo a Davos.

Guido Salerno Aletta, MF 10 gennaio 2018


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