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Emissioni e Petrolio: l’Italia fa poco per diminuire la dipendenza dal fossile (di C.A. Mauceri)

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Appena tornato dalla visita negli USA (infarcita di lodi ed elogi al presidente Biden e alla sua politica internazionale), il capo del governo Draghi si è proposto da mediatore tra Russia e Ucraina chiamando prima Putin e poi Zelensky. Tutto inutile come era facile prevedere. La Russia non avrebbe mai potuto accettare come mediatore uno dei paesi più impegnati nel regalare armi all’Ucraina. Zelensky dall’altro lato, ha confermato di non volere affatto la pace: non solo per le incessanti richieste di armi “pesanti” rivolte ai paesi occidentali, ma per aver dichiarato che non si piegherà a nessun accordo fino a che i russi rimarranno in Ucraina.

Inutili sotto il profilo geopolitico, questi eventi sono tuttavia utili per altri motivi.

Innanzitutto dimostrano come, a fronte di tante belle promesse, l’Italia (e molti altri paesi) non stanno portando avanti politiche “verdi”. Secondo i dati di Ember’s Global Electricity Review 2022, in Italia il ricorso a solare e fotovoltaico contribuiscono solo al 16% della produzione di energia. Percentuali ben diverse da quelle della Germania (28,8%), della Spagna (32,9%), della Grecia (28,7%), del Portogallo (31,5%) e dell’Olanda (24,6%). Una dipendenza così rilevante dai combustibili fossili ha reso il paese più debole davanti a ciò che sta accadendo. Ma non basta. Ha reso l’Italia e gli italiani vittime delle grandi società petrolifere. Le quali, dal canto loro, stanno facendo affari d’oro proprio grazie alla crisi ucraina. Giusto per fare un esempio, Chevron una delle maggiori società petrolifere al mondo ha avuto un fatturato di decine e decine di miliardi di dollari con un utile netto di miliardi di dollari e un aumento di oltre il 260%! “I profitti del terzo trimestre [2021, ndr] sono stati i più alti dal primo trimestre 2013 in gran parte a causa del miglioramento delle condizioni di mercato, della forte performance operativa e di una struttura dei costi inferiore”, ha affermato Mike Wirth, presidente e amministratore delegato di Chevron. Che ha aggiunto “Abbiamo pagato dividendi per 2,6 miliardi di dollari, ridotto il debito di 5,6 miliardi di dollari e riacquistato 625 milioni di dollari di azioni durante il trimestre”. Cifre da capogiro ma che rendono un’idea dei guadagni e del giro di affari che le grosse compagnie petrolifere stanno facendo nell’ultimo periodo. E mentre le compagnie petrolifere fanno utili a palate, sui cittadini italiani (ed europei) continuano ad essere scaricati i costi di una cattiva gestione del settore e dei ritardi decennali della conversione al solare e all’eolico (in barba alle promesse e alle belle parole pronunciate anche a Glasgow nel 2021 in occasione della COP26).

 

Naturalmente, esiste anche il rovescio della medaglia. A fronte di fatturati da capogiro e utili spaventosi a dieci zeri le compagnie petrolifere sarebbero anche le principali responsabili dei cambiamenti climatici in atto. Già nel 2017 una ricerca pubblicata dal Guardian parlava di oltre il 70% delle emissioni di CO2 imputabili a solo 100 grandi aziende legate al petrolio. Una situazione che secondo il Carbon Majors Report va avanti dal 1988. La ricerca “individua come un insieme relativamente piccolo di produttori di combustibili fossili possa detenere la chiave per un cambiamento sistemico sulle emissioni di carbonio”, ha dichiarato Pedro Faria, direttore tecnico dell’organizzazione no-profit ambientale CDP, che ha pubblicato il rapporto in collaborazione con il Climate Accountability Institute. Aggiornamenti recenti hanno confermato che nulla è cambiato (in barba alle promesse fatte da tutti i governi e agli impegni sottoscritti nelle varie COP).

 

L’aspetto più spaventoso, forse, è che la maggior parte di queste aziende non sono private ma a compartecipazione statale. Aziende come Saudi Arabia Aramco dell’Arabia Saudita. O Gazprom (russa). O la National Iranian Oil Co., ovviamente iraniana. O Carbone India. O Pemex (Messico). O PetroChina. E poi Venezuela Oil. E molte altre ancora. Anche Sonatrach è a compartecipazione statale dell’Algeria. Proprio con questa azienda il governo Draghi avrebbe scritto un accordo preliminare che prevede anche il coinvolgimento di ENI (altra azienda a compartecipazione statale):  entro la fine del 2022, dovrebbero arrivare in Italia tre miliardi di metri cubi di gas in più. Un accordo presentato come “fondamentale per la sicurezza energetica” del Bel Paese che punta soprattutto sul gas dall’Algeria per ridurre la dipendenza da quello russo. Ma solo diventando schiavi di un altro fornitore estero ( e certo la situazione in Algeria non è poi molto migliore di quella in Russia o in Ucraina)! Ma non basta. L’accordo mostra già qualche lacuna. Il progetto sottoscritto ad aprile parla di 9 miliardi di metri cubi complessivi entro il 2024. Ma questa è una capacità che, al momento, l’Algeria non è in grado di soddisfare. Ecco, quindi, che per accelerare i tempi e garantirsi una quota di gas dall’Algeria in tempi brevi, sarà ENI a supportare Sonatrach nello “sviluppo accelerato” di nuovi giacimenti. In altre parole, ancora gas e petrolio. Ancora fonti energetiche fossili. E ancora dipendenza da un paese estero. Il tutto presentato come una “soluzione” strategica, come il frutto di un progetto di sviluppo eccezionale, come il risultato di una negoziazione eccezionale.

 

Inutile dire che tutto questo avrà un costo non solo sulle tasche degli italiani, ma anche sulla loro salute e sulla salute di tutto il pianeta. Da decenni, in barba alle belle parole e alle promesse dei leader politici, le emissioni di CO2 continuano ad aumentare. Emissioni che sono responsabili dei cambiamenti climatici in atto (dall’aumento delle temperature all’innalzamento del livello del mare ai danni alla biodiversità) e di incalcolabili danni alla salute. Una responsabilità che dovrebbe gravare (anche economicamente) sui maggiori responsabili di queste emissioni. A dirlo è il Principio 16, “chi inquina paga”, menzionato nella Dichiarazione di Rio sull’ambiente e lo sviluppo, approvata al temine del Vertice della Terra delle Nazioni Unite, nel 1992.

Se questo principio venisse adottato il costo per le grandi compagnie petrolifere sarebbe enorme.

Cosa fare allora per non correre il rischio di essere costretti a non poter più avere miliardi di dollari di utili ogni anno? Semplice. Basta mettere in dubbio che esista un legame diretto tra l’aumento delle emissioni di CO2 e i cambiamenti climatici in atto.

Non si tratta di una strategia nuova: le prime ad adottarlo furono le case produttrici di tabacco e derivati accusate di essere responsabili della morte di milioni di persone vittime delle conseguenze del tabagismo. “Il dubbio è il nostro prodotto poiché è il mezzo migliore per competere con il ‘corpo di fatto’ che esiste nella mente del grande pubblico. È anche il mezzo per stabilire una controversia”,  disse qualche anno fa uno dei leader delle grandi case produttrici di sigarette e simili.

Il concetto è che non si deve fornire la prova della propria non responsabilità: basta creare una quantità sufficiente di confusione tra il pubblico e il “presunto” impatto negativo del fumo sulla salute delle persone. O, nel caso delle aziende del petrolio, tra emissioni di CO2 e cambiamenti climatici. Cosa che è stata fatta molte volte, come spiegano Naomi Oreskes ed Erik Conway nel loro libro Merchants of Doubt: basta “convincere” (o forse sarebbe meglio dire “assoldare”) un gruppo sufficientemente numeroso di scienziati di alto livello, magari con ampie connessioni politiche, e condurre insistenti campagne miranti a fuorviare la certezza del pubblico negando le conoscenze scientifiche consolidate. “Un resoconto ben documentato di come funziona la scienza e di come i motivi politici possono dirottare il processo attraverso il quale le informazioni scientifiche vengono diffuse al pubblico”. Gli autori del libro elencano sette settori che lo dimostrano. Tra questi (oltre al tabacco), le piogge acide, il buco dell’ozono, il riscaldamento globale…

Un sistema che funziona meglio di quanto si pensi. Le aziende petrolifere continuano a fare utili netti a nove zeri. E i politici di turno a far credere che stanno facendo di tutto per salvare l’ambiente. O per risolvere il problema del gas che arriva dall’Ucraina…

 

C.Alessadro Mauceri

 

 

 


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