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Crisi

EFFETTI DELL’INTERVENTO DELLA BCE

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   Nell’iconografia di sinistra, il capitale è una somma che appartiene ad un signore ricco, nullafacente e disposto ad investirlo. Nella realtà normalmente il capitale è prestato agli imprenditori dalle banche, che l’hanno a loro volta ricevuto da privati ai quali corrispondono un interesse. Le banche vivono infatti della differenza fra l’interesse pagato ai risparmiatori e quello richiesto agli imprenditori. Dunque, al momento di lanciare un’impresa, il livello di remunerazione del capitale è importante perché fa parte dei costi.

Il peso di questo costo dipende dalla salute dell’impresa. Se essa ha alti profitti, anche esborsi notevoli non la scoraggeranno; se invece essa è marginale e sta in piedi a stento, rischierà di chiudere in seguito alla prima variazione del mercato. E infatti le banche difficilmente le faranno credito.

In un momento di stagnazione, per rilanciare le imprese, si reputa necessaria l’evidente manovra anticiclica di fornire capitali a basso tasso d’interesse. È quello che fa attualmente la Banca Centrale Europea. E dal momento che il denaro che essa presta alle banche non è frutto di raccolta di risparmio ma del lavoro della zecca, ha quasi portato a zero detto interesse. Lo scopo sarebbe quello di favorire la ripresa produttiva (diminuendo il costo del capitale per le nuove imprese), ma fino ad ora i risultati sono molto scarsi.

Non c’è da stupirsene. Se non si intravedono occasioni di guadagno, le imprese non nascono. Neanche se il capitale gli è offerto a basso costo. D’altro canto le banche, che pure sono liete di rifornirsi di capitali quasi gratis, sono molto meno liete di rischiarli e perderli. Esse dunque non divengono meno diffidenti nei confronti dei clienti e per conseguenza i rubinetti del credito alle imprese non sono stati gran che aperti. Alle banche conviene prendere il denaro della Bce per poi investirlo in redditizi titoli di Stato, guadagnando senza correre rischi e girandosi i pollici.

La mossa, pure ufficialmente riprovata, ha i suoi vantaggi. I Paesi afflitti da un grande debito pubblico, per rimborsare i titoli in scadenza e pagare gli interessi, hanno continuamente bisogno di collocare i loro titoli sul mercato borsistico, ottenendo denaro fresco. A questo punto è una vera manna avere banche pronte a comprare i titoli, mantenendone alta la richiesta e deprimendo per conseguenza i tassi d’interesse da pagare. Ricordiamo che, se per ipotesi, il primo anno scadesse un decimo del debito italiano, e se per ipotesi non si potessero vendere nuovi titoli, ci troveremmo a dover pagare duecento miliardi. di cui ovviamente non disponiamo. Ciò significa che il mancato collocamento corrisponderebbe al default.

Ma ciò ha altre conseguenze. Se i tassi d’interesse dei titoli di uno Stato oberato di un immane debito presentano un differenziale piuttosto piccolo rispetto agli analoghi bond tedeschi (considerati sicuri), l’impressione è che quei titoli siano solidissimi. Diversamente – si pensa – i tassi salirebbero. E questo è gradito a tutti, anche all’Unione Europea che non deve temere – come nel 2011 – di veder scoppiare l’intero sistema.

Purtroppo tutto ciò è illusorio. È come se qualcuno fosse reputato solvibile soltanto perché dice di esserlo. Il denaro che la Bce presta è a fronte di niente: non risulta infatti dalla ricchezza prodotta e accantonata dai risparmiatori, e se fosse immesso in circolo provocherebbe inflazione. Le stesse banche che lo investono in titoli di Stato lo tengono in portafogli (soltanto per lucrare gli interessi) e aumentano così una massa monetaria che pesa sulla testa dell’intero continente come un’immensa spada di Damocle. Tutto si regge sulla convinzione che il momento della resa dei conti sia ancora lontano. Ma che cosa giustifica questa fiducia?

Le banche, pure coscienti della precarietà della situazione, considerano che, se l’intero sistema andasse in crisi, non ci sarebbe nessun’altra politica aziendale che le salverebbe. Se gli Stati affonderanno, affonderanno con loro e non saranno certo le sole a piangere. Dunque, finché la cosa funziona, si va avanti.

La fiducia dei privati è invece meno comprensibile e potrebbe derivare da disinformazione. A parte il fatto che essi potrebbero scegliere altri investimenti (anche all’estero, anche in altre valute) e sfuggire all’eventuale catastrofe, la loro tranquillità nasce dal pregiudizio che l’investimento in titoli pubblici sia sicuro. “Gli Stati non possono fallire”. Oltre tutto – male che vada – l’Unione Europea e gli altri Stati, per non essere coinvolti nel disastro, interverrebbero per salvarci. E dunque si accontentano perfino dei bassi rendimenti determinati dagli acquisti delle banche. Ma si sbagliano.

In primo luogo non è affatto detto che gli Stati non possano fallire. Ci sono già state nazioni che hanno cessato i pagamenti. E soprattutto nella storia non si sono mai avuti tanti Stati così pesantemente indebitati: questa è una situazione nuova. Inoltre – e ciò è fondamentale – in caso di difficoltà un grande Stato non può essere salvato. Lo si è tentato per la piccola Grecia, ma sarebbe pressoché impossibile per un elefante come l’Italia. Si dice “too big to fail”, ma bisognerebbe aggiungere che se, pur essendo “big”, uno Stato fallisce, poi è “too big to be rescued”. E non parliamo di una crisi che coinvolgesse altri Paesi.

Le difficoltà dell’economia reale non si risolvono con manovre monetarie o finanziarie. Con tali manovre i problemi si possono mascherare, si possono eludere, si possono rinviare, ma in conclusione, se non si risana l’economia sottostante, ci sarà un momento in cui fatalmente la cambiale sarà presentata all’incasso. E quel giorno – come detto – non piangeranno soltanto le banche.

Gianni Pardo, [email protected]

25 ottobre 2014

 

 

 

 


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