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Dobbiamo ripensare alle Corti Internazionali

Senza legittimazione popolare non può esserci giustizia. Bisogna ripensare al sistema delle corti sovra nazionali

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Il fondamento di ogni democrazia risiede nel principio della sovranità popolare, ovvero l’idea che il potere ultimo emani dal popolo e sia esercitato da esso, direttamente o tramite rappresentanti eletti. Da questo principio discende la legittimità della legge: essa è giusta e vincolante solo quando riflette la volontà del popolo, espressa attraverso un processo democratico.

In questo contesto, la legge trova la sua massima espressione nel voto diretto, come nei referendum, o nel voto per eleggere rappresentanti che, in Parlamento, tradurranno la volontà popolare in norme giuridiche.

Solo un governo con una legittimazione popolare diretta può permettersi di chiamare in causa la famosa “Ragion di stato”, cioè la motivazione che può permettere di sospendere temporaneamente la trasparenza dell’agire dello stato perché comunque, quello che succede verrà sottoposto all’approvazione popolare.

Questa visione della legittimità democratica pone una seria questione riguardo al ruolo e al potere delle corti internazionali, come la Corte Penale Internazionale (CPI), la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) o la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE). Queste istituzioni, pur svolgendo funzioni importanti nel panorama giuridico internazionale, mancano di una legittimazione popolare diretta. I loro giudici non sono eletti dal popolo, né sono direttamente responsabili nei suoi confronti. Essi vengono nominati attraverso complessi processi politici che coinvolgono i governi degli Stati membri, spesso attraverso negoziazioni e compromessi che poco hanno a che fare con la volontà popolare.

La legittimazione di queste corti, quindi, è indiretta e mediata, derivando dai trattati internazionali stipulati dai governi nazionali. Si potrebbe argomentare che, essendo i governi espressione della volontà popolare attraverso le elezioni, la delega conferita alle corti internazionali sia in qualche modo riconducibile al popolo. Tuttavia, questa catena di legittimazione è fragile e opinabile. La distanza tra la volontà del singolo cittadino e le decisioni di una corte internazionale è enorme, e i meccanismi di controllo democratico su queste istituzioni sono deboli o inesistenti.

Il problema si acuisce quando si considera che le decisioni delle corti internazionali possono avere un impatto significativo sulla vita dei cittadini, talvolta entrando in conflitto con le leggi nazionali votate dai parlamenti democraticamente eletti. La CEDU, ad esempio, può condannare uno Stato per violazione dei diritti umani, imponendo modifiche alla legislazione nazionale. La CGUE ha il potere di annullare leggi nazionali che contrastano con il diritto dell’Unione Europea. La CPI può giudicare e condannare individui per crimini internazionali, anche in assenza di un consenso da parte del loro Stato di appartenenza.

In questi casi, si crea una tensione evidente tra la sovranità popolare, incarnata dai parlamenti nazionali, e l’autorità delle corti internazionali. Se la legge è legittima solo quando emana dal popolo, come possono decisioni prese da giudici non eletti, e non responsabili nei confronti dei cittadini, imporsi sulle leggi nazionali? Questa assenza di legittimazione democratica diretta mina la credibilità e l’accettazione delle corti internazionali, alimentando il dibattito sulla loro legittimità e sul loro ruolo in un mondo dove la sovranità nazionale rimane un valore fondamentale.

Anche se si volesse costruire un sistema giuridico internazionale questo non potrebbe esimersi da una forma di legittimazione generale democratica, e, soprattutto, la sua decisione dovrebbe essere sottoposta a qualche forma di revisione periodica. Tra l’altro che legittimazione può avere la CPI, quando i principali paesi non ne fanno parte?


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