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LA DISCRIMINAZIONE DEL LAVORATORE EBREO

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Un buon principio: mai arretrare dinanzi ad un’ipotesi. Infatti, se è negativa, e persino tremenda, ma poi si dimostra infondata, non sarà successo niente. Se invece si dimostra fondata, che importa che sia positiva o negativa?  Bisogna sempre avere il coraggio della verità.

In questi giorni si discute molto dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori. C’è chi vorrebbe eliminarlo, c’è chi vorrebbe conservarlo per i lavoratori già assunti a tempo indeterminato, e c’è infine chi sarebbe disposto ad abolirlo in alcuni casi. Su un punto quasi tutti sono d’accordo: sul diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento per discriminazione. Cioè se un lavoratore è mandato via perché nero di pelle, omosessuale, musulmano od ebreo. Insomma non per una caratteristica personale ma per riferimento ad una categoria di appartenenza.

Una prima perplessità nasce dall’identificazione della categoria. Chi ricevesse la lettera di licenziamento perché “inefficiente”, potrebbe sempre obiettare che il ritmo di lavoro non è soltanto una caratteristica personale, corrisponde ad un’intera categoria di persone.  C’è gente che cammina velocemente e gente che cammina lentamente, gente che divora il cibo e gente che rumina come un bovino. Insomma c’è una categoria di persone che nell’unità di tempo produce molto, e una categoria che produce poco. “Lei non può licenziarmi soltanto perché appartengo alla categoria degli inefficienti. Così lei mi discrimina”. L’argomento può apparire capzioso, ma come confutarlo?

Quanto al nero, non può mai essere licenziato perché discriminato. Infatti è stato assunto benché nero. Parliamo allora del caso più semplice: il licenziamento per motivi indubbiamente “discriminatori” di cui non si poteva avere notizia al momento dell’assunzione. Premesso che l’antisemitismo è una forma di stupidità, quando non di malattia mentale, si farà l’esempio di un imprenditore che licenzia un ebreo perché ebreo.

Il giudice – che ha dalla sua, oltre alla legge, il consenso dell’intera nazione – sta per imporgli la reintegrazione nel posto di lavoro del dipendente israelita e tuttavia il datore di lavoro, reputando d’avere qualche buona freccia al suo arco, chiede di parlare:

“Signor giudice, lei ha i capelli corti. Ciò significa che è andato a farsi tagliare i capelli, ed immagino abbia scelto il barbiere che la soddisfa come competenza, come prezzo e come vicinanza a casa sua. Comunque liberamente. Ora ammettiamo che lei sia antisemita come me, e scopra che quel barbiere è ebreo. Forse che non sarà libero di farsi tagliare i capelli da un altro? Certamente sì. Nello stesso modo, mi pare ovvio che si sia liberi di scegliere un medico o un avvocato secondo i propri parametri, e nessuno ci può impedire di evitare il medico o l’avvocato ebreo. Ora chiedo: in quanto cittadino, ho il diritto di non sposare un’ebrea; di non vedere un film con attori ebrei; di non avere né un avvocato né un barbiere ebreo; ho persino il diritto di non assumere un ebreo, purché non gridi ai quattro venti il motivo per cui non lo voglio. Ora vorrei sapere come mai, dopo tutta questa serie di libertà, inciampo sull’ultima, quella di licenziare l’ebreo assunto per errore. Non è logico.

Né vale dire che, mandandolo via, gli provoco un danno patrimoniale. Perché provoco un danno patrimoniale anche al mio barbiere, se vado da un altro barbiere, dopo che ho scoperto che lui è ebreo.

Insomma, questa legge non ha senso. A me pare razionale che un ebreo, soprattutto in un Paese in cui gli israeliti sono discriminati, dia lavoro ai suoi correligionari a preferenza dei gentili, ma corrispondentemente mi pare razionale che io mi tenga il lavoratore finché mi va, e lui stia con me finché gli va. Signor giudice, mia moglie ed io stiamo insieme da ventidue anni, abbiamo tre figli e non siamo sposati. Sa perché? Perché all’inizio ci siamo detti: se avremo voglia di stare insieme, non sarà necessario essere sposati; e se vorremo separarci è bene che non siamo obbligati a dar conto della nostra decisione ad avvocati e magistrati. Ora vedo che sono libero di lasciare una donna cui tengo moltissimo, e devo tenermi un ebreo che mi ha nascosto di essere tale, quando l’ho assunto? Se lei mi dice che devo riassumerlo perché questo vuole la legge, non potrò che obbedire: ma le assicuro che sono perfettamente capace di rendergli la vita impossibile. E questo la legge non lo vieta”.

La vera soluzione del problema dell’art.18 non è questa o quella norma: è che sia facile assumere e facile licenziare in un mercato del lavoro così fiorente che chi perde l’occupazione ne trovi facilmente un’altra.

Il resto è ideologia.

Gianni Pardo, [email protected]

23 settembre 2014

 


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