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DIRITTO, MORALE, STORIA, POLITICA

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Ogni volta che un celebre caso giudiziario giunge a conclusione, i commenti si sprecano, e non è che sia un male. Ciò che può infastidire è invece l’incrociarsi confuso di diritto, morale, storia e politica. Sono campi che vanno accuratamente distinti.

Il diritto è costituito da norme che hanno la caratteristica di essere cogenti. Anche la morale è per qualche verso cogente, ma l’adesione ad essa – intesa come “mores”, come principi comuni alla maggioranza di una data nazione – è volontaria e le sue sanzioni sono “sociali”, nel senso che non sono codificate in un corpus ufficiale, ma risultano dalla disapprovazione del gruppo. In  conclusione, da un lato la morale è un dovere, ma non un obbligo, dall’altro l’efficacia delle sue sanzioni dipende dalla sensibilità ad esse del soggetto che ne è colpito. Il suo più grande difetto è che troppo spesso le persone “morali” si sentono in diritto di imporre i loro principi a tutti, cosa che, se non è contro la morale, certo è contro la tolleranza.

La legge invece la tolleranza non sa nemmeno che cosa sia. Il suo unico modo d’espressione è il comando e il cittadino non è chiamato ad approvarla o a disapprovarla, ma semplicemente a rispettarla. Anche se reputa che sia sbagliata, nociva o immorale. I martiri cristiani disobbedivano alle leggi per motivi che la posterità ha reputato nobilissimi, nondimeno, se rifiutavano di sacrificare all’imperatore (mettendo un po’ d’incenso in un braciere, niente di drammatico) la loro condanna era tecnicamente giustificata.

Proprio per queste ragioni la legge non è né un idolo né la personificazione della giustizia: è soltanto l’espressione della volontà del sovrano, anche quando il sovrano è il popolo. Questa concezione ha delle conseguenze. Se qualcuno ha coscientemente e volontariamente violato la legge, è normale che gli si applichino le sanzioni previste, ma non è lecito biasimarlo soltanto perché ha violato la legge. I giudici romani potevano condannare a morte i cristiani, non dirgli che la loro era una falsa religione. La pena è quella edittale, e nessuno ha il diritto di moraleggiare. Un principio che, in Italia, bisognerebbe insegnare in particolare ai  magistrati e ai giornalisti. Non si può dimenticare che fra i condannati ci sono stati Socrate, Gesù Cristo, Giovanna d’Arco e tanti altri innocenti.

La legge non è una norma dettata da Dio e non è una regola di vita. È soltanto un limite alla libertà del singolo, non una deontologia, Dunque lo Stato dovrebbe limitare al massimo la sua tendenza ad atteggiarsi a maestro di morale. Non è quella la sua funzione. Allo Stato liberale non interessa ciò che pensano i cittadini, ma ciò che fanno: si chiama “esteriorità del diritto”.

Il processo, soprattutto quello penale, è il momento in cui il diritto si incarna ed opera nella realtà. Ma non ha, e non può avere, la pretesa di stabilire la verità. Mentre la storia cerca di accertare come sono veramente andate le cose, anche secoli dopo i fatti, e se non ci riesce, lascia la questione impregiudicata, il processo in ogni caso decide qualcosa, e non sempre in linea con la verità. Per giunta, non può aspettare secoli: il giudice deve condannare o assolvere. E quando assolve perché non è riuscito a capire se l’accusato sia colpevole o innocente (in dubio pro reo), la gente pensa stupidamente che egli abbia stabilito la verità storica e inconfutabile dell’innocenza. Un totale fraintendimento.

Il processo stabilisce quella che si chiama “verità processuale”, non la verità storica. La sentenza non ha e non deve avere questa pretesa. Ecco perché è scandaloso che, nel processo Andreotti, mentre lo si assolveva dalle accuse, lo si dichiarava “mafioso” per il periodo coperto dalla prescrizione. Quella è stata una patente violazione dell’etica giuridica e un’indebita e presuntuosa invasione del campo della storia. Anche perché degli ingenui che si credono giuristi, come Marco Travaglio, sulle sentenze si appoggiano – per proclamare le loro “verità” – come se fossero una rivelazione divina.

La politica infine è un campo diverso sia dal diritto, sia dalla morale, sia dalla storia, di cui totalmente si disinteressa. Essa tiene conto delle regole soltanto per le conseguenze che possono derivarne. Poiché l’apparenza della virtù è utile per ottenere l’approvazione e il voto dei cittadini, di questa apparenza si fa grande spreco, fino all’ipocrisia e fino alla crudeltà nei confronti degli avversari: ma nella sostanza, perfino quando – occasionalmente – gli scopi sono morali, i mezzi rimangono troppo spesso immorali. Chi per prevalere si servisse soltanto di mezzi morali finirebbe col perdere, come ha insegnato Machiavelli.

Chi conosce il moralismo peloso e interessato dei politici, chi ha misurato il loro cinismo, la loro capacità di dissimulazione e di tradimento, non può che rimanere disgustato, quando li sente atteggiarsi a Catoni. E alla fine, tra diritto, morale e politica, non gli rimane che aggrapparsi alla storia, sperando che, alla fine, sia essa a dire una parola di verità.

Gianni Pardo, [email protected]

13 marzo 2015


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