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“Delle imposte, delle tasse e di altre amenità” p. terza di R. SALOMONE-MEGNA

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Nella seconda parte  https://scenarieconomici.it/delle-imposte-delle-tasse-e-di-altre-amenita-p-seconda-di-r-salomone-megna/ abbiamo riportato l’art.53 della Costituzione che ci induce subito ad una prima osservazione.

Il verbo utilizzato nella frase “tutti sono tenuti a concorrere” sta a significare che la spesa pubblica può essere coperta anche con altri proventi, quali quelli provenienti da emissione di moneta o dalla  monetarizzazione del debito.

Ne consegue che il dovere di concorrere a sostenere la spesa pubblica è espressione sia di un generale dovere di solidarietà, come indica l’ art. 2 della Costituzione, nonché dell’obbligo di contribuire ad assicurare eguaglianza, sia formale che sostanziale, come prevede il successivo art. 3.

Tutto con il fine di creare un sistema sociale in grado di assicurare dei servizi per tutti, anche per i meno abbienti.

Proprio per questo i Padri Costituenti stabilirono che il dovere dovesse essere adempiuto sulla base di criteri di progressività.

In definitiva, con l’imposizione fiscale, lo Stato deve operare una redistribuzione della ricchezza prodotta tra i cittadini italiani e non certo reperire i fondi per le opere pubbliche ed i servizi.

Cosa è avvenuto con la Costituzione materiale? Il totale stravolgimento del dettato dell’art. 53, scritto tra l’altro con grande chiarezza.

Gli azzeccagarbugli nostrani si sono affrettati, sin dalla fine degli anni 60, ad ampliare il significato di capacità contributiva, che inizialmente coincideva con l’unico possibile, quello di reddito prodotto.

Infatti  sin da allora era “in nuce” il progetto  dell’Unione Europea, per cui lo stato doveva uscire dai mercati ed il welfare doveva essere ridotto e soprattutto messo in carico ai cittadini secondo i dettami di Hayek e Friedman.

Così fenomeni del diritto e della politica nostrani hanno cominciato a sostenere che la capacità contributiva non si esaurisce con il reddito o con un patrimonio speculativo, ma che questa comprende anche altri fattori collegati ai beni posseduti, come l’incremento del valore di un dato bene (es. la casa) o il fatto stesso di possederlo.

La motivazione sempre la stessa: dobbiamo entrare in Europa, dobbiamo fare sacrifici!

E d’emblée i nostri governanti, europeisti convinti, sono riusciti nei decenni a snaturare il significato delle parole dei Costituenti. La base imponibile, quella su cui effettuare il prelievo fiscale, è aumentata grazie agli “indici concretamente rivelatori di ricchezza”, che quindi potevano essi stessi considerarsi capacità contributiva.
La Corte Costituzionale, ente eminente politico essendo costituita da quindici membri dei quali solo cinque provenienti dai ranghi della Magistratura, è andata in soccorso di queste teorie con la sentenza n. 155/2001, in cui si dice : “la capacità contributiva non presuppone l’esistenza necessariamente di un reddito o di un reddito nuovo, ma è sufficiente che vi sia un collegamento tra prestazione imposta e presupposti economici presi in considerazione, in termini di forza e consistenza economica dei contribuenti o di loro disponibilità monetarie attuali, quali indici concreti di situazione economica degli stessi contribuenti”.
L’orientamento viene ribadito dalla sentenza n. 156/2001 che così chiarisce“rientra nella discrezionalità del legislatore, con il solo limite della arbitrarietà, la determinazione dei singoli fatti espressivi della capacità contributiva che, quale idoneità del soggetto all’obbligazione di imposta, può essere desunta da qualsiasi indice che sia rivelatore di ricchezza e non solamente dal reddito individuale”.

Il reddito prodotto non è più il solo indicatore della capacità contributiva, ma esso è stato sostituito nella Costituzione materiale da “redditometro” e dagli “studi di settore” con tutto quanto di raccapricciante e vessatorio questo ha comportato e comporta.

Ma bisogna pur pagare gli interessi ai detentori del debito pubblico italiano, agli speculatori internazionali!

Fine parte terza.


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