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DEBITO E MONETA, intervento di Antonio Maria Rinaldi alla Scuola di Formazione Politica della Lega.

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Intervento di Antonio M.  Rinaldi alla Scuola di formazione  politica promosso dalla Lega Nord e da Noi con Salvini tenuto a Roma il 24 gennaio 2016.

 

Cosa è il debito pubblico
Per debito pubblico s’intende il debito che uno Stato contrae nei confronti di soggetti, sia nazionali che esteri, che hanno sottoscritto obbligazioni emesse dallo Stato stesso per coprire il fabbisogno finanziario corrente e l’eventuale deficit maturato per venire incontro alle esigenze di cassa. Pertanto la sommatoria dei deficit annuali (nel caso le entrate siano inferiori alle uscite) o surplus di bilancio (nel caso le entrate siano superiori alle uscite), generano l’entità del debito pubblico. Naturalmente anche la corresponsione degli interessi per il sostentamento del debito stesso concorrono alla formazione dello stock del debito.
In particolare il debito pubblico italiano è stato caratterizzato da avanzi primari (cioè al netto degli interessi) molto corposi negli anni, tanto da indurre i governi nel perseguire politiche fiscali particolarmente aggressive e gravose a carico delle imprese e delle famiglie, sottraendo sistematicamente ingenti risorse ai consumi e agli investimenti.

Sostenibilità e insostenibilità del debito
Quale può essere considerata comunque la soglia fra “sostenibilità” e “insostenibilità” di un debito pubblico? Questo tema, molto dibattuto nella letteratura economica, fu riproposto all’attenzione dei policy maker da Reinhart e Rogoff (2010): utilizzando un campione di 20 paesi industrializzati per un periodo che va dal 1946 al 2009 giunsero alla conclusione che la soglia al di là della quale il debito ha un effetto boomerang sulla crescita economica era nel rapporto del 90 per cento sul PIL.
L’esistenza di una soglia precisa fra “normalità” e “abnormalità” del rapporto debito-PIL è comunque un tema molto controverso. Ad esempio, Panizza e Presbitero (2013) trovarono che tale soglia risulterebbe sensibile al campione statistico e alla metodologia seguita. In aggiunta, il risultato-clou dello studio di Reinhart e Rogoff fu stato notevolmente inficiato dall’omissione di importanti osservazioni presenti nel loro campione, da procedure statistiche dubbie e da errori nel foglio di calcolo Excel utilizzato (Herndon, 2013).
Si ricorda che il Trattato di Maastricht fissò gli aleatori parametri di convergenza del 60% fra debito pubblico e rispettivo PIL e il limite dell’indebitamento annuale al 3%, sempre rispetto al PIL, senza precise regole scientifiche, ma solamente prendendo a riferimento quelli che all’epoca erano desunti dai dati macroeconomici tedeschi e francesi. Parametri ribaditi successivamente anche dal Trattato di Lisbona del 2007 (TFUE) e irrigiditi dal Fiscal Compact con l’introduzione del principio del pareggio di bilancio (0,5% deficit se si ha un rapporto debito/PIL superiore del 60% e dell’1% se inferiore).
In sintesi, non esiste una regola meccanica che divida la serie temporale del rapporto fra debito pubblico e PIL fra “zone tranquille” e “zone pericolose”. Pur tuttavia, anche scontando la precarietà dell’inferenza statistiche, non si può negare che, al crescere di tale rapporto, si rischia di entrare nella zona pericolosa dell’insostenibilità del debito. Questa è la situazione italiana come è possibile valutarla in teoria ma, ancor più, come la valuta il mercato.

Modi per risolvere il problema del debito pubblico
Le diverse tecniche a disposizione della politica economica e monetaria seguiti dai governi di tutto il mondo nei confronti delle rispettive finanze pubbliche, danno spunto per classificare le scelte utilizzate per la gestione degli eccessi di debito pubblico.
Per “problema del debito pubblico” si intende la necessità di mantenere sostenibile il suo livello, ed entro limiti (o parametri) prefissati, i flussi finanziari a esso correlati che, se disattesi, comportano più o meno automaticamente interventi più radicali tesi al suo contenimento. A tal fine possiamo individuare essenzialmente quattro diverse tecniche a disposizione della politica economica e monetaria per la sua gestione:
1) Monetizzazione del debito e relativa inflazione;
2) Provvedimenti fiscali (rimborso attraverso surplus di bilancio ottenibili con maggiore pressione fiscale e/o minori spese o cessione di patrimonio pubblico);
3) Rifiuto di rimborsarlo in tutto o in parte (default soft o hard);
4) Rinegoziazione dei termini contrattuali (tempi di rimborso/consolidamento; tassi; valuta di denominazione e concessioni di collaterale) direttamente con i detentori del debito o con un’organizzazione pubblica sorretta da organizzazioni sovranazionali che intervenga per garantire il rimborso ed evitare attacchi speculativi.

Monetizzazione del debito e inflazione
Essenzialmente vi sono due forme di monetizzazione del debito: quello compiuto all’atto del rimborso e quello all’atto dell’emissione e della sua circolazione. Va precisato che il debito pubblico di una nazione, se espresso nella stessa moneta del paese che lo emette, giunto a scadenza può essere sempre in ogni caso rimborsato obbligando l’Istituto di emissione ad immettere nel sistema base monetaria per estinguerlo.
Se invece è denominato in una moneta straniera, le autorità monetarie devono attingere la valuta necessaria dalle riserve ufficiali, o in alternativa se la deve procurare sul mercato, offrendo in cambio base monetaria domestica.
Un caso particolare è rappresentato dal debito pubblico italiano denominato nella valuta euro, ossia in una moneta che, pur essendo la sua, il Paese non può emettere direttamente, ma tramite un’istituzione sovranazionale come la BCE; all’atto del rimborso, il debito dei paesi membri dell’euro segue pertanto le sorti assimilabili come se sia denominato in una moneta straniera. Questo è uno dei punti cardini dell’idea che moneta e Stato, in Europa l’unione politica, non possono essere scissi e la coronation theory sia una idea sbagliata. Infatti chi governa la moneta governa lo Stato e pertanto nel caso europeo chi governa l’euro, governa l’intera Europa.
Le fattispecie più importanti della monetizzazione sono quelle attuate all’atto del collocamento (ossia sul mercato primario) o della circolazione (sul mercato secondario) dei titoli del debito pubblico, creando in questo modo base monetaria diretta e indiretta attraverso il canale del Tesoro. Questa pratica, se utilizzata con una certa sistematicità può creare un habitat inflazionistico a causa degli effetti dell’aumento della massa monetaria che ne consegue. La monetizzazione è una tecnica usata dalla quasi totalità delle banche centrali, chiamate a svolgere, volontariamente od obbligatoriamente, la funzione di “prestatrici di ultima istanza”.
Se questo tipo di intervento diviene fisiologico in un’ottica di sana e corretta politica monetaria sia nelle quantità che nei livelli dei tassi d’interesse ottenuti, ossia quando assume per dimensioni e per continuità di intervento il ruolo di principale mezzo per la sottoscrizione dei titoli di Stato, l’effetto inevitabile è quello di produrre l’innalzamento del tasso d’inflazione. Il ricorso alla monetizzazione del debito tende a risolve il fardello del debito dimezzandone inoltre il valore reale attraverso una svalutazione continua e costante della valuta in cui è espresso.
Va ricordato che nel 1981 la Banca d’Italia di Ciampi fu invitata (di comune accordo) dal Ministero del Tesoro di Andreatta a non intervenire più obbligatoriamente in supporto delle aste dei titoli pubblici al fine di regolarne il livello dei tassi. Ne conseguì un repentino aumento degli stessi che determinarono, nei successivi 12 anni, il raddoppio del rapporto debito pubblico PIL. Uno Stato che si definisce sovrano ha invece obbligo e dovere d’intervenire con la propria Banca Centrale a supporto delle operazioni di finanziamento per il fabbisogno statale al fine di regolarne l’entità e i tassi di remunerazione.
Il caso classico limite di riferimento è quello seguito dalla Reichsbank nella Repubblica di Weimar, che nel periodo fra le due guerre mondiali, creò base monetaria per finanziare le immense esigenze derivanti dal debito contratto per rifondere i danni di guerra agli alleati (Bresciani-Turroni 1931), generando però iperinflazione.
Nel caso dell’eurozona, la BCE, nonostante lo statuto e il regolamento non vieti esplicitamente l’intervento nel mercato secondario, è in ogni caso influenzata nella sua attività dalla volontà consolidata di non dare supporto alle emissioni dei titoli dei paesi eurodotati. Tuttavia si è ritagliata uno spazio, durante la crisi dei debiti sovrani, per intervenire sul mercato per stabilizzare i corsi dei titoli pubblici dei paesi membri per impedire che le divergenze tra gli spread richiesti per il rischio, finissero con il divergere eccessivamente creando instabilità monetaria e bancaria.
La BCE, di concerto con le istituzioni europee, ha surrogato la monetizzazione legandola a “condizionalità”, ossia a processi interni di aggiustamento degli squilibri di tipo deflazionistico, attenuati da meccanismi tecnici automatici di stabilizzazione conosciuti più comunemente come fondi “salva-Stati”; in ordine cronologico ricordiamo il FESF (Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria), il MESF (Meccanismo Europeo di Stabilità Finanziaria), l’ESM (Meccanismo Europeo di Stabilità), LTRO (Long Term Refinancing Operation) ed in ultimo le operazioni di stimolo monetario meglio conosciute con il termine di Qantitative Easing (QE). Nel caso in cui la BCE utilizza questi fondi, la monetizzazione del debito pubblico comporta essenzialmente solo una diversa distribuzione della liquidità, non un suo incremento e, conseguentemente, non conduce, ceteris paribus, a maggiore inflazione.
A riprova di ciò, le massicce iniezioni di liquidità previste dai programmi di LTRO e di QE per 60 Mld di euro/mese, non hanno prodotto il più che minimo aumento dell’inflazione, lasciando l’intera eurozona in deflazione e ben lontana dal target inflattivo previsto del 2%.

Ricorso alla fiscalità
Altro mezzo classico praticato per risolvere, od almeno ridurre, l’entità dei disavanzi e l’entità degli stock di debito pubblico accumulato, è il ricorso alla fiscalità nei suoi complementari aspetti: aumento dell’imposizione tributaria e riduzione della spesa. Se si opera solo o prevalentemente sulla pressione fiscale la politica è principalmente finalizzata al sostentamento del fabbisogno di spesa primario e degli interessi sul debito. Questa scelta, invece del taglio della spesa, trova la sua validità e supporto quando viene attuata in presenza di cicli espansivi dell’economia, in quanto il prelievo fiscale influisce marginalmente sulla determinazione del saggio di crescita del PIL. Va specificato che la spesa primaria italiana, cioè al netto degli interessi sul debito, è inferiore alla media dei paesi UE (dati AMECO, database Unione Europea) e che il problema non risiede nell’entità complessiva della spesa pubblica ma bensì nella sua distribuzione.
Anche il termine di spending review è in genere frainteso: nella sua traduzione letteraria s’intende infatti “revisione della spesa” e non “taglio della spesa”, mentre è notoriamente utilizzato per compiere tagli lineari di spesa principalmente nel comparto sociale come assistenza sanitaria e pensioni invece di corretta ridistribuzione per riequilibrare gli sprechi verso spesa produttiva ed investimenti.
Vi è inoltre una corrente di pensiero politica che, cosciente che la pressione fiscale sui redditi finisce con l’incidere anche su quelli bassi, sposta le mire sui risparmi accumulati, proponendo imposizioni patrimoniali giustificate con istanze generiche di equità distributiva ma, di fatto, dal rifiuto di operare sulla spesa.
Di fronte a una probabilità non remota che il debito italiano entri in crisi irreversibile dopo aver impresso alla crescita del reddito e della disoccupazione una tendenza strutturale negativa proprio perché privata dalla possibilità di gestione con moneta propria sovrana, è possibile che il nostro Paese sia esposto in un prossimo futuro a potenziali “rischi” di un asservimento “forzoso” dei propri asset patrimoniali così come previsti dal regolamento attuativo del MES e dalla proposta avanzata con la costituzione di un Redemption Fund (RF), con consenso in ambito della Commissione europea, dal c.d. “Consiglio dei Cinque”, massimo organo consultivo e proponitivo in temi economici alla diretta dipendenza della Cancelleria.
Infatti anche il MES prevede in caso di utilizzo, non solo il rispetto dei dettami previsti dal Fiscal Compact, ma anche la messa a disposizione degli asset a garanzia degli impegni finanziari sostenuti a supporto dei titoli di debito pubblico, mentre il citato Redemption Fund, in ottemperanza alla norma del Patto di Stabilità sulla riduzione di un 5% annuo per vent’anni sull’eccedenza del 60% del rapporto debito pubblico PIL, propone la costituzione di un fondo, per l’appunto il RF, dove far confluire queste eccedenze e richiedere contestualmente agli Stati, a titolo di garanzia collaterale, sia beni patrimoniali, disponibilità auree e asservimento diretto di fiscalità, come ad es. l’intero gettito IVA, prodotto dalle nazioni che partecipano al fondo di redenzione. Questi meccanismi farebbero immancabilmente protendere più agli interessi dei creditori che dei debitori secondo logiche più assimilabili a liquidatori che a cessioni con criteri di mercato e soprattutto privando il nostro Paese di qualsiasi potere decisionale sulla gestione della vendita dei beni patrimoniali.
Tuttavia lo stesso proponente il RF, il prof. Lars Feld, sollecitato personalmente da me in occasione di un incontro fra economisti, ha ribadito che è stata accantonata l’ipotesi di ricorso al Redemption Fund poiché attualmente gli spread fra i titoli di Stato dei paesi dell’area euro sono sotto controllo.
Come nelle tecniche e nelle prassi utilizzate per la rinegoziazione dei debiti delle imprese produttive e società finanziarie in situazioni di crisi, anche per i debiti sovrani si possono applicare le medesime metodologie nel caso in cui le finanze pubbliche non siano più in condizione di assicurare la corresponsione degli interessi e/o i rimborsi del capitale alle naturali scadenze. Queste tecniche sono utilizzate quando non sono più disponibili o attuabili altre forme tra quelle sopra esposte, e nel caso di appartenenza ad aree valutarie comuni, dal contesto che si può creare dall’impossibilità del rispetto dei vincoli esterni.
Quando vengono esauriti i tentativi di ricorrere a proposte di sostegno finanziario dei vari organismi sovranazionali e gli Stati debitori valutano di non poter fronteggiare la situazione, non resta che affidare la soluzione del problema del debito pubblico a forme di default. Nel caso in cui le condizioni e le prospettive future finanziarie del paese lo consentano, si può arrivare a una forma soft di consolidamento, ossia un parziale default. Ciò richiede l’avvio di una negoziazione con i grandi detentori dei titoli, soprattutto esteri, sull’entità del mancato rimborso e sulle condizioni di rimborso del resto. Questa tecnica applicata al caso del debito greco in difficoltà è nata dall’impossibilità di monetizzare il debito, avendo rinunciato alla sovranità monetaria con l’adozione dell’euro e quindi ricadendo nel caso già ricordato di debito denominato in moneta straniera.
Nei casi più estremi, in cui la situazione finanziaria del paese non consente forme alternative sostenibili di moratorie o di rinegoziazione, è necessario procedere a una forma di hard default. In questo caso il paese si trova nelle condizioni oggettive di non essere più in grado né di corrispondere gli interessi, né di poter procedere al rimborso del capitale del debito emesso nei termini previsti all’atto delle emissioni. E’ la situazione limite in cui si è trovata l’Argentina all’inizio degli anni 2000 la quale dichiarò unilateralmente il default sul proprio debito avendo irresponsabilmente legato la propria moneta, e pertanto anche il suo debito, al cambio fisso con il dollaro statunitense.

Moneta strumento di politica economica
Pertanto una moneta autonoma per uno Stato sovrano rappresenta uno strumento essenziale per la determinazione della propria politica economica, mentre adottare un cambio fisso con una valuta più forte, ovvero vincolarsi ad accordi di cambi fissi o ingabbiati in bande rigide di oscillazione con altre valute come fu in passato con gli accordi di Basilea (serpente monetario), con il Sistema Monetario Europeo (SME) ed attualmente con l’euro, rappresenta non poter più decidere in modo autonomo ma sottostare a regole e vincoli che non tengono conto delle rispettive esigenze macroeconomiche e che immancabilmente provocano asimmetrie nell’ambito della stessa area valutaria.
Inoltre una propria moneta funge da autoregolatore automatico per ristabilire l’equilibrio e scompensi nella bilancia dei pagamenti in quanto la banca centrale agendo sul valore di cambio con le altre valute internazionali determina correzioni dei flussi dell’import/export e dei capitali. Pertanto la possibilità di avvalersi di una propria moneta sovrana consente il poter determinare la propria politica economica e non quella imposta dal rispetto dei vincoli esterni dei Trattati e regolamenti comunitari (come il caso dell’euro). L’euro pertanto ha assunto il ruolo di capovolgere la funzione classica deputata ad una moneta sovrana: scaricare sulla flessibilità del costo del lavoro l’onere di recuperare la competitività di un paese non più possibile con la svalutazione esterna con aggiustamenti di cambio.

Conclusioni
Le vicissitudini correlate all’adozione della moneta unica europea hanno però evidenziato non solo le problematiche già note all’economia classica sull’insostenibilità di tenere legate economie diverse in una stessa area valutaria, ma che la stessa moneta comune è stata utilizzata fraudolentemente come strumento coercitivo di governo sovranazionale, bypassando i governi e i rispettivi Parlamenti e quindi i cittadini, consegnando ad una oligarchia autoreferenziale e non eletta il completo potere di gestione dell’Europa e di conseguenza tutti gli Stati membri.
Ogni riferimento alla crisi dello spread del 2011 che investì l’Italia non è casuale e per evitare che in un prossimo futuro non si ripetano forme così smaccatamente pesanti d’ingerenza è necessario al più presto “riprenderci le chiavi di casa” che una classe politica irresponsabile ha consegnato a poteri esterni che non hanno mai agito nell’interesse nazionale.
Tutti gli accordi di scambio e circolazione di beni e servizi sono possibili ed auspicabili in sede europea, ma ciascuno mantenendo la propria autonomia nelle scelte di politica economica che possono altresì essere poste in essere solamente con il ritorno alla propria e piena sovranità monetaria supportata da un Istituto di emissione sotto il pieno controllo pubblico e non privato. E’ prevista dal Trattato di Lisbona agli artt. 139 e 140 la convivenza fra paesi “con deroga” e “senza deroga”, cioè con propria moneta o con euro.


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