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Euro crisis

Dalla Rivista del FMI si spara contro l’Euro, per Kevin O’Rourke è da smantellare il prima possibile.

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Segnaliamo questo post tradotto da Voci dall’Estero, sito preziosissimo da consultare quotidianamente (qui la loro pagina FB).

Si tratta di un articolo di Kevin O’Rourke, per la Rivista Trimestrale F&D del FMI.

Kevin O’Rourke era tra quegli illustri economisti che si sprecavano in suggerimenti su come rendere più funzionale l’area dell’euro. Ma ora getta la spugna, il più Europa è fuori questione, e in una pubblicazione sulla Rivista Trimestrale F&D del FMI, ha parole di fuoco sulla inconcludenza delle politiche europee: è irragionevole per un paese rimanere alla mercé di questi decisori politici, il Meno Europa si impone. 

 

Dove va l’Euro ?
Finance & Development, marzo 2014 , vol . 51 , No. 1
di Kevin O’Rourke Hjortshøj

La prima cosa che gli storici si chiederanno è come mai sia stato introdotto.
L’ economia dell’area dell’euro si trova in un tremendo pasticcio.

Nel dicembre 2013 il PIL dell’area dell’euro era ancora sotto del 3 per cento rispetto al primo trimestre del 2008, in netto contrasto con gli Stati Uniti, dove il PIL è invece aumentato del 6 per cento. Il PIL era dell’8 per cento al di sotto del livello pre-crisi in Irlanda, del 9 per cento in Italia, e del 12 per cento in Grecia. La disoccupazione nell’area dell’euro supera il 12 per cento, ed è circa il 16 per cento in Portogallo, il 17 per cento a Cipro, e il 27 per cento in Spagna e Grecia.

Gli Europei sono così abituati a questi numeri che nemmeno più li trovano scioccanti, cosa questa profondamente inquietante. Questi non sono dettagli, piccoli inestetismi in un quadro altrimenti impeccabile, sono la prova di un triste fallimento politico.
L’euro è una cattiva idea, come è stato sottolineato già due decenni fa, quando la moneta fu ideata. L’area monetaria è troppo grande e diversificata – e data la necessità di periodici aggiustamenti dei tassi di cambio reali, il mandato anti-inflazione della Banca Centrale Europea (BCE ) è troppo restrittivo. La mobilità del lavoro tra i paesi membri è troppo limitata per rendere la migrazione dalle regioni in crisi a quelle in espansione un’opzione valida di riequilibrio. E non ci sono praticamente meccanismi fiscali per il trasferimento di risorse tra le regioni, in caso di shock che colpiscano alcune aree dell’area monetaria più duramente di altre.

 

Problemi già previsti

Tutte queste difficoltà erano state correttamente individuate dalla tradizionale teoria dell’area valutaria ottimale. Nel 1998 l’Irlanda stava vivendo un boom senza precedenti, ed i prezzi delle case erano in rapido aumento. Sarebbero stati opportuni dei tassi di interesse elevati, ma quando, nel gennaio 1999, l’Irlanda è entrata nell’unione monetaria, il tasso di sconto della banca centrale è stato abbassato dal 6,75 per cento di metà del 1998 ad appena il 3,5 per cento dell’anno dopo. Con l’Irlanda così in crescita, la nuova BCE stava alacremente gettando benzina sul fuoco.
Nella periferia dell’eurozona si sono ripetute storie simili, con l’afflusso dei capitali che ha spinto verso l’alto i salari e i prezzi. Ma ciò che sale non scende così facilmente quando non c’è una moneta indipendente. La mobilità del lavoro nell’area dell’euro rimane limitata: i giovani lavoratori irlandesi emigrano in Australia o in Canada, i portoghesi in Angola o in Brasile. E senza un bilancio federale per attenuare gli shock asimmetrici, l’austerità prociclica, che aggrava piuttosto che migliorare le recessioni, è stata l’arma politica prescelta durante questa crisi – sia che sia stata imposta dai mercati, che dai politici e dai banchieri centrali della zona euro. La disoccupazione di massa in periferia è esattamente ciò che prevede la teoria in circostanze simili.
In effetti, dal 2008 abbiamo imparato che la teoria dell’area valutaria ottimale tradizionale era fin troppo ottimistica sull’unione monetaria europea. In comune con gran parte della macroeconomia mainstream, ha ignorato il ruolo degli intermediari finanziari come le banche, che mettono in contatto i risparmiatori con i debitori. Molti dei problemi più difficili da trattare della zona euro derivano dal flusso di capitali dal centro alla periferia tramite i prestiti interbancari. Quando i capitali hanno smesso di scorrere, o sono stati ritirati, le crisi bancarie che ne sono derivate hanno messo a dura prova le finanze dei governi periferici. E questo ha causato l’ulteriore peggioramento dei bilanci delle banche e della creazione del credito, che a sua volta ha portato al peggioramento delle condizioni economiche e all’aumento del deficit – e al circolo vizioso tra banche e debiti sovrani.

 

Ramificazioni politiche

Le crisi bancarie hanno avuto conseguenze politiche venefiche, dato il loro impatto transfrontaliero. Il processo decisionale guidato dal panico è stato di breve respiro e incoerente – si noti la differenza tra il trattamento dei creditori delle banche in Irlanda nel 2010, che sono stati in gran parte rimborsati, con quelli di Cipro nel 2013, dove hanno subito un duro colpo. Questo avrà conseguenze politiche di lungo termine. Nonostante il comprensibile desiderio dei burocrati europei di considerare queste questioni acqua passata, l’ipocrisia e il bullismo sono impopolari per gli elettori ordinari. Nella realpolitik europea i paesi piccoli e vulnerabili hanno pagato un costo molto pesante, che non dimenticheranno presto.
E partendo da qui, quale direzione prendiamo? Dal 2010 l’attenzione della maggior parte degli economisti si è concentrata su come rendere più funzionale l’unione monetaria. Anche coloro che erano scettici sull’ Unione economica e monetaria (UEM ), erano abbastanza preoccupati per le conseguenze di una rottura da voler evitare di sostenere l’uscita di un paese. Il risultato è stato una serie di suggerimenti su come prevenire un crollo dell’euro nel breve e nel medio termine, e su come migliorarne il funzionamento nel lungo periodo.
Nel breve periodo, quello che serve è una politica monetaria più flessibile e, ove possibile, anche una politica fiscale accomodante. Se gli storici dell’economia hanno imparato qualcosa dalla Grande Depressione, è che l’aggiustamento basato su austerità e svalutazione interna (come è definita oggi la deflazione nei singoli Stati membri dell’area dell’euro) è pericoloso. In primo luogo, i salari nominali sono rigidi verso il basso, il che implica che la deflazione, quando si raggiunge, causa l’aumento dei salari reali e maggiore disoccupazione. In secondo luogo, la deflazione aumenta il valore reale del debito pubblico e privato, alza i tassi di interesse reali, e conduce i consumatori e le imprese a rinviare gli acquisti costosi in previsione di prezzi più bassi in futuro. La Gran Bretagna ebbe ampi avanzi primari nel corso degli anni ’20, ma il suo rapporto debito-PIL crebbe notevolmente grazie al contesto deflazionistico, di bassa crescita, di allora.
In terzo luogo, i moltiplicatori fiscali sono più elevati quando i tassi di interesse sono vicini allo zero, così le riduzioni di spesa provocano un pesante calo del reddito nazionale. Il FMI ha scoperto che nella crisi attuale i moltiplicatori fiscali sono più vicini a 2 che a 1, come tra le due guerre mondiali. La conclusione inevitabile è che la BCE deve agire in modo aggressivo, non solo allo scopo di evitare la deflazione, ma fissando un obiettivo di inflazione superiore al 2 per cento per un periodo transitorio, per agevolare l’aggiustamento dei tassi di cambio reali e promuovere la solvibilità dei suoi Stati membri. Sarebbe d’aiuto anche una maggiore spesa per investimenti da parte dei paesi con adeguate capacità fiscali, o della Banca europea per gli investimenti.
Per il lungo periodo, vi è un ampio consenso, al di fuori della Germania, che l’area dell’euro ha bisogno di una unione bancaria che promuova la stabilità finanziaria e che sostituisca le decisioni ad hoc dei momenti di crisi con un processo più regolamentato e politicamente legittimo (vedi “Tectonic Shifts” in questo numero di F&D). Questo processo dovrebbe includere una supervisione comune per l’area dell’euro, un quadro unico di risoluzione per le banche in crisi con un sostegno fiscale che comprenda tutta l’area dell’euro, e un quadro comune di assicurazione dei depositi. Il gruppo Euro-nomics, composto da noti economisti europei, ha proposto un asset “sicuro” dell’area dell’euro che le banche nazionali potrebbero detenere. Ciò contribuirebbe a rompere il circolo vizioso banche-debito sovrano descritto in precedenza e a rendere più facile per i governi nazionali ristrutturare il loro debito quando necessario (riducendo i danni collaterali al sistema bancario del loro paese). L’ esempio degli Stati Uniti suggerisce che un elemento di unione fiscale, oltre a ciò che è necessario per una unione bancaria significativa, sarebbe un importante meccanismo di stabilizzazione. Un sistema di assicurazione contro la disoccupazione in tutta l’area dell’euro sarebbe un piccolo passo in questa direzione.

 

Meno Europa

Questi sono tutti argomenti per il “Più Europa”, piuttosto che per il Meno Europa. Io e molti altri abbiamo portato avanti questi argomenti nel corso degli ultimi cinque anni. Ma col passare del tempo, diventa più difficile farlo con convinzione.
In primo luogo, la gestione delle crisi dal 2010 è stata incredibilmente deludente, il che solleva la questione se sia ragionevole per qualsiasi paese, soprattutto se piccolo, porsi alla mercé dei decisori di Bruxelles, Francoforte o Berlino. Non è solo una questione di ideologia della moneta forte da parte dei giocatori chiave, anche se è abbastanza distruttiva. E’ una questione di incompetenza assoluta. Il “salvataggio” di Cipro così pasticciato è stato per molti osservatori un momento di svolta in questo senso, anche se i rialzi dei tassi di interesse della BCE del 2011 sono stati così vergognosi da meritare una menzione particolare.
Ci sono domande serie da porre, giuridiche, politiche ed etiche, su come la BCE si è comportata in questa crisi – per esempio, la minaccia fatta nel 2010, che se Dublino non avesse rimborsato i creditori privati delle banche private, la BCE avrebbe effettivamente fatto saltare in aria il sistema bancario irlandese (o, in alternativa, costretto l’Irlanda ad uscire dall’euro). Un argomento frequente è che la BCE non può allentare la politica monetaria perché questo diminuirebbe la pressione sui governi a continuare le riforme strutturali che Frankfurt ritiene auspicabili. A parte il fatto che c’è meno evidenza dell’opportunità di queste riforme di quanto non ammettano gli economisti, mantenere volutamente le persone in uno stato di disoccupazione involontaria per portare avanti una particolare agenda politica è sbagliato. E non è legittimo per un banchiere centrale non eletto di Francoforte cercare di influenzare il dibattito politico in paesi come l’Italia o la Spagna, sia perché il banchiere centrale è non eletto, e sia perché è di Francoforte.
In secondo luogo, sta diventando sempre più chiaro che un’unione bancaria significativa, per non parlare di un’unione fiscale o di un solido asset dell’area dell’euro, non è all’orizzonte. Per anni gli economisti hanno sostenuto che l’Europa deve decidersi: o muoversi in una direzione più federale, come sembra richiesto dalla logica di una moneta unica, o tornare indietro. Siamo al 2014: a che punto dobbiamo arrivare per concludere che l’Europa ha preso la sua decisione, e che un’unione più profonda è fuori questione? Più a lungo la crisi va avanti, e maggiore sarà la reazione politica anti-europea, ed è comprensibile: l’attesa non aiuterà i federalisti. Dovremmo dare al nuovo governo tedesco un paio di mesi per poterci sorprendere, ma quando non lo farà, trarre la logica conclusione. Se il procedere in avanti è escluso, il ritiro dall’UEM diventa sia inevitabile che desiderabile.
L’Europa ha vissuto un periodo d’oro, in gran parte come risultato della integrazione europea. Questo ha contribuito a favorire la crescita negli anni ’50 e ’60 e ha dato agli europei la libertà di studiare, lavorare e andare in pensione all’estero, cosa che ora viene data per scontata. La UEM nella sua forma attuale minaccia l’intero progetto. Durante il periodo tra le due guerre, gli elettori si riversarono sui partiti politici che promettevano di domare il mercato e fargli servire gli interessi della gente comune, piuttosto che il contrario. Laddove i partiti democratici, come i socialdemocratici svedesi, hanno attuato queste politiche, hanno riscosso il successo elettorale. Laddove i democratici si sono lasciati stringere da catene dorate e dall’ideologia dell’austerità, come in Germania, gli elettori alla fine li hanno abbandonati.

 

Strade Divergenti

L’Europa ora è identificata dai vincoli che essa impone ai governi, non dalle possibilità che offre loro per migliorare la vita del loro popolo. Questo è politicamente insostenibile. Ci sono due soluzioni: fare un passo in avanti verso un’Europa politica federale, in cui sinistra e destra siano in grado di competere ad armi pari, o tornare a un’Unione europea senza moneta unica e lasciare che i singoli paesi decidano per se stessi. Quest’ultima opzione richiederà controlli sui capitali, default in diversi paesi, misure per affrontare la crisi finanziaria conseguente, e un accordo su come affrontare le conseguenze del debito e dei contratti.

La fine dell’euro sarebbe una grave crisi, non c’è dubbio. Non dovremmo desiderarla. Ma se la crisi è inevitabile, allora è meglio affrontarla, mentre i centristi e gli europeisti sono ancora in carica. In qualunque modo saltiamo, dobbiamo farlo democraticamente, e non c’è senso ad attendere all’infinito. Se l’euro alla fine viene abbandonato, la mia previsione è che tra 50 anni la prima cosa che gli storici si chiederanno è come mai sia stato introdotto.

Kevin O’Rourke Hjortshøj è “Chichele Professor” di Storia Economica presso All Souls College, Oxford .


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