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Dagli USA torna lo “Scudo Spaziale”: la Space Force cerca intercettori cinetici. Fine per i missili balistici?

Gli USA accelerano sulla difesa planetaria: al via il bando per scudi cinetici in orbita. Sfruttare la fisica per abbattere le minacce atomiche diventa la nuova priorità del Pentagono.

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Sembra che l’era delle “Guerre Stellari”, mai veramente tramontata nei sogni del Pentagono, stia per ricevere nuova linfa vitale. Lo Space Systems Command (SSC) della US Space Force ha annunciato un piano che potrebbe cambiare gli equilibri della deterrenza nucleare: il lancio, previsto per il 7 dicembre, di una richiesta all’industria per lo sviluppo di prototipi di intercettori spaziali a energia cinetica (SBI).

L’obiettivo? Colpire i missili balistici nemici durante la loro fase di volo intermedia (midcourse), ovvero mentre navigano nel vuoto cosmico prima di rientrare in atmosfera.

Non laser, ma “proiettili” intelligenti

È interessante notare la scelta tecnologica. Non stiamo parlando di armi a energia diretta (laser o microonde), ma di sistemi “hit-to-kill”. In termini profani: un proiettile fisico che colpisce un altro proiettile a velocità ipersoniche. La violenza dell’impatto cinetico è sufficiente a disintegrare la minaccia senza bisogno di esplosivi.

Il bando di gara sembra seguire un modello moderno e aggressivo, simile a quello basato su premi  già visto a settembre per gli intercettori in fase di spinta (boost-phase). L’SSC prevede “molteplici accordi di transazione” a prezzo fisso, con l’aspettativa di assegnare i contratti già nel febbraio 2026. Tempi strettissimi per il settore difesa, che solitamente ragiona in decenni. In questo caso si premiano idee che possono essere operative presto, e più di una.

Immaginazione grafica dell’intervento degli intercettori cinetici

Perché lo spazio rende i missili balistici “facili” bersagli

La mossa americana non è solo un capriccio tecnologico, ma risponde a precise leggi fisiche che rendono lo spazio il campo di battaglia ideale per la difesa antimissile.

Un missile balistico intercontinentale (ICBM), una volta terminata la spinta dei motori, viaggia per inerzia in una parabola prevedibile nel vuoto. Ecco perché un intercettore posizionato in orbita ha vantaggi enormi rispetto a uno basato a terra:

  • Nessuna atmosfera: L’intercettore non deve combattere l’attrito dell’aria, potendo manovrare con estrema agilità e velocità con un dispendio minimo di carburante.

  • Distanza ridotta: Essendo già in orbita, l’intercettore si trova “sopra” o “accanto” alla minaccia, accorciando drasticamente i tempi di reazione rispetto a un missile che deve decollare da terra e arrampicarsi fino allo spazio. In questo caso l’energia di lancio del proiettile cinetico risulta molto inferiore.

  • Traiettoria pulita: Senza le turbolenze atmosferiche, i sensori possono tracciare il bersaglio con precisione chirurgica. Il missile nemico, in quella fase, è sostanzialmente un oggetto inerte che segue una linea matematica precisa: un bersaglio quasi immobile per un computer di tiro avanzato.

Luci e ombre della difesa spaziale

Tuttavia, come ogni analisi tecnica che si rispetti, bisogna guardare anche alle criticità. Non è tutto oro quello che luccica in orbita.

Ecco una tabella riassuntiva dei pro e contro di questa strategia:

AspettoVantaggiSvantaggi
PosizionamentoCopertura globale persistente.Costi elevati per mantenere una costellazione numerosa.
FisicaAssenza di attrito, velocità di impatto elevatissima.Rischio di generare detriti spaziali (Sindrome di Kessler).
ContromisureColpisce quando il missile è vulnerabile e non manovra.Difficoltà nel distinguere la testata vera dalle “esche” (decoys) fredde e scure.

Il problema principale resta la discriminazione fra veri e falsi obiettivi. Una volta nello spazio, il missile nemico può rilasciare decine di palloni o esche che, nel vuoto, viaggiano alla stessa velocità della testata nucleare. Senza il calore del motore attivo (che invece è presente nella fase di lancio), distinguere il vero bersaglio dai falsi diventa una sfida  complessa per i satelliti. Si tratterà, alla fine, di una sfida fra numero di proiettili e numero di bersagli in saturazione.

Nonostante ciò, l’aggiunta di questo strato difensivo (midcourse) a quello in fase di spinta (boost-phase) offre agli USA una ridondanza strategica notevole. Se il primo colpo fallisce mentre il missile sale, c’è una seconda possibilità mentre naviga nello spazio, prima che la minaccia piombi sulle città americane. Questi sistemi si integrano con il THAAD, oltre che con eventuali sistema di attacco preventivo.

Domande e risposte

Che differenza c’è tra intercettori cinetici e armi a energia diretta?

Gli intercettori cinetici distruggono il bersaglio tramite l’impatto fisico diretto ad altissima velocità (hit-to-kill), comportandosi come “proiettili” spaziali. Le armi a energia diretta, come i laser, utilizzano fasci di luce concentrata per surriscaldare o danneggiare i componenti del missile.2 La Space Force, in questo caso, ha optato per la soluzione solida e cinetica, ritenuta probabilmente più matura per un dispiegamento a breve termine rispetto ai laser di alta potenza in orbita.

Perché è così difficile fermare un missile nello spazio se la traiettoria è prevedibile?

Sebbene la traiettoria sia calcolabile, la sfida è distinguere il missile vero dai “decoys” (esche). Nello spazio non c’è attrito atmosferico: un palloncino di mylar leggerissimo viaggia alla stessa velocità di una testata nucleare pesante. Inoltre, a motori spenti, il missile è freddo, rendendo difficile l’identificazione tramite sensori termici. L’intercettore deve avere sensori sofisticatissimi per capire cosa colpire in una frazione di secondo.

Cosa significa che il programma usa un modello “basato sui premi”?

Invece dei tradizionali e lenti contratti di appalto governativi (Cost-Plus), la Space Force sta utilizzando un approccio più commerciale e rapido.3 Fissa un obiettivo tecnico e mette in palio contratti a prezzo fisso o premi per chi dimostra di poterlo raggiungere. Questo stimola la competizione tra aziende, riduce i costi per i contribuenti e, soprattutto, accorcia drasticamente i tempi di sviluppo, permettendo di avere tecnologie operative in anni invece che decenni.

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