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Corso in relazioni internazionali. Quinta Lezione. Libero scambio o protezionismo ?

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Libero Scambio o Protezionismo?

Il vivace dibattito sulla scelta della politica commerciale ottimale fra libero scambio e protezionismo aveva diviso già ai tempi gli economisti classici, a favore del protezionismo erano state avanzate argomentazioni non propriamente economiche, basate cioè sull’esigenza di autosufficienza, sul prestigio o sulla difesa nazionale, come nel caso di un Paese che avesse voluto proteggere dalle importazioni alcuni settori produttivi strategici per il fabbisogno nazionale.

Per quanto riguarda gli aspetti prettamente economici, l’enfasi era posta inequivocabilmente sul libero scambio, sostenendo che tale regime sarebbe stato sempre e comunque sicuramente il migliore per tutti i paesi partecipanti.

A cavallo tra ‘800 e ‘900 in pieno periodo di sviluppo industriale, la scelta vedeva il prevalere di posizioni protezionistiche soprattutto per quei Paesi che dovevano proteggere le loro industrie nascenti e ancora troppo giovani per potersi raffrontare con un mercato che vedeva il predominio commerciale dell’Inghilterra. Quest’ultima aveva optato per il liberismo solo però dopo essersi assicurata la supremazia industriale, per cui una volta realizzato il suo processo di industrializzazione, era in grado di affrontare con successo la concorrenza degli altri Paesi e pertanto poteva ben permettersi di essere a favore del libero mercato e di trarre grossi vantaggi dal commercio internazionale.

“L’Inghilterra non è forte perché è liberista; ma viceversa è liberista perché è forte”.

La netta superiorità del libero scambio è riconducibile alla teoria tradizionale del commercio internazionale. Secondo questa teoria, nell’assenza di ostacoli agli scambi e di distorsioni interne nei prezzi dei beni e dei fattori, ogni Paese si specializza nelle produzioni dove presenta una maggiore efficienza relativa.

Si avrà quindi in tutti i Paesi scambisti uno spostamento delle risorse verso gli impieghi più efficienti e di conseguenza ci sarà, a parità di risorse utilizzate, una maggiore disponibilità di beni per tutti.

In una simile visione assolutamente liberista, saldamente ancorata all’ipotesi di concorrenza perfetta su tutti i mercati, qualunque tipo di ostacolo agli scambi era visto come un qualcosa in grado di distorcere, di allontanare dalla situazione teorica ottimale del libero scambio.

(L’ipotesi di concorrenza perfetta consentiva di escludere la possibilità di effetti negativi sui livelli occupazionali, per cui la liberalizzazione degli scambi può permettere a ogni Paese di realizzare una migliore allocazione delle proprie risorse, spostandole verso gli impieghi più efficienti).

Con il passare del tempo sono state individuate ulteriori argomentazioni a sostegno della liberalizzazione degli scambi, basate sugli effetti dinamici del commercio internazionale, ossia sulla possibilità di sfruttare i vantaggi delle economie di scala in un mercato più ampio e della forte spinta a una maggiore efficienza aziendale e del conseguente duplice effetto di stimolo al progresso tecnico, il che contribuisce a spiegare l’intento processo di liberalizzazione degli scambi che ha coinvolto sempre più i Paesi industrializzati e poi via via quelli emergenti nell’inarrestabile processo di globalizzazione dei mercati.

Con l’affermarsi della Nuova Economia Internazionale era cresciuta l’attenzione per i mercati diversi dalla concorrenza perfetta, tenuto conto delle molteplici imperfezioni esistenti, gli economisti di questa scuola hanno seriamente rimesso in discussione l’idea che il libero commercio costituisse sempre e comunque la politica ottimale. Essi non intendono più riferirsi al vecchio concetto di un protezionismo attuato allo scopo di difendere dalle importazioni la produzione interna, ma piuttosto a un protezionismo visto più che altro come una vera e propria strategia commerciale, in quanto mirata a rendere le industrie domestiche più competitive sul mercato internazionale, così da far crescere le loro esportazioni e quindi il livello del reddito, l’occupazione e il benessere del Paese considerato. Si parla quindi più propriamente di un “protezionismo strategico” o di politiche commerciali strategiche.

Nel corso degli ultimi decenni, si è verificato un certo ritorno alle tesi protezionistiche, o quanto meno un atteggiamento più favorevole rispetto al passato, ciò a causa del progressivo abbandono di alcune di alcune fondamentali ipotesi alla base della teoria tradizionale (quali i rendimenti di scala, la concorrenza perfetta, l’assenza di esternalità) che nel loro insieme giustificavano l’ottimalità di una politica commerciale basata sul libero scambio.

Il processo di globalizzazione dei mercati e la minaccia costituita dalla concorrenza di paesi emergenti ha reso inevitabilmente i Paesi industrializzati sempre più sensibili all’esigenza di nuove forme o strategie di un protezionismo mirato a favorire le imprese nazionali nelle loro strategie competitive con le imprese estere, non tanto ricorrendo ai dazi tariffari che in un certo qual modo porterebbe a ritorsioni tra paesi o a gravare sui consumatori di un costo aggiuntivo (creando anche delle distorsioni di prezzo tra i prezzi relativi interni e i prezzi relativi internazionali), quanto a sovvenzioni statali mirate in modo specifico ad alleviare le peculiari difficoltà che le imprese appartenenti a un settore industriale di solito incontrano. Oppure un “dazio anti-dumping” se troppo esposte alla concorrenza sleale (dumping di prezzo) di imprese estere che decidono di praticare per le vendite sul mercato estero prezzi più bassi rispetto al loro mercato interno.

Al di là della tradizionale funzione protettiva, il ricorso a queste nuove forme protettive appare pertanto più che altro come una politica commerciale strategica mirata (attraverso la protezione dalle importazioni) a consentire alle imprese interne di diventare più competitive sui mercati esteri.

Lo scenario economico mondiale.

L’economia mondiale continua a essere caratterizzata da elevata incertezza. Produzione e scambi internazionali, nonostante alcuni segnali incoraggianti negli Stati Uniti e in Giappone, risentono fortemente della generale mancanza di fiducia e dei segnali di rallentamento che iniziano a manifestarsi anche in alcuni Paesi emergenti, oltre che dei timori sui conti pubblici, sulla solidità dei sistemi bancari dei paesi europei e sulla tenuta stessa della moneta unica. I ritmi di crescita sono inferiori rispetto al periodo precedente la crisi e molto eterogenei fra aree e Paesi. Il quadro che emerge è di persistente instabilità.

Il tasso di incremento del prodotto lordo mondiale, pari al 3,1 per cento nel 2012 (a parità di potere d’acquisto), è la media dei tassi più elevati nei paesi emergenti e decisamente più modesti nelle principali economie avanzate, con un ulteriore aumento del divario esistente fra le aree. Il contributo dei paesi emergenti all’espansione del Pil mondiale ha ormai superato quello delle aree economicamente avanzate.

La crescita media nei paesi sviluppati (1,2 per cento) è il risultato del relativo dinamismo di Stati Uniti e Giappone – con tassi rispettivamente del 2,2 e dell’1,9 per cento nel 2012, grazie a politiche economiche espansive che sembrano aver attivato investimenti e migliorato le aspettative di famiglie e imprese – e di un brusco rallentamento dell’area dell’euro (-0,6 per cento), con Italia e Spagna che hanno registrato una forte diminuzione del prodotto, Francia con una crescita nulla e Germania in cui la produzione è aumentata solo dello 0,9 per cento.

Nei paesi emergenti, il Pil, frenato dalla debolezza della domanda estera, dal rallentamento degli investimenti e dai bassi livelli dei prezzi delle materie prime, è aumentato a un tasso medio del 4,9 per cento, inferiore alle attese e ai ritmi degli ultimi anni. Se, da un lato, si conferma il ruolo trainante di questi paesi nel lungo periodo di crisi per l’economia mondiale iniziato nel 2008, dall’altro, l’eterogeneità dei loro tassi di crescita, che variano dallo 0,9 per cento del Brasile al 7,8 per cento della Cina, non è un segnale positivo.

Le politiche monetarie espansive adottate negli ultimi anni dai principali paesi sviluppati per fronteggiare la crisi hanno esercitato effetti importanti sui tassi di cambio, senza però configurare un conflitto di svalutazioni competitive, come negli anni trenta. Le valute dei paesi emergenti, pur sottoposte a pressioni di varia origine verso l’apprezzamento, hanno reagito in modo differenziato.

Particolarmente complessa appare la posizione della Cina, che ha realizzato il suo processo di rapido sviluppo accumulando riserve di dollari molto ingenti, la cui gestione influisce in misura notevole sugli equilibri finanziari internazionali. L’evoluzione del modello cinese verso una crescita maggiormente trainata dalla domanda interna si intreccia con un dibattito acceso sull’uso di queste riserve valutarie.

Nel 2012 gli scambi di beni e servizi hanno subito un forte rallentamento, crescendo di appena il 2,5 per cento, un tasso ampiamente inferiore alle tendenze di lungo periodo prima della crisi (6 per cento in media fra il 1990 e il 2008). Va sottolineato che gli scambi internazionali sono cresciuti meno della produzione nel 2012, con un’inversione di tendenza rispetto al decennio precedente, quando l’elasticità del commercio al Pil mondiale era nettamente superiore all’unità. Potrebbe avervi contribuito un effetto di composizione negativo, legato al fatto che la recessione del 2012 ha colpito in modo particolarmente intenso gli scambi intra-regionali dell’Unione europea che rappresentano una quota rilevante del commercio mondiale.

La debole dinamica degli scambi all’interno delle economie avanzate è stata solo parzialmente compensata dalla crescita in Asia, Africa e Medio Oriente che ha, tuttavia rallentato nel primo trimestre del 2013, a causa del calo dei prezzi delle materie prime da cui molte di queste economie dipendono e delle tensioni politiche, soprattutto in Medio Oriente.

Espressi in dollari, i corsi internazionali delle materie prime hanno registrato nel 2012 una flessione, continuata anche nei primi mesi del 2013. I prezzi dei manufatti hanno invece subito un lieve incremento. La dinamica delle ragioni di scambio è quindi risultata positiva per le economie avanzate e generalmente negativa per i paesi emergenti ed in via di sviluppo.

La sfasatura ciclica tra le aree e l’andamento dei prezzi delle materie prime e dei tassi di cambio hanno impresso impulsi contrastanti sugli squilibri correnti delle bilance dei pagamenti nel 2012. In particolare, espressi in percentuale del Pil, si sono ridotti i saldi attivi del Giappone (dal 2 all’1 per cento) e della Cina (dal 2,8 al 2,6) e il disavanzo degli Stati Uniti (dal 3,1 al 3), ma è aumentato nettamente il surplus dell’area dell’euro (dallo 0,6 all’1,8).

Il quadro dell’economia mondiale per l’anno in corso permane molto incerto. Le ultime stime disponibili indicano incrementi uguali del Pil e degli scambi mondiali (3,1 per cento). Soltanto nel 2014 secondo le stime si tornerebbe a tassi di crescita più sostenuti con gli scambi che dovrebbero espandersi più della produzione.


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