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Come Liberarsi tecnicamente e giuridicamente dall’Euro

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Splendida Intervista di Alessandro Bianchi sull’Antidiplomatico a L. Barra Caracciolo, autore di Euro e (o) democrazia costituzionale. In Rosso sono evidenziati i punti dell’intervista dove si analizza giuridicamente ed operativamente l’uscita dall’euro.

Luciano Barra Caracciolo. Presidente di sezione del Consiglio di Stato, Rappresentante italiano presso la rete UE degli organi di autogoverno del potere giudiziario. Curatore del blog Orizzonte 48 ed Autore di Euro e (o?) democrazia costituzionale. La convivenza impossibile tra costituzione e trattati europei
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– Gli Stati sono oggi circa 200 e le Organizzazioni internazionali più del doppio. L’azione di quest’ultime è perlopiù esente da alcuna forma di controllo e responsabilità attraverso i consueti meccanismi democratici nazionali. Nel suo libro, inoltre, spiega molto bene la differenza che non viene colta dall’opinione pubblica tra quelle organizzazioni nate per lo sviluppo della pace e della cooperazione internazionale con quelle che, al contrario, hanno fini prettamente economici e che stanno portando ad una riformulazione del vecchio sistema di Westfalia.  Come evolverà il rapporto tra Stati ed organizzazioni internazionali e quali sono i meccanismi di difesa rimasti ad i primi?

 
In un mondo che sostanzialmente vede la diffusione del modello capitalista (liberoscambista) a livello praticamente planetario, i rapporti di forza della comunità internazionale, che una volta erano legati alle cannoniere, sono oggi sul piano esclusivamente economico e legati sempre più alla capacità di penetrazione dei grandi gruppi finanziari internazionali. Non si tratta più di indagare la prevalenza degli stati in sé, ma il modo in cui gli stati collimino, nelle loro scelte, con la classe dirigente mondiale, la famosa oligarchia mondiale e non più con l’interesse nazionale in senso democratico. E su questo il professore coreano di Cambridge Chang nel suo libro “Bad samarhitans” credo offra il punto di vista più lucido.
Molte organizzazioni internazionali sono di fatto oggi dominate dai gruppi economici che utilizzano gli stati per la loro legittimazione formale. In sede UE, WTO, Banca mondiale, FMI, gli stati non vanno a rappresentare gli interessi delle componenti sociali che danno luogo all’investitura elettorale, ma sono presenti in quelle sedi con elites definite tecniche, che in realtà sono emanazione diretta di quei gruppi economico-finanziari che sempre più controllano le istituzioni. Lo stato che entra nell’alveo di tale tipo di organizzazione internazionale riflette quindi una scelta quasi irreversibile compiuta da chi ha acquisito una rappresentatività di diritto internazionale fuori dal controllo democratico. Lo stesso Stato nazionale fa sfumare la sua soggettività nell’ambigua, e spesso nascosta,  investitura della multinazionale, del grande gruppo finanziario. 
E’ un meccanismo davvero infernale questo delle organizzazioni internazionali. Pensiamo ad esempio all’Unctad, dove vi è un economista italiano straordinario come Panizza che fa analisi meravigliose. Il problema è che un’organizzazione cooperativa per la pace è fuori da quel meccanismo di imposizione di soft law moralistico, al cui interno rientra invece l’Ocse, che riesce a plasmare, al contrario, l’azione degli stati.  
In altre parole, l’internazionalismo buono, quello nato alla fine della seconda guerra mondiale per tutelare la pace e la cooperazione internazionale, è relegato ad un fenomeno culturale recessivo rispetto al resto che stradomina. Si tratta di una situazione resa ancora più grave dal fatto che non esiste oggi alcun tipo di reazione culturale democratica da parte degli Stati ed i media non consentono all’opinione pubblica di fare questa distinzione.
L’unica possibilità è ripartire a ritroso per riscoprire lo spirito e lo zoccolo duro delle Costituzioni. Non bisogna dimenticare, del resto, che l’art. 11 della nostra Costituzione sancisce che la pace e la cooperazione tra i popoli dovrebbero essere il vincolo da rispettare per la partecipazione dell’Italia alle varie organizzazioni internazionali. Agli stati oggi resta una sola speranza: che sia ancora abbastanza vitale la cultura di difendere le costituzioni democratiche.
 
– Nel suo libro cita uno studio di Bardo e Jones sui tre trilemmi – vale a dire, date tre ipotesi di partenza, l’impossibilità di vederle realizzate tutte conemporaneamente – prodotti dalla partecipazione all’euro. Il più inquietante è tra regime di cambi fissi, libera circolazione dei capitali finanziari e democrazia. E’ davvero così? 
 
E’ certamente così. Gli effetti sono gli stessi dell’applicazione del Washington Consensus da parte del FMI, ma con una variante: la struttura del Fondo Monetario Internazionale vedeva i principali paesi dell’Europa come una parte importante della sua governance, dato che il loro peso economico influiva in maniera significativa sul sistema di votazione dell’organizzazione. Allora come si poteva imporre ai paesi progrediti uno standard così drasticamente riduttivo di benessere e democrazia? Si doveva trovare un’etichetta forte che consentisse di ristabilire ancora più che un Gold standard di fatto, la vera e propria denazionalizzazione della moneta: la moneta adespota che non fa capo a nessuna sovranità nazionale e che quindi tutela i “mercati”. Se si ricerca la genesi della moneta unica, nonostante tante contestazioni, si risale al Rapporto Werner del 1971, che prefigurava la creazione della moneta come preludio alla successiva e meramente “auspicabile”,  creazione eventuale di un governo federale dei trasferimenti sotto la necessità imposta dai mercati, non dalla esigenza logico-economica di assicurare equilibrio commerciale e sociale nell’area. 
Questa grande trovata non ha nulla a che fare con l’internazionalismo della pace e della cooperazione: la programmazione nel 1971 esclude di fatto che la sua creazione possa risalire ad i fatti post 1989 e 1991, vale a dire la dissoluzione dell’Unione Sovietica e l’unificazione della Germania.
 
– Quali sono state le principali fasi che hanno permesso il consolidarsi di questa strategia?
 
Fin dai primi anni ’70, sotto la suggestione del pensiero di von Hayek, si consolida il programma del cosiddetto ordo-liberismo, un fenomeno su cui tedeschi e americani hanno ben focalizzato con studi molto interessanti, mentre in Italia non si sa nulla. In Europa, attraverso un’etichetta sovranazionale legittimata strategicamente con l’internazionalismo della pace, il liberismo ordinamentale  programma di impadronirsi delle istituzioni democratiche consolidatesi attraverso le Costituzioni sociali. 
Attraverso questa etichetta che brandisce l’internazionalismo della pace e punisce con un moralismo colpevalizzatore, l’ordo-liberismo è riuscito a creare le premesse per l’instaurazione di un capitalismo ante ’29 ed invertire progressivamente la direzione delle azioni delle istituzioni democratiche: dal programma costituzionale della redistribuzione, dei patti sociali e del welfare si è arrivati a quel capitalismo del lavoro come merce di cui parla Popper. Sta tutta qui la sottigliezza della strategia insita nella costruzione dell’Unione europea, che culmina nella moneta unica. 

– Si tratta di quello che Lei nel suo libro definisce internazionalismo dell’indistinto?

 
L’internazionalismo dell’indistinto è esattamente parte di questa strategia: ne è il livello mediatico. E’ una metonimia, vale a dire si ascrive il significato di una parte al tutto.  Siamo abituati ad associare l’internazionalismo tout court a quello cooperativo – in relazione in particolare le ragioni della pace e della cooperazione avevano portato alla costruzione dell’Onu e delle altre organizzazioni internazionali sue gemelle. E quest’associazione “ideale” viene utilizzata per estendere questa determinata caratteristica ad ogni organizzazione internazionale. L’internazionalismo dell’indistinto consente poi di attrarre in questa etichetta anche le forze (ex o post)-marxiste, molto legate all’internazionalismo del proletariato, senza che le loro basi politiche vedano la rottura della continuità e la frattura dalle origini mitizzate.
 
– Cosa ha spinto i partiti della sinistra a lasciarsi omologare nell’internazionalismo liberista dagli anni’80?
 
Più che omologazione direi che la sinistra ha aderito in modo intenzionale a questo processo. L’idea era quella di stabilizzare la sua presenza di governo una volta caduta l’Urss e finita la paura dei carri armati sovietici. Per quest’obiettivo ha scelto di legarsi a correnti culturali precise, che avevano nell’internazionalismo liberista un punto di riferimento fondamentale. Questa è la contraddizione che sarebbe insanabile se non fosse stata accuratamente nascosta. Ancora oggi, del resto, attraverso le fonti mediatiche apparentemente di sinistra, viviamo l’equivoco di una scissione meramente di facciata fra neo-liberismo libero-scambista mondiale e politiche europee. Da un punto di vista sostanziale ciò risulta  decisivamente ingannevole. 
 
– Il paradosso più grande nella crisi di oggi è che quella stessa visione che ha prodotto il dramma sociale in cui vive oggi il continente continui a farsi promotrice ed imporre le soluzioni per uscirne. Come è stato possibile permetterglielo?
 
Quando si è verificata quella saldatura tra il potere finanziario che si prefigge come obiettivo il ritorno all’economia ante crisi del 1929 ed i partiti che hanno la maggior presa sui settori sociali che si potevano opporre, chiaramente si sono create le premesse per un agglomerato di forza praticamente inarrestabile. I corollari sono evidenti: da un lato, il dominio sull’accademia e sui modelli culturali impressi alla società attraverso università e ricerca, che avallano questo disegno per una sorta di sinergia volta all’autoconservazione; dall’altro, il dominio sul sistema mediatico posto sotto il diretto controllo del potere finanziario per le stesse finalità. Ed è una strategia accurata che von Hayek aveva previsto esattamente in questi termini quando aveva chiarito come il controllo dell’economia sulla società è un controllo globale e riguarda il controllo di tutti i mezzi ai fini prefissati. Ogni mezzo diviene idoneo per determinare i fini apparenti, “ciò che gli uomini che devono credere e affannarsi”, presupponendo un controllo culturale totale.
 
 
– Ed i risultati sono ormai noti: deflazione salariale, perdita dei diritti sociali acquisiti, un circolo vizioso recessivo e deflattivo senza fine…
 
C’è qualcosa di più che voglio far emergere nel mio libro. Questi risultati sono emblematici, e servono soprattutto agli economisti per attualizzare a posteriori gli effetti delle teorie macroeconomiche applicate nell’area euro ed identificarle. Ma se andiamo a vedere sul piano giuridico, questo era evidente fin dall’inizio, dato che la volontà normativa al vertice delle fonti UE indicava una scelta politica irreversibile e chiaramente enunciata. Le conseguenze prodottesi negli anni successivi erano tutte già contenute nei trattati, si trattava solo di un potenziale che doveva essere espresso con quella gradualità strategica caratteristica dell’ordo-liberismo. 
Dal suo punto di vista, l’ordo-liberismo è un capolavoro perchè è riuscito ad invertire il senso del conflitto sociale e ci è riuscito avendo dalla sua la cooperazione di coloro che ne sono maggiormente danneggiati.
 
– Si è trattato di un processo che possiamo ascrivere alla piena legalità formale?
 
La risposta è si per quello che è il modo comune di intendere le norme dei trattati nelle loro interazioni ed interferenze con le norme costituzionali. Ma questa legalità formale è salvata solo dal fatto che senza colpo ferire si è lasciata la loro interpretazione a banchieri e ad esponenti della finanza. I nostri costituzionalisti non sembrano ancora in grado di leggere i trattati con il dovuto bagaglio di conoscenza del liberismo e dell’implicita teoria dello stato minimo hayekiano, strutturato in modo da consentire alle forze del mercato di raggiungere la massima efficienza della struttura del capitale attraverso deflazione e disciplina irreversibile del mercato del lavoro. Al contrario, se si fosse stati attenti a identificare un conflitto di norme, l’interprete avrebbe dovuto utilizzare tutti i mezzi interpretativi, compresa la sociologia, vale a dire i rapporti di forza della società, ed il contesto storico-sistematico e non ultima l’attendibilità economica delle teorie correttamente identificate. 
Se si compisse una corretta interpretazione, ci si accorgerebbe come i trattati sono una fonte neo-liberista in violazione palese dello spirito e dei principi intangibili della nostra Costituzione. Il problema è che non c’è oggi una capacità di rilettura della Costituzione economica, intesa come strettamente dipendente dai principi fondamentali – in primis il lavoro. Una volta era del tutto pacifico che  la nostra Costituzione avesse rigettato ed espulso totalmente il neo-liberismo. Oggi, di fronte al disastro dilagante, si denunciano generiche oligarchie come se fossero svincolate da dinamiche normative che implicano l’affermazione prevalente dei trattati e la violazione della Costituzione da parte di forze facilmente identificabili che hanno sempre spinto verso la  costruzione europea. 
 
 – Nel suo libro arriva ad affermare come la convivenza tra i Trattati europei e la Costituzione italiana sia impossibile. Come e chi potrebbe sanare questa frattura?
 
Basterebbe riproporre il significato vero della Costituzione come originariamente concepita. Non a caso io nel mio libro riporto brani tratti dalle sedute della “Costituente”, i relativi dibattiti, cioè la fonte diretta e l’interpretazione autentica di quelle che erano le intenzioni dei Costituenti. Il problema, se ragioniamo sul dover essere, cioè sulla restaurazione di un minimo di legalità costituzionale, è un altro: ma i partiti lo vogliono fare? Si pongono questi problemi? 
Se inizieranno a farlo, il corretto intendimento della Costituzione è di per sé uno strumento potentissimo. Nel libro propongo due cose: in primo luogo dimostro come la Corte costituzionale attraverso la lezione della Costituente potrebbe dichiarare costituzionalmente illegittimo il vincolo dei trattati, cioè la stessa ratifica. In secondo luogo, propongo una road map che non ha nulla di eversivo, ma è una ricalibratura dei pubblici poteri, cioè delle istituzioni democratiche sulle prescrizioni della Costituzione. Sia la liberazione dal vincolo esterno che la ricorrezione dei suoi effetti sulle istituzioni democratiche passa per lo strumento della legalità suprema, la Costituzione, e nulla è più illegale di quello che genera uno stato di sospensione sine die di questa, vale a dire i trattati europei. Basterebbe ripristinare la legalità costituzionale ed automaticamente avremo la via d’uscita progressiva da questo stato di cose. 
 
– Si discute molto sulla questione giuridica del recesso dall’Unione Monetaria. Come potrebbe farlo tecnicamente l’Italia?
 
In una prima fase avevo ipotizzato che si potesse ritornare ad un’idea sobria dei trattati, qualificandoli come fonti pattizie e quindi applicando la Convenzione di Vienna. Questa, nei suoi principi generali, è considerata una raccolta ricognitiva di diritto consuetudinario ed in alcune sue parti espressione di ius cogens – vale a dire superiore per rango a qualunque altra norma pattizia o generale – e tra quest’ultimi principi internazionali inderogabili (da un qualsiasi trattato) rientra sicuramente il principio dell’impossibilità del vincolo predatorio negoziale,  vale a dire del vincolo irreversibile e senza limiti di tempo alla partecipazione ad un trattato, a prescindere dal manifestarsi di suoi effetti manifestamente contrari alla convenienza di una parte e favorevoli soltanto all’altra (rebus sic stantibus). Su questo sfondo avevo inizialmente ipotizzato una prima via d’uscita possibile. 
Ma, sempre con una visione attenta allo jus gentium, si può tranquillamente interpretare le stesse clausole dei trattati: in particolare mi concentro sugli articoli 139 e 140 del TFUE, formulando la teoria del contrarius actus. Dato che la procedura di ammissione all’euro configura l’ammissione medesima come atto ampliativo,  la disciplina  contenuta in tali norme richiede la  manifestazione di consenso dello Stato considerato in ogni fase procedurale. Questo consenso, quindi, è un elemento costitutivo indispensabile dell’ammissione e  potrà essere ritirato in qualsiasi momento in applicazione del principio della insopprimibile libertà del consenso nel diritto internazionale. Per comprendere meglio, basta fare l’esempio degli atti ampliativi del diritto pubblico interno come una licenza a vendere alcolici, che non prefigura un obbligo alla vendita e può essere sempre restituita. 
Questo è un principio generale pacifico, risalente al diritto internazionale generale,  nonché ai principi di buona fede e correttezza nell’esecuzione dei trattati, interpretati secondo i principi giuridici generali delle nazioni civili. Non esiste quindi un vincolo irreversibile e non è configurato come tale dalle norme se lette in buona fede, intesa come vincolo normativo di jus cogens. E, di conseguenza, la strategia che suggerisco è quella di un recesso secco, senza alcun tipo di giustificazione. Le norme che implicano un beneficio, nello stesso modo prevedono la possibilità di restituzione del “titolo” di quel beneficio.
 
– Questo recesso influenzerebbe in qualche modo la partecipazione dell’Italia all’Unione Europea?
 
Basandosi sugli art. 139 e 140,  è perfettamente logico e naturale che lo stato che decida di rinunciare al beneficio della partecipazione nell’euro rimanga nella stessa condizione degli altri paesi “con deroga”, come ad esempio il Regno Unito o la Svezia. Permangono cioè all’interno dell’Unione europea per tutte le norme specifiche che non riguardano la partecipazione ed adesione all’unione monetaria. Lo Stato “uscente”  recupererebbe una condizione prevista dai Trattati, già tipizzata dai Trattati e che soprattutto non è transitoria: questo perchè non c’è un obbligo correlato ad un termine legale per l’adesione all’Unione monetaria, né l’Unione europea vede come suo elemento costitutivo della sua soggettività politica la partecipazione generalizzata all’unione monetaria. E questo è dimostrato dalla lettura degli art. 3 par. 3 del Tue in cui si descrive lo schema programmatico socio-economico dell’Ue, insieme al par.4,  da cui emerge con chiarezza che l’Ue è un soggetto già nella sua pienezza nel momento in cui programma di istituire l’unione monetaria. Dalla loro corretta interpretazione si comprende come il programma economico-monetario non sia costitutivo della sua soggettività di diritto internazionale.
 
– Che cosa accadrebbe però a tutti quei trattati intergovernativi come il Mes ed il Fiscal Compact? Resterebbero comunque in vigore?
 
Per tutti quei trattati si tratta di un problema di diritto positivo abbastanza agevole da risolvere: l’operatività di queste fonti europee (alquanto atipiche e controverse) riguarda solo gli Stati in atto partecipanti all’Unione monetaria
Dunque, l’adesione a questi vari trattati resterebbe, ma produrrebbe effetti realmente vincolanti solo in quanto persistesse lo status di aderente all’Unione Monetaria. Se non c’è più questo status, il paese resta parte di questo trattato, ma esso non rileverà in termini di obblighi “perfetti” e di sanzioni attualmente applicabili. Un paese “con deroga” non è obbligato in modo effettivo. Ci sono, del resto, delle clausole specifiche a dimostrarlo: l’art.14 del Fiscal Compact, ad esempio, prescrive come l’insieme delle norme essenziali si applicano ai paesi membri “con deroga”  dal momento in cui iniziano effettivamente a far parte dell’Unione Monetaria. 
Sul piano politico, però, queste alchimie finanziarie costruite per salvare l’euro si dissolverebbero nel momento in cui un paese importante come l’Italia dovesse decidere di uscire dall’euro, innescandone la dissoluzione. 
 
– Ragionando sull’ipotesi di Eurexit dell’Italia. Quali sono le priorità che il paese dovrebbe tenere in considerazione?
 
Secondo me vanno distinte quelle che sono misure emergenziali che servono nell’immediato e quelle misure strutturali di lungo periodo
Le prime sono state ben illustrate da un concorso di studi sulle conseguenze dell’Eurexit citato anche da Alberto Bagnai nel Tramonto dell’euro. Riguardano in particolare la segretezza della decisione dell’uscita – che non deve essere anticipata ai mercati, soprattutto in un contesto di Banca centrale indipendente pura, recepita dal diritto interno in applicazione del trattato,  che ha il divieto assoluto di intervenire a sostegno dello Stato –  poi la chiusura delle banche per un certo periodo di tempo, e altre misure di “primo impatto”. 
Quindi si arriva alla sostanza del problema: la sostenibilità del sistema nel lungo periodo. E qui non si può che ritornare al modello costituzionale, riaffermando come la sua compressione “lo vuole l’Europa” deve cessare con la fine dell’euro. Facciamo solo un esempio: l’uscita ci lascia assoggettati all’art. 126 del TFUE sull’indebitamento eccessivo, ma, per il paese fuoriuscito, avente lo status “con deroga”, non è prevista la fase sanzionatoria. Il Regno Unito convive allegramente con super deficit da quando è fallita la crisi dal fallimento Lehman Brothers dal 2008. 
E poi ci sono le misure strutturali, ma quelle dipendono dal tipo di società che si vuole plasmare. 
Fare deficit per politiche di “Banking Welfare” (come in UK e Irlanda) è un conto. Altra cosa è fare deficit per rilanciare un settore industriale e, come suo complemento logico, bancario pubblico, che consentano di affrontare una politica industriale indispensabile, colmando il gap di know how e di tecnologia perso a seguito dell’output gap, e della deindustralizzazione, derivati dai vincoli fiscali e monetari europei e dal mercantilismo asimmetrico della Germania. 
Tutto questo lo indico nella road map del libro ed osservo che sempre più persone condividano quest’approccio. Il problema è un altro: l’Italia ha le risorse culturali diffuse, cioè dal senso comune del cittadino fino alla classe dirigente attuale, per uscire dalla crisi? La risposta temo sia, al momento, no. E questo a causa di una classe politica che, nella sua ostentata ignoranza, pare compattamente convinta che l’Italia, senza il vincolo esterno, sarebbe cresciuta di meno. E ciò con i media schierati tutt’ora a ribadire  la favola che il paese viveva una situazione di inflazione e disoccupazione drammatica prima di entrare nell’euro. Il tutto contraddetto platealmente dai dati, soprattutto se risaliamo alla fase anteriore al divorzio tra la Bankitalia e Tesoro ed all’ingresso nello Sme, che sono stati la prova generale del sistema. 
 
– E’ fiducioso che dalle elezioni europee del prossimo maggio possa arrivare un cambiamento?
 
Sicuramente ci sarà un cambiamento della composizione del Parlamento con l’entrata di alcune forze di paesi in sofferenza a causa delle politiche europee e che chiederanno un cambiamento rispetto a questo vincolo e queste politiche. Che riescano poi a dare una piega pratica a questa loro presenza ne dubito, perché il Parlamento non fa molto. E’ un co-decidente subordinato a chi ha la forza decisionale ed ogni potere d’iniziativa. Può dire si e no a qualcosa ormai essenzialmente deciso da qualcun’altro. Se queste forze arrivassero alla maggioranza assoluta potrebbero imprimere una certa composizione alla Commissione, questo si. Ma anche qui il problema è lo stesso che ha l’Italia allargato a tutto il continente: esiste una classe dirigente  di europei cosciente di questi problemi, abbastanza numerosa da trasformare queste soluzioni di buon senso in consenso? 
La desertificazione dei diritti, l’inversione del conflitto sociale, hanno portato  ad una corrispondente desertificazione culturale e democratica. Non voglio passare per catastrofista, ma quanto tempo occorre per ridisegnare una corretta percezione delle dinamiche socio-economiche e per un ribilanciamento verso la democrazia, che è poi prosperità di tutti? 
Non è paradossale, ma forse la migliore speranza potrebbe arrivare dall’America, dove non sono solo Krugman e Stiglitz a denunciare queste dinamiche, ma la società inizia ad avere un rigurgito che va oltre la militanza di strada di Occupy Wall Street e pare poter divenire un attore politico elettorale. Il problema è se a questa vivace proposizione del dibattito politico-culturale corrisponderà una riorganizzazione della società frutto di questa rivendicazione. Gli Stati Uniti, ispirandosi ai loro stessi Padri Costituenti, dovrebbero ora tornare ad Alexander Hamilton, colui che dopo l’indipendenza aveva compreso che l’imposizione del libero-scambismo da parte dell’impero inglese avrebbe riportato il giovane Stato nella medesima condizione di sottomissione a quelle stesse oligarchie bancarie, legate all’impero britannico, che avevano combattuto. E per questo si fece promotore per lo sviluppo di un “infant capitalism” che prevedeva un livello di intervento statale che allora veniva variamente definito protezionismo. E che invece, adeguandosi ai tempi dello sviluppo economico attuale, esprime un principio di autoconservazione sociale delle comunità statali democratiche, che promuovono il benessere generale.
Se l’America desse un segnale del genere ci sarebbe un riequilibrio molto più rapido in Europa.

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