Finanza
Il coinvolgimento dei cd. Poteri Forti italiani nel progetto di alienazione all’estero delle aziende nazionali: cenni storici e prospettive future
In termini storici i cd. Poteri Forti, aggregati attorno ai potentati famigliari locali, sembra abbiano vieppiù contribuito alla spogliazione dell’imprenditorialità nazionale, leggasi alienazione all’estero di aziende locali una volta leaders di settore o annichilimento di impresa.
Un breve escursus. Partiamo dalla fine degli anni sessanta con la morte prematura di Adriano Olivetti e il molto sospetto incidente del geniale Mario Tchou che aveva contribuito a dare forma tecnica alla visione profetica di Olivetti, divenendo successore del suo mentore a capo di quello che può a buon titolo essere definita l’azienda che inventò i personal computer come li conosciamo oggi, o ieri: alla morte della massima dirigenza, nelle more della conseguente liquidazione dell’innovativa azienda eporediese venne chiamato un gruppo di imprenditori italiani capeggiati da quel Gianni Agnelli destinato a diventare il riferimento USA in Italia, magari anche grazie al grande allineamento dimostrato. L’epilogo fu che l’Olivetti venne di fatto “spenta”, i brevetti venduti ad aziende americane che da lì a poco avrebbero inaugurato la Silicon Valley made in USA, da Ivrea alle province di Cupertino. Questa non è nemmeno una visione originale, anzi trae spunto diretto da quanto detto a Dogliani quest’anno da Carlo Debenedetti, uno che ne sa molto dell’argomento essendo stato tra i massimi rappresentanti aziendali di quello che fu il colossale gruppo Fiat degli anni settanta ed avendo messo ben in chiaro il suo pensiero sul possibile omicidio di Mario Tchou proprio nella ridente città del dolcetto (non a caso, in lite con la famiglia torinese, alla fine uscì dal gruppo automobilistico e si accasò proprio a Ivrea, dando forma a quello che fu Omnitel poi – anch’essa – venduta a Vodafone: oggi Olivetti di fatto none esiste più e Ivrea è un deserto industriale).
Altro caso: Alfa Romeo. L’azienda – che ai tempi galleggiava senza successi, ma occupando migliaia di persone soprattutto nel meridione – passò come privatizzazione dalla partecipazioni statali alla Fiat negli anni ’80 (quando a capo dell’IRI era Prodi, poi destinato a grandi successi internazionali, con qualche assonanza con i successi prospettici di quel Michel Platini che tanto fece felici i torinesi che contano, ndr), che poi non l’ha mai ceduta. La parabola discendente dell’azienda dei motori boxer apprezzati anche dai giapponesi (di Subaru) ve la potete fare da soli ma non senza ricordare che oggi l’Alfa è la sola parte (esclusa Ferrari) del residuale gruppo automobilistico torinese che sembra ancora interessare all’estero – proprio ai tedeschi di VW, ndr –, un icona che sembra ancora valere qualcosa al contrario – sembra – di Fiat. Purtroppo la produzione non esiste quasi più… Parimenti vale la pena di meditare sul fatto che tutte le aziende automobilistiche che negli anni Fiat si è comprata sono state a termine annichilite fino a di fatto quasi sparire, Autobianchi, Lancia e molti altre… . E’ per altro interessante ricordare come, parallelamente a tale privatizzazione, invenzioni di successo totalmente italiane (Centro Ricerche Fiat, fucina di bravi ingegneri in molti casi emigrati) furono dilapidate dal management torinese, facendo ricchi gli stranieri: l’iniezione elettronica diretta ed il Common Rail (cedute a Bosch, ’94), lo “sviluppo interruptus” della trazione quattro ruote motrici per le macchine di serie dilapidando in modo ad oggi ancora inspiegabile il vantaggio strategico accumulato grazie ai pionieristici successi della Delta Integrale (lasciando spazio libero all’Audi, oggi strapiena di managers italiani, la Lancia abbandonò dall’oggi al domani l’arena del 4×4, oggi si vendono solo più macchine integrali ad un certo livello, boh). Che dire… E non dico nulla dei recenti sviluppi del gruppo automobilistico emigrato fiscalmente in Olanda/Gran Bretagna e di cosa è rimasto in Italia (ed in che condizioni…).
Arriviamo alle privatizzazioni degli anni ’90 con la vendita di Telecom Italia, ex Stet, azienda ricchissima di assets e agli albori di una liberalizzazione epocale oltre che di una rivoluzione tecnologica. Inizialmente Telecom fu strategicamente partecipata da Fiat che fece di fatto da “pontiere” per poi passare la mano dietro lauto compenso: Fiat con il solo 0.6% di Telecom si trovò nel ponte di comando del colosso telefonico italico, per poi uscirne con una plusvalenza miliardaria (cito il Sile 24 Ore del 17 Ottobre 2009, “Telecom Italia e il disastro privatizzazione”, articolo a nome di quel Fabio Tamburini che scrisse l’illuminante “Misteri d’Italia” sulle trame finanziarie degli anni ’70 raccontate dal raider ante litteram Aldo Ravelli, poi trombato a favore di un fedelissimo come l’attuale direttore della testata di Confindustria). Riprendiamo tale illuminante articolo: “…il progetto, studiato da Tim nel 1997, due mesi prima della privatizzazione, con il supporto della banca svizzera Ubs prevedeva un’offerta pubblica d’acquisto parziale sul 14,9% di Vodafone, che all’epoca sarebbe costata meno di 3 miliardi di euro (oggi capitalizza 77 miliardi). L’operazione, ricorda Gamberale, venne «impedita, sconsigliata dall’azionista perché era primaria l’esigenza di privatizzare il gruppo».
In pochi anni, dopo la privatizzazione, la necessità di ridurre l’indebitamento ha prodotto lo smantellamento delle attività estere. Ora il rinnovo del patto con Telefonica segnerà il destino di Telecom Italia facendola parlare sempre più spagnolo. Per questo c’è chi preferisce la scissione di Telco: i soci italiani (Benetton, Generali, Intesa Sanpaolo, Mediobanca) in Telco 1, l’alleanza con Telefonica in una nascente Telco 2. Così Telecom avrebbe qualche possibilità in più di restare italiana e, in futuro, di mantenere in Italia tecnologie avanzate, occupazione, investimenti.”. Non aggiungo altro, ricordando come a seguito della privatizzazione di Telecom il suo imponente portafoglio immobiliare venne alienato anche tramite la Pirelli Real Estate (Tronchetti Provera, Puri Negri), per lasciarsi dietro il cadavere che conosciamo oggi, oberato dai debiti e con dubbio futuro, a cui stanno togliendo la terra sotto i piedi data dalle ricche partecipate estere in sud America (Telecom Argentina quasi venduta e Telecom Brasil in trattativa di cessione). E questo dopo essere stato probabilmente il miglior operatore mobile mondiale ai tempi, innovatore, con enorme clientela e buoni servizi (TIM). Vale la pena di ricordare la ricorrenza del nome di Prodi nel processo di vendita di assets statali di valore, lo stesso in predicato di diventare presidente della repubblica per intenderci. Dove siamo finiti adesso fa piangere.
Altro caso, siamo al 2002: Montedison è oggetto di OPA da parte di EDF. Si intromette Fiat che, nel mezzo del fervore nazionalistico, si propone come cavaliere bianco a difesa dell’italianità, si diceva (questo fu quanto ai tempi venne percepito dai comuni mortali come il sottoscritto). In realtà anche in questo caso Fiat fa da “pontiere”, mette la sua persona al comando (Quadrino) e fa un’operazione molto simile se non gemella a quella di Telecom, pochi soldi messi dentro, trampolino di lancio per le proprie persone diversificando le ramificazioni di managers ex Fiat in altri settori tra cui l’energia (U. Quadrino [legato alla fam. Agnelli], P. Gallo, L. Gubitosi via Wind etc.) ed un sacco di miliardi guadagnati all’epilogo. Alla fine Montedison verrà fatta a pezzetti, venduta partecipata per partecipata all’estero (Ausimont, Antibioticos, Eridania, Selm/Edison, i giacimenti di gas in Egitto, quello restava della chimica, varie partecipazioni residue dell’attivismo di Gardini, Edisontel….). Montedison, ai tempi prima azienda privata italiana, è oggi solo un ricordo, finita, annichilita, defunta come soggetto italiano. Encore, alla fine anche qui Fiat se ne uscì con una plusvalenza finanziaria enorme, con il contraltare dell’imprenditorialità persa (leggasi aziende cedute all’estero) e dell’occupazione bruciata…
E come non citare poi il caso del famoso fondo Charme di Montezemolo? Anche lui ha capito – ci ha impiegato molto tempo in verità – che intermediare il made in Italy all’estero rende, eccome! Ed ecco l’attivismo del fondo dell’ex manager di Ferrari con Poltrone Frau, comprata e poi venduta all’estero. Poi Bellcobi, Octo Telematics… In effetti Montezemolo ha capito che così si fanno più soldi che investire nel creare un’azienda, gestirla ed impiegare gente: troppo difficile, il caso di Italo (alta velocità ferroviaria) è significativo, a quanto pare il breakeven si sta allontanando sempre più. Scommetto che presto o tardi finirà anch’essa all’estero… E questo lo dico con buona pace di coloro che ancora pensano ad una Ferrari con Montezemolo a capo vincente in Formula 1, la speranza è l’ultima a morire…
Ora siamo nel pieno del secondo decennio degli anni 2000. Statisticamente ci siamo, possiamo attendere un altro colpo da parte dei soliti noti: che l’obiettivo di turno siano ancora una volta le aziende in via di privatizzazione? In passato la costante è stata quella di disintegrare l’occupazione oltre a cedere le aziende, ma dobbiamo dire chiaramente che cedendo il controllo all’estero di ex gioielli italiani con annesso annichilimento delle prospettive future per la cittadinanza e l’imprenditorialità italiana i “pontieri italiani” abbiano davvero fatto una barca di soli. Magari potremmo andare un filino oltre dicendo – base esempi riportati – che l’Italia con la privatizzazione (svendita) di tante e varie aziende di valore ha contribuito a mantenere alto lo stile di vita delle enormi – come numero di discendenti – notabili famiglie, soprattutto torinesi. Dunque, perché non aspettarsi un altro affarone? Che sia che il paventato e tempisticamente perfetto interessamento di Volswagen per Fiat e soprattutto Alfa Romeo non nasconda la volontà/necessità lato italiano di fare cassa per poi investire in Eni, Enel od altre aziende delle ex partecipazioni statali “privatizzande” in compagnia dell’immancabile partner tecnico straniero?
Se così fosse aspettiamoci il solito menu, progressiva alienazione all’estero degli assets con spezzatino annesso e occupazione a perdere. Pensandoci bene ci sarebbe una logica: la Fiat vende una parte o tutta la complessa (da gestire) Fiat a VW che allinea altri soggetti ricchi di liquidità facendo ad esempio ponte con qualche gigante energetico locale per prendersi – che so – ENEL, base dati di bilancio una delle migliori utility del mondo, facendo fare da pontiere all’italiano di turno (sempre lo stesso in realtà). Dunque si compra la multinazionale italiana, la si fa a pezzetti, si trasferisce per quanto possibile l’utile, flussi di cassa ed occupazione di pregio all’estero, poi il pontiere esce mettendosi in berta miliardi di intermediazione. Bel business, chapeau!
Peccato che se così fosse, visti a trascorsi, a perderci sarebbe ancora una volta l’Italia e questa volta sarebbe fatale vista la terribile situazione occupazionale presente e futura. Forse qualcuno a Roma dovrebbe leggere questo pezzo per capire una delle vere radici della disoccupazione italiana attuale, che dite? Questo articolo era pronto da un pezzo e mi ha fatto piacere sentire da Renzi negli scorsi giorni che probabilmente è meglio vendere all’estero aziende italiane se sono coinvolti i soliti noti nazionali, o qualcosa del genere (non so a chi si riferisse l’ex sindaco)…
Ah, dimenticavo: sarà un caso ma tutti i poteri forti nazionali citati [e quanto attorno loro ruota] sono anche gli stessi che continuano a dire che all’euro non c’è alternativa. Quando si parlava degli interessi di chi aveva convertito instabili lire in solidi pseudo marchi… Ripeto, sarà un caso…
Con gli esempi qui riportati alla fine quello che posso ricordare [da nordista] agli amici meridionali che correttamente lamentano un sospetto atteggiamento colonizzatore dei Savoia nei confronti del Sud dopo l’unificazione del 1860, – se ce ne fosse bisogno – è che una volta di più siamo davvero tutti sulla stessa barca. Il problema è chi sta al timone.
Mitt Dolcino
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