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Chi fa crollare il petrolio? Risposta non scontata (gli States di Obama). Una vera azione destabilizzatrice degli equilibri mondiali, epitaffio della corrente Presidenza USA. La crisi economica in arrivo

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Quello che dobbiamo notare immediatamente è che il prezzo del petrolio è crollato clamorosamente a partire da luglio del 2014. I media mainstream non hanno esitato a dare la colpa all’Arabia Saudita e/o all’Iran, incapaci – o eccessivamente egoisti, dicono i nostri media – da sacrificare la pace economica mondiale sull’altare dei loro interessi. La realtà è ben diversa e basta un grafico a dimostrarlo, da bloomberg.com:

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Chi ha fatto salire la produzione di greggio – e quindi scendere i prezzi – non sono gli Arabi, che invero l’hanno mantenuta costante. E nemmeno l’Iran, che l’ha ridotta (la Libia l’ha letteralmente annichilita). E non sono nemmeno i russi, anche loro in quasi costanza di estrazione. Sono invece gli USA (assieme ai sodali iraqeni, che poi sono le compagnie legate agli USA post deposizione di Saddam Hussein) che dal 2012 l’hanno aumentata del 60%. Dunque, verità non scontata si direbbe, almeno a livello mediatico.

Ma, verificato che la disinformazione regna sovrana, la radice della vexata quaestio è una ed una sola, cui prodest? Leggasi, perché gli USA hanno gestito la faccenda in questo modo apparentemente scellerato?

La risposta è qualitativamente semplice, non fu scelta scellerata ma anzi una questione di sopravvivenza. In breve, dopo investimenti miliardari nello scorso decennio lo shale oil ha inondato il mercato USA di petrolio e sembrerebbe che a Washington oggi non si necessiti più di importare oil se non in misura marginale (infatti Obama ha proposto una tassa di 10 USD/bbl per il petrolio importato, ndr). Ossia gli USA sono diventati praticamente indipendenti in termini energetici.

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Il problema è che il petrolio da shale è caro, molto più caro di quello ad es. arabo oltre ad essere spesso di peggiore qualità. Dunque, la scelta americana fu quella di permettere gli investimenti in loco per fare crescita locale (benvenuta), fare produrre greggio e poi spiazzare il petrolio straniero con il proprio (in questi termini la distruzione del tessuto produttivo libico e di Gheddafi assume un aspetto diverso, quasi giustificativo). Guarda caso tutte le aziende USA del settore shale sono state spinte, in un sostanziale sforzo all’unisono, a finanziare i vari shale oil project con vendita a termine del petrolio imposta spesso dalle stesse banche finanziatrici. Ossia, tali aziende petrolifere di nuova generazione potrebbero essere immunizzate ancora per qualche tempo. Successivamente il petrolio dovrà salire per garantire la loro sopravvivenza. Molti indicano che i veri problemi, in assenza di una salita dell’oil, dovrebbero concretizzarsi per il settore durante il 2017. Ossia, vien da dire che il 2016 sarà l’ultimo anno di prezzi bassi, gli USA non permetteranno ad un settore strategico come quello petrolifero di implodere.

Voi direte, ma se la domanda non sale come fa a salire il petrolio? Semplice, riducendo l’offerta. E se non la si vuole o non la si può fare scendere? Semplice, basta un missile. Si, solo un missile è sufficiente per far tornare il petrolio ad almeno 100 USD/bbl. Ed in particolare un missile sparato sul comprensorio petrolifero arabo ai confini con gli emirati dove si concentra l’estrazione di oil saudita (per altro in una zona dell’Arabia a maggioranza, udite bene, shiita nella Arabia profondamente sunnita della dinastia Fahd!), ossia dove passa praticamente tutto il greggio saudita.

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La domanda, meglio posta, dovrebbe essere “perchè questo benedetto missile non è ancora stato sparato?”. E, notasi, la risposta andrebbe data togliendo il paravento dell’entrata in scena del petrolio iraniano, la giusta vittima mediatica per nascondere la realtà (la pace con l’Iran per Obama è stata necessaria per giustificare la discesa del greggio ipoteticamente imputabile alle vendita sui mercati dell’oil iraniano, almeno nel primo anno di implementazione dell’accordo, poi se la vedrà il nuovo presidente USA, una pace tattica direi e – probabilmente – non duratura).

E dunque, questo missile? Tempo al tempo. Obama deve far rieleggere un democratico ed un petrolio basso nell’anno pre-elettorale può aiutare. A maggior ragione in presenza di una crisi economica latente negli USA che di fatto ha permesso di far crescere l’occupazione solo grazie alla salita dei lavori di terza scelta o anche di bassa lega, camerieri, addetti alle pulizie ecc., non precisamente lo stereotipo di sogno americano. E dunque un petrolio basso può aiutare anche in questo contesto, per non frenare ulteriormente i consumi di base della gente che guadagna poco o pochissimo (ma che vota, spesso democratico): basta che i prezzi bassi non durino troppo tanto da fare danni permanenti. Eppoi Obama non ha molti amici texani, chi se ne frega della oil economy. Invero, ha molti amici nell’economia delle rinnovabili che infatti “tira”. Oggi Obama per fare rieleggere un Dem alla Presidenza USA ripete ossessivamente che l’economia va bene (falso) e questo crea aspettative (false) di salita dei tassi, cosa che alimenta una salita non dovuta del dollaro, salita esacerbata dagli effetti dello swap yean/rubli concordato tra Mosca e Pechino a seguito della disfida di Obama sull’Ucraina e conseguente destabilizzazione finanziaria a danno di Putin, con yuan scambiat e poi venduti sul forex per acquistare i dollari necessari alla Russia per pagare le bollette verso l’estero, ndr.

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Il nuovo presidente Usa dovrà affrontare il crollo del prezzo del greggio in termini di problema strategico dell’America, un problema creato dagli stessi USA ma ribaltato mediaticamente su altri. Parimenti la crisi economica USA causata da eccessivo debito accumulato in passato costringerà il nuovo presidente ad affrontare anche il nodo della sua sostenibilità. E per rendere il debito domestico sostenibile non c’è che una ricetta: fare crescita. Guarda caso la ricetta della crescita passa necessariamente per un dollaro debole che aiuti le imprese USA ad essere competitive all’estero, debolezza che di fatto implica anche un secondo effetto collaterale: l’inflazione [che sgonfierebbe il debito americano in dollari]. Due effetti convergenti direi. Voi direte, sì, ma così i tassi salgono! E chi se ne frega, se l’economia riparte il debito può venire ripagato, mica bisogna emetterne dell’altro. Ed aggiungo, visti i tassi bassissimi molte aziende americane da tempo stanno rinegoziando il proprio debito a lungo termine a costi irrisori, encore la successiva salita dei tassi se non durerà troppo sarà perfettamente gestibile (stesso trucco usato per il petrolio).

FireShot Screen Capture #162 - 'What A Rising U_S_ Dollar Means For U_S_ Competitiveness' - www_valuewalk_com_2015_10_what-a-rising-u-s-dollar-means-for-u-s-competitiveness

Parimenti dollaro basso significherà minore propensione USA ad acquistare prodotti stranieri prediligendo le produzioni nazionali, ricetta autarchica che funziona benissimo per il fine proposto (fare crescita interna), se fosse vivo l’economista di Hitler, Schacht, ce la spiegherebbe nei dettagli.

Dunque, la soluzione proposta del nuovo presidente USA sarà necessariamente una discesa del dollaro, propedeutica alla ripresa economica. Peccato che ad un dollaro forte – ed a minori consumi USA – corrisponderà un crollo delle economie esportatrici, Germania in testa (ed anche l’Italia se non troverà rapidamente il coraggio di uscire dall’euro)….

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E il petrolio? Non ce l’eravamo dimenticato. Visto che basta un missile e visto che un petrolio in salita causa inflazione utile a chi di debito ne ha tanto (meglio se lo stesso può anche muovere le leve giuste a livello globale, …), il missile verrà certamente lanciato ma solo a tempo debito ossia causando una guerra del petrolio in medio oriente. Ma, notate bene, questa volta gli USA non saranno responsabili della guerra, nè ci parteciperanno onde evitare di far salire il biglietto verde in veste di valuta del gendarme globale. Anzi, gli USA si terranno bellamente fuori dal conflitto, rinunciando in apparenza al proprio ruolo storico post WW2. O meglio, prima lasceranno scannare arabi, turchi, siriani, russi ed iraniani nell’imponderabile caos che seguirà. Una volta raggiunto il fine – ossia dopo aver ridotto l’offerta di oil causando grazie al caos/guerra – rientreranno in gioco, dopo l’inevitabile crollo economico dei vari competitors e fin anche di tutte le economie mondiali affamate di petrolio.

Conclusione: alla fine vince sempre il banco.

Questo finale lo dedico a chi dà gli USA per morti, mai le conseguenze di una siffatta scommessa (persa) avranno impatti più pesanti (è infatti lapalissiano che siffatto scenario romperà l’EU determinando l’ascesa di rinnovati fascismi ed estremismi che cannibalizzeranno il benessere accumulato dai paesi che furono alleati negli scorsi 70 di pax americana – per inciso, l’Italia ne verrà letteralmente travolta -,….).

Mitt Dolcino


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