Economia
Censura per i profili reali, immunità per i fake: il paradosso dei social. Tra controllo selettivo, interessi economici e assenza di responsabilità: perché le piattaforme digitali tollerano l’anonimato tossico. (di Antonio Maria Rinaldi)
Censura per i profili reali, via libera ai fake: perché i social tollerano l’anonimato tossico? Un’analisi tra interessi economici e rischi per la democrazia.

Negli ultimi anni si è consolidata una contraddizione sempre più evidente nel funzionamento delle grandi piattaforme social: da un lato, una richiesta crescente di identificazione dell’utente – talvolta persino attraverso documenti ufficiali – dall’altro una tolleranza strutturale verso profili falsi, anonimi o chiaramente artefatti, spesso protagonisti di comportamenti aggressivi, diffamatori o apertamente illegali con poche manciate di follower. Una contraddizione che non può più essere liquidata come semplice inefficienza tecnica, ma che solleva interrogativi profondi sul modello economico, politico e culturale su cui si reggono i grandi social network.
È noto che milioni di utenti, in particolare giovani o semplici cittadini che desiderano esprimersi legittimamente, si vedano bloccare account o limitare la visibilità dei propri contenuti per violazioni minime, talvolta del tutto incomprensibili. Al contrario, profili palesemente falsi, creati con nomi di fantasia, immagini rubate o identità multiple, restano attivi per anni, spesso alimentando odio, disinformazione, campagne di denigrazione o manipolazione del dibattito pubblico. Questa asimmetria appare tutt’altro che casuale.
La prima spiegazione, la più immediata ma anche la più scomoda, riguarda il modello di business delle piattaforme digitali. I social network non vendono servizi agli utenti: vendono l’attenzione degli utenti agli inserzionisti. Più alto è il numero di profili attivi, maggiore è il valore percepito della piattaforma sul mercato pubblicitario. In quest’ottica, una tolleranza implicita verso account fittizi o automatizzati contribuisce a gonfiare artificialmente le metriche fondamentali: utenti attivi, interazioni, visualizzazioni. Ridurre drasticamente i profili falsi significherebbe, per molte piattaforme, dover ammettere che una parte consistente del traffico è fittizia, con conseguenze economiche e reputazionali rilevanti.
Ma non è solo una questione di numeri. I profili anonimi o pseudonimi svolgono spesso una funzione strategica nel dibattito online: amplificano contenuti polarizzanti, alimentano scontri, orientano le tendenze. Il conflitto genera engagement, e l’engagement genera profitto. In questo senso, l’ecosistema digitale premia il rumore più che la qualità, l’estremismo più della competenza, l’insulto più dell’argomentazione. La moderazione severa, applicata in modo sistematico, rischierebbe di “raffreddare” il traffico e rendere l’ambiente meno redditizio.
Eppure, lo stesso sistema che tollera ampie zone d’ombra è rigidissimo quando si tratta di utenti identificabili, spesso colpevoli solo di aver espresso opinioni scomode, di aver condiviso articoli di stampa o di aver messo in discussione narrazioni dominanti. Qui entra in gioco un altro elemento: la gestione del rischio legale e reputazionale. È più semplice, per una piattaforma, colpire un profilo reale e tracciabile che affrontare la complessità di smantellare reti opache, spesso transnazionali, che richiederebbero investimenti tecnologici e decisioni politiche più coraggiose.
Il risultato è una sorta di “zona grigia” regolatoria, in cui il potere di decidere chi può parlare e chi no è esercitato in modo opaco, discrezionale e non sempre coerente. Non esiste un vero contraddittorio, non esistono procedure trasparenti, né organismi indipendenti di garanzia. Le piattaforme agiscono come giudici, giuria ed esecutori, senza un controllo democratico proporzionato all’enorme influenza che esercitano sul dibattito pubblico.
A questo punto la domanda diventa inevitabile: è ancora corretto parlare di spazi privati, oppure siamo di fronte a infrastrutture di fatto pubbliche, che incidono direttamente sulla libertà di espressione e sulla formazione del consenso? Se la risposta è la seconda, allora l’attuale autoregolamentazione appare del tutto insufficiente. La democrazia non può delegare a soggetti privati, mossi da logiche di profitto, la definizione dei confini del discorso pubblico.
Il paradosso è evidente: si invoca la tutela degli utenti per giustificare controlli invasivi sull’identità, ma si accetta al contempo un ecosistema in cui la manipolazione, l’odio e la disinformazione proliferano indisturbati. La vera questione non è tecnica, ma politica: chi decide cosa è legittimo dire, chi controlla i controllori, e soprattutto a vantaggio di chi.
Finché queste domande resteranno senza risposta, la sensazione diffusa sarà quella di un sistema opaco, asimmetrico e profondamente ingiusto. Un sistema in cui la libertà di espressione non viene negata apertamente, ma erosa selettivamente, mentre il rumore di fondo — utile al business — continua indisturbato. Ed è forse proprio questa ambiguità, più di ogni altra cosa, a rappresentare il vero rischio per la qualità della nostra democrazia digitale.
Domande e risposte
Perché i social network non cancellano tutti i profili falsi? La motivazione principale è economica. I social network basano il loro valore di mercato e le tariffe pubblicitarie sul numero di utenti attivi e sulle interazioni. Cancellare massivamente i profili falsi ridurrebbe drasticamente questi numeri, sgonfiando il valore percepito della piattaforma e riducendo potenzialmente i ricavi pubblicitari, dato che anche il traffico generato dai fake crea “volume” e statistiche di utilizzo.
La censura colpisce solo chi viola la legge? No, ed è questo il punto critico. Spesso vengono sanzionati utenti reali per aver espresso opinioni legittime ma “scomode” o contrarie alla narrazione dominante del momento, mentre profili falsi che diffondono odio o commettono illeciti restano attivi. Le piattaforme applicano termini di servizio vaghi in modo discrezionale, agendo come giudici privati senza le garanzie di un processo democratico o trasparente.
I social network sono spazi privati o pubblici? Giuridicamente sono aziende private, ma di fatto operano come le nuove piazze pubbliche dove si forma il consenso democratico. Questa natura ibrida crea il paradosso attuale: esercitano un potere di controllo sull’informazione paragonabile a quello di uno Stato, ma senza i contrappesi costituzionali e democratici, rispondendo solo ai propri azionisti e non all’interesse collettivo.








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