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C’è chi dice NO

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Il referendum sul taglio dei parlamentari non è decisivo in sé e per sé. Dopotutto, in un sistema realmente democratico e funzionale alla partecipazione diffusa della gente, una riduzione dei rappresentanti del popolo potrebbe anche giustificarsi. Così come un loro aumento. Se non ci fosse il rischio di torsione eversiva e autoritaria in corso, sarebbe come discutere –   letteralmente –  “del più e del meno”. Senza patemi. Stando sereni, come disse quel tale che, per non farsi mancare niente,  voleva addirittura rottamare il senato. E finì, grazie a dio, rottamato. Ma proprio come nel caso di quel tale, sereni non possiamo stare affatto. Non tanto per la riduzione dei parlamentari da novecentoquindici a seicento. Piuttosto, per il contesto storico in cui quella proposta di riduzione si colloca.

E il contesto non lo possiamo capire davvero se non partiamo da una letterina  spedita il quattro di agosto di nove anni fa e da rileggere oggi: scritta dal ticket Trichet-Draghi nell’estate 2011 e  indirizzata al Governo italiano di allora, ma in realtà anche al popolo italiano di oggi. In quella missiva – un insuperabile concentrato di dozzinale neoliberismo – troviamo anche il seguente consiglio: “Impegno ad abolire o fondere alcuni strati amministrativi intermedi, come le province”. Ecco, questo premuroso suggerimento si muove nello stesso solco del referendum prossimo venturo: apparentemente ti dice di tagliare poltrone per risparmiare quattrini. In realtà, in controluce, sottotraccia, ti ordina di tagliare democrazia per risparmiarsi il fastidio della volontà popolare.

In altri termini, l’unica reale motivazione sottesa a questa chiamata alle urne è accelerare quella  liquefazione degli ordini costituzionali troppo “popolari” già auspicata da un paper di JP Morgan del 2013. E, infatti, se la Costituzione prevedesse seicento parlamentari, lorsignori proporrebbero di ridurli a quattrocento. Se ne contemplasse quattrocento ne vorrebbero duecento. Se ne stabilisse duecento, cento diventerebbe la misura giusta. Giacché, come dicevo in apertura, il problema non è affatto il numero. E neanche il risibile risparmio.

Il problema sono gli spazi di agibilità democratica. Ed essi vanno ridotti: che si tratti di rappresentanze provinciali (come nella lettera di Draghi) o di scranni parlamentari (come nel caso del referendum). I famosi poteri forti, e pure quelli occulti, ci stanno chiedendo da decenni –  fin dai progettini di rinascita democratica della P2 – di abdicare ad altre quote di sovranità. Esattamente come i nobili prima, e i borghesi poi, chiedevano in passato ai sovrani di rinunciare alle loro; solo che, all’epoca, il sovrano in pratica era uno, ora in teoria lo siamo tutti.Ma molti di noi, giubilanti, festeggiano per il colpo mortale inferto alla casta che costa.

In tutto ciò va segnalata una bizzarria. E cioè il fatto che le sardine e diversi esponenti della cosiddetta sinistra si schierano contro il sì. Il che dovrebbe, in effetti, preoccupare i sostenitori del no. Ma forse non è il caso di darsi pena. Per due ragioni. In primis perché questa decisione singolare dimostra come gran parte della massa “democratica” non sia in realtà consapevole dell’agenda dei lavori meticolosamente seguita, dai vertici di quella massa, negli ultimi anni: vale a dire, un deliberato progetto di desovranizzazione e destrutturazione (grazie al sicario “europeismo”) dei pilastri e delle travi portanti della nostra democrazia. In confronto al quale, l’odierno referendum ha la portata estetica di uno sbuffo di stucco. Ma c’è una seconda ragione, più semplice: persino gli orologi rotti, almeno due volte al giorno, segnano l’ora giusta.

Francesco Carraro

www.francescocarraro.com


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