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CAPIRE LO STATO ISLAMICO

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Cercare di capire, oltre ad essere un dovere, è cosa utile. A parte il fatto che la scienza non sarebbe neppure nata, se l’uomo non avesse avuto la voglia di capire la realtà, la spiegazione di un piccolo mistero può avere risultati positivi anche al livello più banale. Se il prossimo fa qualcosa che non ci piace, comprendendo perché lo fa, potremmo arrivare a conclusioni impensate: per esempio che malgrado le apparenze quell’uomo stia facendo qualcosa di utile. Oppure, all’opposto, che la sua azione dipenda dal fatto che sia malato di mente.
Immaginiamo che Hitler, col suo formidabile esercito del 1939, avesse avuto soltanto interesse ad un corridoio per congiungere la Prussia con la Prussia Orientale (la regione di Königsberg, la patria di Kant), inglobando la città di Danzica. Se la Polonia fosse stata guidata da governanti di buon senso, la cosa migliore sarebbe stata dire di sì. Sarebbe stata una prevaricazione, una soperchieria, tutto ciò che si vuole, ma un costo infinitamente minore di ciò che quell’infelice Paese ha sofferto durante la Seconda Guerra Mondiale (e anche dopo). Se invece si fosse capito che “il corridoio di Danzica” era un pretesto, come in effetti era, che l’intenzione di Hitler era quella di rendere i polacchi schiavi della Germania, e lo stesso territorio una colonia di Berlino, la cosa migliore sarebbe stata morire combattendo. Oppure accettare ad occhi aperti di divenire schiavi, rimpiangendo caldamente di non essersi dotati di un esercito temibile.
Sono discorsi duri, indubbiamente, ma la storia è estremamente dura. Quando nel 1968 Mosca mandò i carri armati a “ristabilire l’ordine” a Praga (cioè ad assassinare la libertà e l’indipendenza di un piccolo Paese) la decisione di Dubček di non opporre resistenza – dopo quanto era avvenuto dodici anni prima a Budapest – fu saggia. Non si trattava di divenire schiavi dei russi, ma di tornare alla schiavitù di prima. Dopo tutto, meglio quell’invasione che subire morti e distruzioni. L’Unione Sovietica non sarebbe durata per sempre. Anche se durò ancora vent’anni.
Riguardo alle intenzioni dello Stato Islamico è facile identificare due linee di comportamento. La prima è normale: l’intenzione di annettersi quanto più territorio è possibile. Attualmente è stato conquistato il nord della Siria e gran parte del nord dell’Iraq. Ma quella che fa sorgere i massimi interrogativi è la seconda linea di comportamento. Il sedicente califfato sembra felice di rivendicare le atrocità più impensate, le crudeltà più gratuite, gli attentati più odiosi e sanguinosi, fino a creare il sospetto che rivendichi anche quelli in cui non c’entra per niente. Per non farsi mancare nulla, estende le “atrocità” alle opere d’arte, perfino le più preziose reliquie del passato. E non si tratta di valutare questa condotta dal punto di vista morale: dal momento che si sta parlando di politica, si tratta di capire l’utilità di tutto ciò. E il dramma, in questo caso, è che l’utilità non si vede affatto.
È evidente che l’IS intende presentarsi come “terribile” e, in una certa misura, “irresistibile”. Ma ciò non è funzionale alla conquista. Mussolini diceva “molti nemici molto onore”, e si vide quanto sbagliava. I tedeschi, nella Seconda Guerra Mondiale, hanno visto la conferma del loro proverbio, per il quale “troppe lepri sono la morte del cane”. Se è vero che procurarsi delle simpatie non serve a molto, se si è attaccati militarmente, è anche più vero che le antipatie finiscono col costare. Perfino incutere terrore, a forza di atrocità, non è militarmente utile: corrisponde infatti ad incoraggiare il nemico ad opporre la massima resistenza, e dunque far lievitare il costo dell’eventuale vittoria.
Le “atrocità” non sembrano affatto funzionali all’aumento del proprio potere. Il terrorismo non vince le guerre. L’attentato (imparabile) di un isolato può essere tremendo per le conseguenze, ma è militarmente insignificante. Se l’omicidio di alcuni americani inermi può far credere ai più ingenui che si controbilanci così la straordinaria potenza militare degli Stati Uniti, nella realtà non cambia nulla, se non l’immagine del musulmano nel mondo. Tutto ciò anche se il terrorista reputa la propria azione tanto importante e lo scopo perseguito tanto santo, da sacrificargli la propria vita. Incomprensibile.
Se poi, come avviene in questi anni, gli attentati sono perpetrati anche contro musulmani (shiiti contro sunniti, sunniti contro sciiti, persino in moschee), anche uccidendo donne, vecchi, bambini inermi in un mercato rionale, l’unico risultato è quello di indurre i terzi a giudicare i fanatici musulmani dei selvaggi. Dei thugs, direbbero gli inglesi.
Anche se fino ad oggi l’Europa ha dato prova di una letargica inerzia (l’America è stanca e sta oltre l’Oceano) lo Stato Islamico rischia d’incoraggiare la formazione di una schiacciante coalizione nemica. A che pro?
Si getta la spugna. Lo sforzo di capire lo Stato Islamico non ha avuto successo.
Gianni Pardo, [email protected]
19 agosto 2015


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