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BLOOMBERG: COSI’ “ I NEOCON ” VANNO ALL’ATTACCO DI TRUMP? Di Rosalba Fragapane

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Allora ci siamo: al Senato degli Stati Uniti è iniziato il processo per impeachment contro  il Presidente Donald Trump, un processo fortemente voluto dai Democratici Usa per cercare di eliminare il loro acerrimo nemico.  A presiedere il processo è il Capo della Corte Suprema John Roberts e “a giudicare” saranno i 100 senatori che lo scorso giovedì hanno giurato davanti a lui che saranno “onesti, imparziali e fedeli alla Costituzione Americana”. E’ molto probabile che tutto si svolgerà rapidamente, salvo imprevisti, anche perché il presidente Roberts non ha intenzione di ammettere nuovi testimoni e accordare nuovi documenti di prove. Vedremo cosa accadrà, al momento non sembra possibile che un impeachment si realizzi, infatti, stando ai numeri occorrerebbero 2/3 dei senatori: ma in senato 53 sono repubblicani e 45 sono democratici  (+ 2 indipendenti) e perché ciò accada sarebbe necessario che almeno una ventina di senatori repubblicani decidano di votare contro e dare l’ok per l’impeachment, cosa altamente improbabile.  

Il Presidente americano sembra del tutto incurante della faccenda che lo riguarda,  tanto è che nel giorno di avvio del processo lui era a Davos, per World Economics Forum  dove ha tenuto il suo discorso con la Conference Hall letteralmente strapiena. In uno speech di 30 minuti Trump ha galvanizzato il pubblico dando conto dei risultati eccellenti dell’ economia americana, e sottolineando che questo è solo l’inizio e che il meglio deve ancora arrivare per il suo grande paese.

In realtà il processo non sta avendo nei media grandissimi riscontri, al punto che le prime battute procedono lentamente e gli americani non sembrano molto interessati. Almeno per ora. Ma per i repubblicani al Senato le intenzioni sono di chiudere questa partita in fretta, respingere le frenesie democratiche e portare Trump al suo Discorso sullo Stato dell’Unione, evento di rilievo politico dell’anno che si terrà il 4 febbraio, già libero da qualsiasi accusa e con questa faccenda chiusa.

Intanto però la campagna elettorale Usa procede quando mancano poco più di 10 mesi al giorno delle elezioni presidenziali, che come è noto si terranno il 3 novembre 2020. Elezioni importantissime quelle di quest’anno, forse una di quelle più significative degli ultimi quaranta anni, soprattutto per i cambiamenti geopolitici in corso e per quelli possibili nel futuro. E’ evidente che per  i Democratici americani si tratta della loro stessa sopravvivenza nei gangli più avanzati del potere americano e del capitale economico del paese. Un altro mandato di quattro anni all’opposizione e un secondo mandato consecutivo per Trump vorrebbe dire perdere tutto, o quasi tutto. Se Trump venisse eletto per un secondo mandato consecutivo avrebbe modo di consolidare le sue influenze in modo definitivo anche in quelle sfere della pubblica amministrazione e degli apparati istituzionali che per ora gli sono  ancora ostili, o abbastanza tali.

Proprio a questo riguardo non dobbiamo sottovalutare la candidatura di Michael Bloomberg e il perché della sua entrata in scena tardiva, cioè inizio novembre scorso, nella corsa alle primarie del Partito Democratico Usa.

L’annuncio  dell’ entrata in campo di  Bloomberg nella corsa verso la Casa Bianca non aveva rallegrato molto Elisabeth Warren e Barry Sanders, entrambi candidati  e concorrenti alle primarie del Partito Democratico Usa. Erano mesi che i commentatori politici americani giravano intorno a questa possibilità, alla fine si era dato per scontato che il miliardario newyorkese non sarebbe entrato in scena. Invece, forse anche pressato dai suoi, fra cui Jeff Bezos, magnate di Amazon che pare gli abbia telefonato più volte, Bloomberg  just under the wire  è entrato  in corsa al tempo limite appunto a novembre scorso, apparentemente a sorpresa. 

E’ necessario tenere presente che, come in molti partiti del mondo, anche fra i Dem Usa esistono delle “correnti” interne, esattamente come capita per esempio anche al Pd italiano o al Partito socialista tedesco. E all’interno “volano coltelli”. In particolare fra i Dem americani abbiamo:  la corrente di Barnie Sanders senatore collocato molto a sinistra e per questo definito radicale; la corrente di Elisabeth Warren senatrice anch’essa radicale ma decisamente moderata ( vuole riformare il sistema sanitario americano rendendolo universale – un’ idea che però non piace dai sondaggi alla classe media Usa-) e Joe Biden considerato di centro, molto moderato, vicino all’area clintoniana e a Barack Obama di cui Biden fu vice presidente. Tuttavia proprio Biden, che attualmente ha il più alto consenso ai sondaggi più recenti, fra tutti i candidati  alle primarie Dem sembra quello più in bilico: vuoi perché non brilla nei confronti tv, vuoi perché è avanti negli anni, vuoi perché anch’egli appare un po’ sporcato dalla vicenda dell’impeachment contro Donald Trump e per il relativo coinvolgimento del figlio Hunter Biden nella vicenda del Kievgate. Ma per spiegare il motivo per cui Bloomberg è entrato in scena dobbiamo fare riferimento al discorso di Obama stesso che si tenne a metà novembre 2019 a Chicago durante un summit della Obama Foundation  in cui l’ex presidente parlando ai suoi spiegava i cardini del suo pensiero sulle future elezioni presidenziali e cioè : che per vincere Trump bisogna cogliere il consenso dell’americano medio, del lavoratore medio, della donna del ceto medio americano e soprattutto che proporre soluzioni radicaleggianti NON avrebbe portato alla vittoria sul rivale Trump. In pratica secondo la visione di Obama le posizioni troppo radicali non fanno parte dell’animo degli americani medi che poi sono quelli che votano Trump e a cui i Dem Usa devono rivolgersi.  Nell’Obama pensiero non vi è spazio per candidati troppo a sinistra e chissà se il suo pensiero fosse rivolto alla Warren e a Sanders…

Ora è evidente che Biden, l’unico moderato papabile dei Dem, è in parte sfiorato dalla vicenda dell’impeachment su Trump, nei sondaggi piace agli elettori democratici ma la domanda è: piacerà a tutti gli americani davanti ad un Trump che vola nei consensi? E se l’impeachment si risolvesse ad essere un boomerang contro gli stessi democratici? Ecco la necessità di una carta di riserva, ecco dunque la comparsa di Bloomberg.

Tutto sembra perfettamente studiato dai Democratici che vogliono battere l’odiato Donald in quel processo continuo di scadenze, steps e regole  che porta all’elezione di un Presidente negli Stati primarie per i Dem Usa: il 3 febbraio 2020 inizieranno le prime votazioni e si concluderanno il 16 giugno 2020. Poi dopo un mese si terrà la Convention tra il 13 e il 16 luglio 2020 dove vi sarà  l’ incoronazione del prescelto a sfidare i Repubblicani.

Senza entrare troppo nel meccanismo elettorale Usa possiamo focalizzarci su alcuni punti fondamentali. Gli Stati hanno un punteggio variabile per importanza:  ad esempio Iowa, Nevada, New Hampshire hanno pochi punti di valore ( es. 5, 6, 15 punti) mentre la California, il Texas, la Florida pesano parecchio in termini di punteggio ( es. 40, 50, 60 punti). Le prime votazioni  si svolgono cominciando negli Stati che hanno un punteggio basso, che però sono già considerati dei test significativi. Solo il 3 marzo detto Super Martedì quando si voterà in più Stati come la California, Texas, Florida e li si inizierà a vedere con chiarezza chi  resterà fuori dalla corsa. La scelta di Bloomberg è però quella di non presentarsi al voto iniziale ma entrerà in scena il 3 marzo dove gli Stati hanno un peso determinante. In pratica Bloomberg è un avversario di Trump ma in questo momento lo è soprattutto per i concorrenti dello stesso partito. Ce la farà? Cosa accadrà intanto nelle primissime votazioni a Biden? Prenderà più voti di Sanders e della Warren? E cosa accadrà  con l’impeachment per Trump? 

Di sicuro le elezioni Usa 2020 promettono di essere avvincenti e spettacolari.

In questo quadro la corsa di Michael Bloomberg è l’unica che effettivamente se andasse a buon fine potrebbe far vacillare la poltrona di Trump alla Casa Bianca, anche se è difficile che si arrivi a questo duello finale, la cosa non va esclusa del tutto. 

Gli Stati Uniti sono una grandissima democrazia che poggia su un sistema presidenziale dove da sempre sono due i partiti, Repubblicano e Democratico, che si alternano al potere. E’ sempre stato così e questo binomio, che si alterna negli anni, ha rappresentato per molti un sincronismo perfetto di democrazia e certezze. Ma all’ombra dei due schemi  partitici principali esisterebbe una sorta di altro partito, o forse sarebbe meglio dire un movimento d’opinione, di idee, di principi che vede al suo interno sia una componente repubblicana sia una componente democratica in maniera trasversale. Si tratta di quella componente del capitale economico americano che parrebbe avere una influenza significativa soprattutto nell’area clintoniana, fra i miliardari americani neoliberisti di oggi, nonché fra alcuni apparati pubblici e strategici e non ultimo nei media (quotidiani e tv)  più importanti negli Usa, una componente conosciuta come Neocon. Il termine che viene da Neoconservative i quali sono stati fin dalla loro prima apparizione una corrente intellettuale di pensiero dibattuta dagli analisti, ma è indubbio che in certi periodi della storia americana essa abbia avuto il suo peso. 

Questa  corrente politica, economica, culturale che nacque negli anni ‘70 nelle università americane da un gruppo di intellettuali della sinistra liberal che non trovavano più consone all’epoca le posizioni poco interventiste e isolazioniste della politica estera americana, soprattutto perché con la guerra fredda in corso il comunismo era il nemico numero uno da sconfiggere. Così i leftist si spostarono verso destra  orientandosi verso il partito Repubblicano.  Infatti fu durante la presidenza Regan che iniziarono a porre le basi ideologiche continuando  successivamente anche durante la presidenza di George Bush padre, ma entrambi i due presidenti non si dimostrarono molto interessati.  Il primo exploit per la corrente neoconservatrice fu con Bill Clinton appoggiandone gli interventi militari (Serbia e Yugoslavia) ritenendole guerre umanitarie in nome della visione salvifica per il mondo intero come compito primario della nazione americana. Per i Neocon gli Stati Uniti non devono restare silenti e ai margini di fronte alle ingiustizie del mondo, come al contrario enunciava la  vecchia dottrina Monroe: “ Gli Stati dell’Unione non sono interessati ad espandere il loro territorio, non sono interessati alle vicende dell’Europa e non vogliono che i paesi stranieri, Europa in particolare, si intromettano nelle politiche americane”. Tutt’altro.  Per i neoconservatori al contrario gli Usa hanno il dovere/diritto, se necessario, di portare sulle spalle il peso della grandezza del Paese e riportare equilibrio dove non esiste e soprattutto devono eliminare i pericoli che possono minare la sicurezza e la pace della potenza degli Stati Uniti.  Se il nemico, negli anni 70 ,80, 90, era l’Unione Sovietica e il comunismo in generale, oggi è il pericolo islamico quello da sconfiggere, comprendendo tutte le sacche di integralismo (vedi Iran, Siria, Afghanistan) che- sempre secondo questa filosofia – sono pericolosissime per l’umanità soprattutto se Stati Islamici sono in grado di procurarsi e produrre le armi nucleari. Dopo il democratico Clinton, arrivò Bush figlio alla presidenza.  E solo dopo pochi mesi il suo insediamento il mondo assistette attonito all’avvenimento più agghiacciante ovvero l’11 settembre. Questo fu il momento in cui esponenti, analisti e strateghi aderenti alle idee neoconservatrici vennero allo scoperto  ed ebbero un grande ruolo nell’appoggiare George W. Bush. Soprattutto nel condividere la guerra in Irak e quella in Afghanistan: fu proprio allora che la cosiddetta Dottrina Bush ebbe la più esemplare attuazione dei loro principi fondanti in particolare sul concetto di uso della guerra preventiva. “L’asse del Male” e “rouge state”  (stato canaglia) furono termini coniati dallo stesso Bush figlio per definire il pericolo degli Stati islamici che odiano l’Occidente e vogliono la distruzione degli Usa e minacciano la pace mondiale. Nati quindi negli anni di Regan, fu solo nel 1997 che i neoconservatori Usa misero nero su bianco  il loro manifesto, il Project for the New American Century (PNAC) fondando a Washington un’ organizzazione no-profit omonima con l’obbiettivo di stimolare e supportare la politica estera americana. Il PNAC, un manifesto scritto e ideato dai due intellettuali e analisti William Kristol e Robert Kagan, oltre ai principi già enunciati, elencava alcuni punti politici  ineluttabili fra cui: quello di non essere favorevole all’Onu che ritenevano non aver mai risolto alcuna guerra, di non apprezzare l’uso dei trattati come strumento nei rapporti internazionali, si mostravano critici verso l’Europa “che vive in un paradiso e in pace quando altri si sporcano le mani”, e anche se consideravano come imprescindibili i valori della famiglia, nel lavoro, e dei padri pellegrini originari erano ideologicamente distaccati dalla Chiesa di Roma e più vicini a quella Anglicana che ritiene eventuali interventi militari nei casi di assoluta necessità possibili. Nel 2006 il PNAC   si sciolse per ricomparire qualche anno dopo con il nome di Foreign Policy Inziative ed infine anche questo think tank nel 2017 ha cessato almeno apparentemente di esistere dopo l’arrivo di Trump.

La perdita delle elezioni nel 2016 con la vittoria di Trump costituì una sconfitta doppia per i neocon. Ora è il momento decisivo, una nuova sconfitta sarebbe esiziale peri neoliberisti e globalisti tanto è che Bloomberg in una intervista rilasciata pochi giorni fa ha detto che metterà 1 miliardo di dollari  (lui da solo possiede 53 miliardi) per la sua campagna elettorale e che se dovesse fallire lui quei soldi saranno a disposizione per qualsiasi candidato del partito democratico. Sarà. 

Ma una domanda ci viene spontanea: Trump è  davvero così distante da Bloomberg? Perché in fondo si sa l’ombra neocon aleggia per sua natura su entrambe gli schieramenti di Capitol Hill.


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