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Economia

Bialetti diventa cinese? La colpa è di chi preferisce le Banche all’Impresa

la Bialetti diventa cinese, o meglio di una ricca famiglia di Hong Kong. Intanto gli imprenditori italiani investono in Meta o creano holding all’estero

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Bialetti è più di un marchio, è un’icona del caffé italiano. Il termine non è affatto esagerato, dato che le sue caffettiere ottagonali in alluminio occupano l’immaginario collettivo degli italiani e, soprattutto, le loro cucine.

Inventata nel 1933 da Alfonso Bialetti, è diventata un oggetto quotidiano indispensabile per milioni di connazionali per preparare il caffè. È anche un oggetto emblematico del design, esposto al Museum of Modern Art (MoMA) di New York. Questo pezzo di storia quasi centenaria del “made in Italy” passa ora nelle mani dei cinesi.

Questo prodotto ora non sarà più italiano, un po’ come se si fosse venduta la Fontana di Trevi. Il produttore italiano della caffettiera Moka sarà acquisito da NUO Capital, un fondo di investimento registrato in Lussemburgo e controllato dai Pao Cheng, una delle famiglie più ricche e influenti di Hong Kong. L’accordo, la cui chiusura è prevista per la fine di giugno, prevede l’acquisizione per 53 milioni di euro del 78,6% delle azioni di Bialetti, che uscirà da Piazza Affari. Sarà poi indetta un’asta per le azioni rimanenti ad un prezzo minimo di 0,467 euro, ben superiore a quello di 0,279 euro registrato martedì scorso alla Borsa di Milano. Per gli azionisti, un affare, per l’imprenditoria italiana, uno smacco.

NUO Capital prevede inoltre un conferimento di capitale di almeno 49,5 milioni di euro e il rifinanziamento dei debiti di Bialetti, tramite un prestito subordinato per un importo massimo di 30 milioni di euro (concesso da Illimity e AMCO) e un prestito senior per un importo massimo di 45 milioni di euro (concesso da Banco BPM, BPER Banca e Banca Ifis). Anche per i creditori una festa.

Scelte strategiche sbagliate

Da quasi un decennio Bialetti attraversa difficoltà finanziarie. Queste si sono aggravate dopo la scomparsa nel 2016 di Renato Bialetti, figlio del fondatore, le cui ceneri erano state depositate in una caffettiera gigante benedetta da un sacerdote.

L’azienda spiega i suoi risultati negativi con “la contrazione dei consumi registrata sia sul mercato interno che su quello estero e la situazione di tensione finanziaria della società che ha portato a ritardi nell’approvvigionamento, nella produzione e nella consegna dei prodotti […] lasciando in sospeso quantità significative di ordini”. Su Scenari ne ha parlato Romina Giovannoli, spiegando in profondità gli rrori gestionali che hanno portato a questa situazione.

L’azienda paga anche la concorrenza delle caffettiere a capsule, ma soprattutto le sue scelte strategiche sbagliate. L’espansione, basata sull’apertura di negozi nei centri commerciali e nei centri cittadini, è stata ostacolata dalla pandemia di Covid-19. Anche la diversificazione dell’offerta, con il lancio di utensili da cucina, non ha convinto. Si è investito molto in una distribuzione tradizionale, molto costosa, ignorando o quali le-commerce e le forme innovative di comunicazione, e questi errori si pagano.

Nel 2024, le perdite ammontavano a oltre un milione di euro e i debiti finanziari netti erano pari a 81,9 milioni di euro. 

L’appetito cinese per i ruderi del capitalismo italiano

Gli italiani lamentano che nessun’altra azienda italiana sia venuta in soccorso di Bialetti. Se i cinesi vi hanno visto un afffare, perché non hanno fatto lo stesso gli italiani? Questa acquisizione segna l’ennesima ripresa di uno dei loro simboli da parte di investitori cinesi. Dagli yacht Ferretti a Pirelli (che ora però vuole staccarsi dalla Cina), passando per il cementificio Italcementi o il gruppo di elettrodomestici Candy, la mano di Pechino non ha smesso di espandersi sui grandi nomi del capitalismo della penisola.

Il governo italiano sta cercando di reagire. Dall’introduzione del “golden power” nel 2012 per proteggere le imprese dalle incursioni straniere, circa la metà dei casi che hanno avuto esito positivo riguardavano investimenti cinesi, ma questo strumento può essere utilizzato per aziende strategiche. C’è anche la norma che tutela i marchi italiani, ma necessità che qualche imprenditore voglia intervenire.

Quando la nostra imprenditoria investe in Philipps, come ha fatto Exxor, perdendo anche dei soldi, invece che sui marchi italiani, o quando gli imprenditori preferiscono i monopoli al mercato, come hanno fatto i Benetton, non c’è Golden Power che tenga. Molti preferiscono la finanza creativa alla fabbrica, perché, parliamoci chiaro, competere è fatica. Non si può creare la capacità imprenditoriale per legge, ma l’imprenditore dovrebbe pensare prima alla prosecuzione del proprio lascito, piuttosto che all’utile immediato finanziario. Anche perché non ci portiamo i soldi nella tomba.


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