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Euro crisis

QUELLO CHE LA BCE NON PUO’ FARE

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Ottimo post di Paolo Cardena’ di Vincitori e Vinti

Partiamo da questi semplici grafici, peraltro assai intuitivi:

 

 

 

 

 
Come si osserva agevolmente, buona parte dell’Europa meridionale  è  in conclamato stato deflattivo. Mentre l’Italia, ormai da diversi mesi, sta flirtando pericolosamente con spinte disinflazionistiche importanti,  ed è verosimile pensare  che nei prossimi mesi cadrà anch’essa in deflazione, spingendo l’intera area euro verso livelli di inflazione negativi e comunque  ancor più lontani dal target della Banca Centrale Europea del 2%.
 
La deflazione è una diminuzione del livello generale dei prezzi, cioè il fenomeno opposto all’inflazione. Mentre la disinflazione  descrive  un rallentamento del tasso di inflazione.
La deflazione deriva dalla debolezza della domanda di beni e servizi, cioè un freno nella spesa di consumatori e aziende, che differiscono gli acquisti attendendo ulteriori cali dei prezzi, creando una spirale negativa. Le imprese, non riuscendo a vendere a determinati prezzi parte dei beni e servizi, cercano di collocarli a prezzi inferiori. La riduzione dei prezzi da parte delle imprese si ripercuote sui ricavi, anch’essi in calo. Ne deriva il tentativo da parte delle imprese di ridurre i costi, attraverso la diminuzione dei costi per l’acquisto di beni e servizi da altre imprese, del costo del lavoro e tramite un minor ricorso al credito. Ad un minor costo del lavoro, corrisponde una minore capacità di spesa per le famiglia non compensata da una riduzione dell’impatto fiscale, e quindi un livello più basso di consumi che genere ed aggrava la caduta dei prezzi e la  spirale deflazionistica. 
 
A questo fenomeno, oltretutto, contribuisce un cambio dell’euro troppo forte che non rispecchia i fondamentali economici dei paesi mediterranei che, con una valuta più debole,  potrebbero avvantaggiarsi con maggiori esportazioni, con riflessi positivi anche sulla domanda interna e quindi sul ciclo economico. 
Giova anche precisare che, alla luce delle spinte deflazionistiche sopra evidenziate,  la situazione risulta ancor più grave  proprio per quei paesi che hanno un elevato livello di debito pubblico, come l’Italia. Non solo perché l’Italia è costretta a pagare  interessi sui titoli di Stato emessi in epoche precedenti e che quindi incorporano tassi di interessi più altri poiché “viziati” da un maggior livello di inflazione esistente all’epoca dell’emissione, e quindi un maggior onere in termini reali; ma soprattutto  perché la caduta del livello dei prezzi determina una contrazione del PIL nominale, e quindi l’impossibilità di  poter “diluire” lo stock di debito pubblico che viene espresso in rapporto al PIL. Ne consegue che ad un minor PIL corrisponde un rapporto debito/Pil maggiore. Questo è tanto più vero e pericoloso proprio nel contesto dell’eurozona, anche alla luce della prossima applicazione del Fiscal Compact che, dai prossimi anni,  imporrà agli stati membri la riduzione del rapporto debito/Pil che, entro i successivi venti anni, dovrà essere confinato entro il 60%. E’ chiaro che, in periodi di bassa inflazione o addirittura di deflazione, il percorso di rientro del debito sarà assai più arduo, soprattutto nei primi anni di vigenza delle regole del Fiscal Compact, poiché dovranno implementarsi manovre di riduzione del debito più  robuste ed incisive, con effetti ulteriormente recessivi.
 
Alla luce dei pericoli enunciati nelle considerazioni sopra esposte, non deve affatto sorprendere se Draghi, ormai quasi tutti i giorni, annuncia che la BCE è pronta ad intervenire (puntualizzando sempre che lo farà nei limiti del suo mandato, al fine di non urtare la componente tedesca, maggiore azionista della BCE) per “preservare la stabilità dei prezzi” che, come si osserva da molti  mesi, si stanno allontanando  sempre più dall’obiettivo target della BCE fissato al  2%, precipitando i paesi dell’area mediterranea verso la deflazione.
 
Addirittura, qualche giorno fa, il “falco” Jens Weidmann, numero uno della Bundesbank, nonché custode severissimo del rigore monetario tedesco, magari anche alla luce del risultato elettorale alle amministrative Francesi e delle prossime elezioni europee -attraverso le quali verrà eletto il nuovo  Parlamento Europeo- al fine di tentare di arginare l’affermarsi di partiti politici con forti connotazioni antieuropeiste, sembra essersi  improvvisamente trasformato in “colomba”, aprendo all’ipotesi di un quantitative easing in salsa europea. Possibilità, questa, finora preclusa proprio dall’ortodossia monetaria tedesca.
Quindi, a quanto pare, pur nutrendo forti dubbi sulla possibilità che l’apertura tedesca possa avere  riscontri nella realtà, ben presto potremmo assistere ad un ulteriore allentamento monetario da parte della BCE, peraltro auspicato anche dal Fondo Monetario Internazionale e da altre istituzione che esercitano molta pressione sulla BCE affinché intervenga.
Quindi, che potrà fare la BCE, al fine di arginare le spinte deflazionistiche che incombono nell’eurozona?

Sicuramente può  intervenire sui tassi di interesse (REFI), tagliandoli. Anche se, con i tassi ad un livello prossimo allo zero (0.25%), i margini di manovra sono assai ridotti e magari lo sono anche gli effetti.

 
Può intervenire anche sui tassi di deposito delle riserve in Bce, tagliandoli e, addirittura, portandoli negativi. In pratica, questo tipo di intervento costituirebbe un deterrente per le banche che saranno meno disponibili a sostenere dei costi per depositare la liquidità presso la Bce, cercando forme di impiego alternative, in cuor delle BCE, magari, stemperando la stretta creditizia e prestiti ad imprese e famiglie. Ma poiché i maggiori depositari delle riserve presso la Bce, solitamente,  sono le banche del Nord Europa, un intervento di questo genere  rischia comunque di avvantaggiare ulteriormente le imprese del nord, che si troverebbero ulteriormente finanziate a condizioni imparagonabili rispetto alle concorrenti del sud, che, tuttavia, potrebbero trovare anch’esse sollievo dall’intervento prospettato.
 
Venendo a misure meno convenzionali, la Bce potrebbe intervenire con una nuova edizione del programma Smp (Securities market program), già sperimentato nel 2011, con il quale furono acquistati sul mercato secondario circa 200 miliardi di titoli pubblici, ma sterilizzando gli acquisti, cioè drenando liquidità per gli stessi importi acquistati. Cosa che, stando a quanto affermato da Weidmann, potrebbe essere superata purché oggetto degli acquisti siano titoli pubblici di massimo merito creditizio, cioè principalmente tedeschi. Con la conseguenza che l’intervento della Banca Centrale vada a determinare un maggior vantaggio proprio per l’economia più forte, quella tedesca, che godrebbe di rendimenti sui titoli pubblici ancor più ridotti proprio grazie alle pressioni esercitate dagli acquisti delle Bce, che ne schiaccerebbe ulteriormente i rendimenti.
 
Oppure, ancora, potrebbe intervenire con una nuova edizione di LTRO (Long Term Refinancing Operation), anche’esso sperimentato con successo già alla fine 2011 e inizio 2012, attraverso il quale si permise di sostenere la domanda dei titoli pubblici da parte delle banche dei singoli paesi, sostituendo la domanda estera venuta meno. Magari una forma più evoluta di LTRO, con meccanismi tali per cui l’intervento monetario della BCE possa veicolare l’impiego della liquidità ottenuta dalle banche  nelle attività di finanziamento di famiglie ed imprese. Insomma, una sorta di “funding for landig” sperimentato da Bank of England nel corso degli ultimi anni.
 
C’è da aggiungere che, qualsiasi politica monetaria la Bce potrà adottare, benché possa essere comunque importante al fine di contrastare le spinte deflazionistiche incombenti sull’Europa, non potrà mai risolvere gli squilibri strutturali presenti tra le diverse aree dell’eurozona.
Ad esempio, se uno degli obiettivi che si intende perseguire è quello di una riduzione del tasso di cambio dell’euro rispetto alle altre valute,  è chiaro che ne godrebbero tutti i paesi esportatori, che riacquisterebbero una maggiore competitività nelle esportazioni extra UE. Un tasso di cambio inferiore, se da un lato migliora la competitività sia dei paesi più deboli (Italia) che dei paesi più forti (Germania),da l’altro lato non consente di migliorare le divergenze strutturali all’interno della stessa area valutaria, e quindi di recuperare la competitività dei paesi mediterranei nei confronti dei Paesi core. Contrariamente, un recupero della competitività dei paesi del sud rispetto a quelli del nord, si trasformerebbe in maggiori esportazioni verso quest’ultimi, che dovrebbero aumentare la domanda interna, contribuendo al riequilibrio delle bilancia commerciale interna all’eurozona. Circostanza preclusa con una politica monetaria comune.
 
 
Con ciò, non si vuole affermare che un’ulteriore allentamento monetario delle Bce non possa avere effetti positivi, soprattutto per arginare evidenti e pericolose spinte deflazionistiche. Ma una politica monetaria comune in aree economiche strutturalmente differenti che tendono a divergere sempre più, può fare ben poco per riassorbire gli squilibri interni esistenti tra i vari paesi che compongono la moneta unica.

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