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“Assemblea sindacale allegorica, quasi kafchiana a Pontelandolfo. A.D. 2019” di Raffaele SALOMONE MEGNA

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Pontelandolfo è un ridente e tranquillo paesino adagiato sulle colline del Sannio, ma con un triste e tragico passato.

All’alba del 14 agosto del 1861 i bersaglieri, al comando del colonnello veronese Pier Eleonoro Negri, lo misero a ferro e fuoco, dopo che avevano già distrutto il vicino paese di Casalduni.

Fu massacrata senza pietà l’inerme popolazione residente.

Non è stato mai stabilito con certezza il numero definitivo delle vittime, ma di sicuro fu ingente. Neanche le chiese furono risparmiate.

Si annegava così nel sangue la rivolta iniziata qualche giorno prima da Carmine Giordano, ex sottufficiale dell’esercito borbonico, che aveva rialzato le insegne del Regno delle Due Sicilie nei due paesi sanniti, dopo un cruento scontro con il regio esercito.

Strana gente questi Sanniti….

Riservati e fieri, si erano opposti con veemenza ai romani, arrivando ad allearsi persino con Annibale, pur di liberarsi dal loro giogo, ed ora si opponevano strenuamente alle truppe del neonato stato italiano, rectius ai piemontesi.

Non è cosa saggia accarezzarli di contropelo e, soprattutto, prenderli per i fondelli.

Lo avevano sperimentato a proprie spese le legioni romane alle Forche Caudine e lo stavano sperimentando guardia civile e bersaglieri tra le aspre montagne dell’appennino sannita, luoghi ideali per la guerriglia.

Ma perché questa reazione così forte?

Non era trascorso neanche un anno da quando a Benevento, motu proprio, patrioti sanniti e garibaldini il 3 settembre del 1860 avevano cacciato dalla città, tra l’esultanza generale, il delegato pontificio Eduardo Agnelli, ponendo così fine, dopo quasi otto secoli, al dominio temporale dei papi che il giubilo era stato sostituito da un profondo rancore.

In ogni caso il poco tempo trascorso dalla proclamazione dell’unità d’Italia era stato sufficiente a far comprendere alle popolazioni sannite che non erano state liberate da un tiranno, ma che erano state annesse, manu militari, ad un altro stato che sentivano profondamente lontano, straniero ed ostile, il cui re parlava francese.

Inizialmente allettati dalle proclamazioni socialisteggianti del generale Garibaldi di distribuire le terre ai contadini, avevano poi constatato che le promesse non sarebbero state mai mantenute, mentre i beni demaniali e della Chiesa, su cui le comunità locali esercitavano da sempre i diritti di pascolo e legnatico, venivano svenduti ai “galantuomini ” e diventavano fondi privati. Privatizzazioni ante litteram!

L’introduzione della leva obbligatoria, i dazi, le gabelle, le tasse, le accise, sino ad allora sconosciute in quella entità, fecero il resto.

Così insorsero i contadini meridionali, tra i quali i più determinati erano soprattutto i sanniti. Erano i “cafoni” contro cui vennero schierati i due terzi dell’esercito italiano.

Sono i tempi del brigantaggio, non un fenomeno di delinquenza comune, ma una lotta contro il modello capitalistico di derivazione anglosassone e per la spartizione delle terre.

Alla fine, senza risorse ed alleati, furono sconfitti.

Nulla poté la disperazione contro le baionette, il coraggio contro i cannoni, l’onore contro la legge Pica.

Questa legge speciale, vile ed abietta, che avrebbe fatto impallidire perfino Dracone, pur di sconfiggere la resistenza contadina, sostituiva al principio della responsabilità penale personale, quella collettiva.

Venivano così perseguiti non solo coloro che si erano dati alla macchia, ma anche i loro genitori, figli, fratelli, coniugi.

Precedentemente il neonato Stato italiano aveva anche ignorato il principio giuridico del giudice naturale, sostituito dai tribunali militari speciali che emanavano sentenze inappellabili.

E pensare che gli inglesi avevano definito il regno dei Borbone la negazione di Dio in terra!

I rivoltosi sanniti, d’emblée definiti briganti, non potevano accettare di vedere costretti in catene le proprie mogli ed i propri figli, per cui si arresero.

Il Sannio passò dalla stagione della resistenza a quella della resilienza ed infine a quella della desistenza.

Emigrarono a frotte in terre “ assai luntane”.

Andiamo ora alla assemblea sindacale, che si è volta il giorno 27 marzo u.s. nella bellissima sede dell’istituto comprensivo di Pontelandolfo, ma la digressione storica di cui sopra era necessaria a far cogliere al lettore il così detto “genius loci”.

La bella aula magna era gremita.

I relatori, dirigenti dei sindacati più rappresentativi della scuola, si sono alternati al tavolo tutti evidenziando con argomentazioni pertinenti e di grande saggezza, le problematicità del regionalismo differenziato, che porterebbe inevitabilmente allo smembramento della scuola statale, condizione prodromica per una secessione di fatto.

L’assemblea era silenziosa e i convenuti oscillavano tra lo scoramento, l’incredulità e l’indignazione.

Quando mi è stata concessa la parola, da subito ho avvertito una grande sofferenza interiore. Trovavo incredibile che a Pontelandolfo, dove le genti sannite avevano nel 1861 subito sulla propria pelle gli effetti di una violenta riunificazione, conseguenza di interessi economici stranieri (inglesi), si dovesse parlare di secessione di quella parte d’Italia che li aveva annessi manu militari.

La mia inadeguatezza sconfinava nell’avvilimento e nella rabbia al pensiero che mio zio Angelo, fratello maggiore di mio padre, aveva perso la vista per difendere sul Piave dall’avanzata austriaca quelle stesse regioni che ora si sentono insofferenti allo stato italiano e pensano di poter fare meglio da sole.

E’ una tragica eterogenesi dei fini e la mia personale emozione scaturiva dalla consapevolezza che ideali e speranze dei nostri avi vivono dentro di noi, così tornano a vivere in noi le aspettative di quelli che difesero con le armi il proprio modo di vivere, le proprie tradizioni, il proprio credo e che scelsero di morire in piedi e non di vivere in ginocchio.

Come allora il nemico delle genti del sud non furono certo le popolazioni dell’Italia del nord, ma il capitalismo inglese e le classi parassitarie del nuovo stato sabaudo, che depredarono scientemente le regioni meridionali, oggi il nemico del popolo italiano e delle genti del sud è il capitalismo finanziario, i vincenti della globalizzazione ed i ceti parassitari di Bruxelles, il tutto supportato ancora una volta da interessi stranieri ( franco-tedeschi), che continueranno a depredare e deindustrializzare soprattutto le regioni che vogliono rendersi autonome.

Nihil novum sub sole!!!

Raffaele SALOMONE-MEGNA


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