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Appello ai parlamentari: quando art.81 e art.18 fanno rima di A.M.Rinaldi

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Desidero gettare, più che un sasso nello stagno, un vero e proprio macigno, con la speranza che le forze politiche a cui stanno ancora a cuore le sorti del nostro Paese siano sollecitate a ragionare su queste tematiche e a trarne le opportune conseguenze. Quando mi appello alle “forze politiche a cui stanno a cuore le sorti del nostro Paese”, intendo tutte, nessuna esclusa, indipendentemente dal credo o dalla ideologia, perché questa volta è in ballo la stessa sopravvivenza democratica del Paese e, pertanto, tutti devono prendersi la loro parte di responsabilità di fronte al proprio elettorato e, soprattutto, al cospetto del Paese. Tanto per essere chiari, mi rivolgo non solo a M5S e Lega che stanno al governo, ma anche al senso di responsabilità che mi auguro risieda sempre in Forza Italia e Fratelli d’Italia, oltre che a quanto di buono è rimasto nella sinistra, quella che, nonostante il PD, ancora difende i diritti inalienabili dei lavoratori, e a tutti i movimenti che non sono riusciti ad ottenere una rappresentanza parlamentare. 

Iniziamo dall’art.81 della Costituzione, modificato con legge costituzionale n. 1/2012 per soddisfare quanto contemplato nel Patto di bilancio europeo, meglio noto con il termine di Fiscal Compact, quel trattato intergovernativo che introduceva nell’ordinamento un principio di carattere generale secondo il quale tutte le amministrazioni pubbliche avrebbero dovuto assicurare l’equilibrio tra entrate e uscite, in piena osservanza delle regole di bilancio della UE, definendo inoltre i meccanismi correttivi in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi. La modifica fu approvata con il concorso di un’ampia maggioranza parlamentare (si ricorda che le modifiche costituzionali sono regolare dall’art.138 della Costituzione), e francamente credo che non tutti i parlamentari che ne deliberarono la modifica fossero perfettamente al corrente di quali effetti devastanti si sarebbero prodotti con quella scelta. Scelta comunque pesantemente condizionata dal clima di “sudditanza” instaurata nei confronti dell’Unione Europea, una specie di “pegno” per potersi riscattare dalla spada di Damocle dello spread utilizzato l’anno prima per defenestrare un governo che, è bene ricordarlo, godeva del sostegno di una maggioranza parlamentare scaturita da democratiche elezioni, a favore di un governo voluto dalla Troika a supporto e a garanzia degli interessi delle èlites. 

Iniziamo nello specificare che tutto l’impianto originario della nostra Costituzione prevedeva al suo interno, sin dal ‘48, una “Costituzione economica”, cioè delineava un preciso modello economico di riferimento ad iniziare dal perseguimento della piena occupazione (non a caso l’art.1 fonda la Repubblica proprio sul lavoro), più una serie di tutele nei confronti dei lavoratori che sarebbero potute essere garantite e realizzate solo con il pieno rispetto di quel tipo di modello che, se depotenziato, o addirittura stravolto, non sarebbero potute essere attuate. Ebbene quella modifica all’art.81 avvenuta nel 2012, dove si introdusse in Costituzione per l’appunto il principio del pareggio di bilancio, è stato proprio il meccanismo ideale per non poter attuare quanto disposto dalla Costituzione stessa, in quanto è andato a soddisfare un altro modello economico in antitesi rispetto a quello voluto dai Padri Costituenti (i quali si avvalsero, tra gli altri, della consulenza economica del grande prof. Federico Caffè), cioè quello teso alla stabilità dei prezzi, cioè al “fobico” controllo dell’inflazione, e il rigore dei conti pubblici, fino a perseguimento del pareggio come presupposto (per loro!) della crescita.

Insomma, la classica “polpetta avvelenata” inserita in modo più o meno subdolo nel dettame costituzionale al fine di neutralizzare completamente la realizzazione di quanto invece previsto da chi sapientemente l’aveva concepita. Infatti, se si è vincolati dal pareggio di bilancio, come è possibile perseguire quanto garantito dalla Costituzione? Non a caso il pensiero unico dominante dei media non ha mai smesso di indottrinare i poveri cittadini con la storiella che lo Stato deve comportarsi come il buon padre di famiglia, o un dirigente d’azienda, perché se spende di più di quanto incassa, a forza di fare debiti va in bancarotta o in fallimento, dimenticando (volutamente) che uno STATO che conserva la sua Sovranità, e oserei dire anche la sua DIGNITA’,  ha come unico e inalienabile obiettivo quello di tutelare i propri azionisti, pardon cittadini, e che pertanto NON può mai FALLIRE!

Il coscienzioso padre di famiglia è tenuto per caso a costruire strade, ponti, scuole, a mantenere l’ordine pubblico, a dotarsi di un esercito, a fare giustizia, a pagare le pensioni, a sostenere totalmente le spese per curarsi costruendo ospedali, ecc. ecc.? Qualsiasi Stato, e non solo il nostro, ha il sacrosanto dovere di provvedere a tutto questo; anzi gli Stati nascono proprio per soddisfare queste elementari esigenze comuni che invece la nuova dottrina neoliberista e mercantilista adottata dall’Unione Europea, a supporto della conduzione della governance (altro termine non adatto ad uno Stato ma ad una azienda!) e alla sopravvivenza dell’euro, non vogliono e non prevedono di attuare come dovrebbe essere, lasciando allo “scoperto” e alla propria iniziativa personale quelle tutele che invece devono essere obbligatoriamente poste a carico dello STATO.

Credo di essere stato estremamente chiaro. E a chi ancora sostiene che con i Trattati internazionali abbiamo subordinato il diritto nazionale a quello europeo, consiglio di andarsi a leggere la sentenza della Corte Costituzionale riguardo ai “controlimiti” (sentenza n.238 del 2014), la quale chiarisce definitivamente che i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona costituiscono un limite invalicabile all’ingresso, nel nostro ordinamento, delle norme internazionali ed europee. Possibile che nessuno si sia accorto che, avendo modificato l’art.81 della Costituzione, si è pesantemente infranto questo limite? La piena occupazione, ma più in generale il lavoro, rientrano proprio in quei principi fondamentali della Costituzione che la sentenza della Consulta ha voluto disegnare come linea del Piave per evitare che nel nostro ordinamento entrino norme, internazionali ed europee, di segno opposto.
Parlamentari di tutti i gruppi e fazioni, cosa aspettate ad estrarre dalla nostra Costituzione questo “corpo estraneo”  che impedisce il perseguimento della piena occupazione e lede i diritti inalienabili – e non negoziabili – sanciti dalla Costituzione stessa? 

Passiamo ora al tanto discusso art.18 dello Statuto dei Lavoratori introdotto con legge 20 maggio1970 n.300 il quale si applicava alle aziende con almeno 15 dipendenti (5 se agricole), disponendo che il licenziamento è da ritenersi valido solo se avviene per giusta causa o giustificato motivo e, in assenza di questi presupposti, il lavoratore poteva chiedere di essere reintegrato nel posto di lavoro. Successivamente, con la riforma Fornero introdotta dalla legge n.92/2012 (guarda caso sempre sotto il governo Monti), l’art.18 venne modificato per limitare le ipotesi di applicazione della cosiddetta “tutela reale”, restringendo quindi i casi in cui il lavoratore illegittimamente licenziato poteva chiedere al giudice di essere reintegrato. Successivamente, con l’introduzione del c.d. “job act”,  pur escludendosene l’applicazione ai rapporti instaurati prima del 7 marzo 2015, data dell’entrata in vigore del decreto legislativo n.23 del 2015, si introduceva per i contratti a tempo indeterminato la disciplina del “contratto a tutele crescenti”. Un sistema che ha reso il lavoro definitivamente precario e sottopagato, tant’è che la “tutela reale” è diventata una ipotesi meramente residuale, ma anche quella “obbligatoria” – cioè quella economica – subiva un peggioramento per il lavoratore rispetto addirittura a quella prevista dalla riforma Fornero.

Ma tutto questo non è un caso, bensì un preciso progetto che mira a diminuire le tutele in favore dei lavoratori per consentire quella “flessibilità” nei contratti di lavoro che passa purtroppo dalla “svalutazione del salario”, svalutazione prevista da quello stesso modello neoliberista e mercantilista descritto sopra, il quale non va nella direzione di migliorare le esigenze e le aspettative dei lavoratori, ma dei conti economici delle aziende, in particolare di quelle più grandi. Anche in questo caso, perché – cari parlamentari di tutti i colori politici – non vi impegnate a ripristinare le tutele dei lavoratori? Siete stati eletti dai cittadini o dalle élites? Perché, forse anche in questo caso inconsapevolmente, non correggete le norme che stanno tanto a cuore a pochi e a discapito di molti? Vi ricordo che finché ci sarà l’esercizio della DEMOCRAZIA, i voti si conteranno sempre e non si peseranno come invece qualcuno ha proposto di fare con l’introduzione del voto ponderato (follia avanzata da qualche commentatore dopo la Brexit). 

Qualcuno, ne sono certo, mi accuserà di essere uno “sfascista” anti-europeo mentre invece mi considero solamente chi vuole rendere questa Europa veramente sostenibile e più equa e ristabilire ciò che tutti ardentemente vogliamo: rimettere il cittadino al centro dell’interesse insieme all’economia reale e non più quella virtuale e prettamente finanziaria che ha tanto devastato quei diritti inalienabili e sacrosanti per i quale hanno combattuto per millenni i nostri predecessori.
Questo il mio appello accorato e spassionato, da semplice cittadino italiano, ma a cui sta ancora molto a cuore il destino del mio, del nostro, Paese, ed è solo fortemente animato dal desidero di trasmettere nel migliore dei modi possibile ai miei figli e ai figli dei miei figli il modello democratico e i principi sacrosanti della Costituzione come me li hanno trasmessi i miei Padri. Stavolta è proprio il caso di dirlo: Fate presto! 

Antonio M. Rinaldi

P.S. Naturalmente le modifiche dell’art.81, riguardo l’abolizione  del principio del pareggio di bilancio, deve passare da un iter parlamentare con modi e tempi previsti dalla Costituzione stessa e l’art.18 della legge 300 del 1970 da un dibattito parlamentare completo e specifico e non in forza di un emendamento correlato alla conversione in legge di decreti.


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