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Alzheimer: e se la cura fosse un “interruttore” nanotecnologico per le vene del cervello?
Alzheimer, la svolta dai topi: una nano-terapia “resetta” il cervello e inverte la malattia. Ecco come funziona l’interruttore che ripara i vasi sanguigni cerebrali.
La ricerca sull’Alzheimer, un percorso a ostacoli lastricato di farmaci promettenti poi rivelatisi inefficaci, potrebbe essere a una svolta quasi fantascientifica. Un team di ricerca internazionale, co-guidato dall’Istituto di Bioingegneria della Catalogna (IBEC) e dall‘Ospedale West China dell’Università di Sichuan (WCHSU), ha messo a punto una terapia che, nei topi, non si limita a rallentare la malattia, ma sembra invertirne il corso, riportando le cavie anziane a un comportamento quasi giovanile. L’IBEC ha dato comunicazione della ricerca, pubblicata su Targeted Therapy.
La vera novità? L’approccio non bersaglia direttamente i neuroni, come si è tentato di fare finora, ma si concentra su un elemento cruciale: la salute dei vasi sanguigni del cervello e, in particolare, della barriera emato-encefalica.
Un “idraulico” per l’organo più esigente
Il cervello è l’organo più dispendioso del nostro corpo: consuma il 20% dell’energia di un adulto e fino al 60% in un bambino. Tutta questa energia arriva attraverso una rete capillare incredibilmente densa, con circa un miliardo di capillari, dove ogni singolo neurone è servito dal suo vaso sanguigno personale. Questa premessa fa capire quanto la salute vascolare sia fondamentale.
Nell’Alzheimer, questo sistema va in tilt. La barriera emato-encefalica, il “servizio di sicurezza” che protegge il cervello e ne gestisce i rifiuti, smette di funzionare a dovere. Le proteine tossiche, come la beta-amiloide (Aβ), si accumulano perché la barriera non riesce più a smaltirle. I ricercatori hanno quindi sviluppato dei “farmaci supramolecolari”: nanoparticelle progettate non per trasportare un principio attivo, ma per essere esse stesse il principio attivo.
Il meccanismo d’azione, spiegato in modo semplice, è questo:
- Il problema: La proteina “spazzino” LRP1, che dovrebbe legare la beta-amiloide e traghettarla fuori dal cervello, si “ingolfa”. Se lega troppa beta-amiloide, il trasporto si blocca; se ne lega troppo poca, il segnale per l’eliminazione non parte. In entrambi i casi, la “spazzatura” si accumula.
- La soluzione: Le nanoparticelle, create con un approccio di ingegneria molecolare “dal basso verso l’alto” (bottom-up), mimano le “mani” della proteina LRP1.
- L’azione: Si legano alla beta-amiloide e la trasportano attraverso la barriera, agendo come un interruttore che riattiva l’intero sistema di pulizia naturale.
I risultati sui topi sono stati, a dire poco, sorprendenti. “Solo 1 ora dopo l’iniezione abbiamo osservato una riduzione del 50-60% della quantità di beta-amiloide nel cervello,” spiega Junyang Chen, co-primo autore dello studio. Ma è l’effetto a lungo termine a colpire di più: topi di 18 mesi (paragonabili a un essere umano di 90 anni), trattati 6 mesi prima, avevano recuperato il comportamento di un topo sano e giovane.
“L’effetto a lungo termine deriva dal ripristino del sistema vascolare del cervello”, afferma Giuseppe Battaglia, professore ICREA all’IBEC e leader dello studio. “Funziona come una cascata: una volta che i vasi sanguigni tornano a funzionare, iniziano a eliminare la beta-amiloide e altre molecole dannose, permettendo all’intero sistema di ritrovare il suo equilibrio. È notevole che le nostre nanoparticelle agiscano come un farmaco che sembra attivare un meccanismo di feedback, riportando alla normalità questo percorso di pulizia”.
Dalla teoria alla pratica: le sfide future
“Il nostro studio ha dimostrato un’efficacia notevole nel raggiungere una rapida eliminazione della beta-amiloide, ripristinando la sana funzione della barriera emato-encefalica e portando a una sorprendente inversione della patologia dell’Alzheimer”, conclude Lorena Ruiz Perez, ricercatrice dell’IBEC.
Certo, la cautela è d’obbligo. Un topo non è un uomo e la strada per una terapia clinica è ancora lunga. Tuttavia, questo approccio offre una prospettiva radicalmente nuova, spostando il focus dal danno neuronale alla disfunzione vascolare. In un Paese come l’Italia, dove si contano circa 600.000 malati di Alzheimer, ogni nuova speranza, se scientificamente fondata, è una notizia da non sottovalutare.
Domande e Risposte (FAQ)
1. Questa scoperta significa che abbiamo una cura definitiva per l’Alzheimer? No, è importante essere cauti. I risultati, per quanto straordinari, sono stati ottenuti su modelli animali (topi). La biologia umana è molto più complessa e la transizione da una terapia efficace sui topi a una sicura ed efficace per l’uomo richiede anni di ulteriori ricerche e trial clinici. Questa è una prova di concetto molto promettente che apre una nuova strada, non un punto di arrivo.
2. Come funzionano esattamente queste nanoparticelle? Sono sicure? Le nanoparticelle sono progettate per agire come un “interruttore” biologico. Imitano la funzione di una proteina (LRP1) che nel cervello sano ha il compito di “catturare” la proteina tossica beta-amiloide e trasportarla fuori. Di fatto, riattivano il sistema naturale di pulizia del cervello. La sicurezza per l’uomo è una delle incognite principali che dovrà essere valutata rigorosamente nelle future fasi di sperimentazione, per assicurarsi che non ci siano effetti collaterali o tossicità a lungo termine.
3. Quando potremmo vedere questa terapia disponibile per i pazienti? È molto difficile fare previsioni. Anche se i prossimi studi confermassero l’efficacia e la sicurezza, il processo di sviluppo di un farmaco è lungo. Dalle sperimentazioni pre-cliniche si deve passare a tre fasi di trial clinici sull’uomo, un percorso che può richiedere anche 8-10 anni. Nella migliore delle ipotesi, non vedremo una terapia basata su questa tecnologia prima del prossimo decennio.
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