EconomiaEnergia
Accordo IMO, salta tutto. L’industria navale voleva le regole, ma Trump e i Sauditi dicono “No”
Affondato l’accordo sul clima per le navi: l’industria voleva regole chiare per investire, ma l’asse USA-Arabia Saudita blocca tutto. Le petroliere (e le raffinerie) ringraziano.

Doveva essere il primo settore industriale a livello globale a darsi regole vincolanti sulle emissioni, e invece si è concluso con un nulla di fatto. L’industria, quella navale, paradossalmente, le regole le voleva pure. Ma a Londra, la riunione dell’International Maritime Organization (IMO) è stata affondata da un’insolita alleanza tra l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti di Donald Trump.
Risultato? I carburanti marini (ovvero il petrolio) restano al loro posto, con buona pace delle raffinerie e dei trader, e tanti saluti alla scadenza del 2028.
Il sabotaggio dell’accordo
L’incontro IMO di questa settimana a Londra era cruciale. Si doveva finalizzare il quadro normativo, già concordato in aprile, che avrebbe imposto agli armatori una transizione verso carburanti più puliti a partire dal 2028, con l’obiettivo di ridurre l’intensità di carbonio delle flotte.
Invece, la sessione si è conclusa bruscamente. L’Arabia Saudita ha presentato una mozione per rinviare i colloqui di un anno. In un finale drammatico, la mozione è passata per una manciata di voti, di fatto annullando l’accordo e vanificando dieci anni di negoziati. Tutti a casa.Affondato l’accordo sul clima per le navi: l’industria voleva regole chiare per investire, ma l’asse USA-Arabia Saudita blocca tutto. Le petroliere (e le raffinerie) ringraziano.
Il vero protagonista di questo blocco, tuttavia, non è stato a Londra, ma a Washington. L’amministrazione Trump ha operato attivamente per far saltare il banco.
- Il Presidente USA ha definito il piano una “truffa verde” (“green scam”).
- I rappresentanti della sua amministrazione hanno minacciato dazi ai paesi che avessero votato a favore.
- Il Segretario di Stato USA, Marco Rubio, ha esultato dopo il voto, definendolo una “vittoria enorme” per Trump.
La pressione americana, unita a quella saudita, ha funzionato. Paesi che ad aprile erano favorevoli (come la Cina) o nazioni insulari piccole (Bahamas, Antigua e Barbuda), fortemente dipendenti dal commercio con gli Stati Uniti, hanno cambiato posizione o si sono astenute, determinando il fallimento.
Il paradosso: l’industria voleva la stabilità
Qui emerge l’aspetto più tecnico e, se vogliamo, ironico della vicenda. L’industria navale, che muove il 90% delle merci mondiali, era favorevole all’accordo. Non per un improvviso impeto ambientalista, ma per pura necessità economica.
Il settore fatica da anni a decarbonizzare per un motivo semplice: il diesel marino è economico e denso di energia, mentre le alternative (come ammoniaca o metanolo) sono costose e di difficile reperibilità.
Come ha dichiarato Thomas Kazakos, segretario generale dell’International Chamber of Shipping (ICS), l’industria ha bisogno di “chiarezza per poter fare gli investimenti”. Un quadro normativo globale, unificato e prevedibile, avrebbe permesso agli armatori di pianificare gli investimenti miliardari necessari per le nuove flotte, sapendo quali standard rispettare.
Invece, il collasso dei colloqui lascia il settore (responsabile del 3% delle emissioni globali, ma con stime di crescita fino al +150% entro il 2050) nel limbo dell’incertezza.
La spaccatura è stata netta:
Senza un intervento, il diesel marino continuerà a regnare. Il rinvio, definito “inaccettabile” dalle nazioni climaticamente più vulnerabili come Vanuatu, è una vittoria per chi temeva un aumento dei prezzi al consumo e, soprattutto, per chi il petrolio lo estrae e lo raffina.
Domande e Risposte sul Testo
Ecco tre domande che un lettore potrebbe porsi, con relative risposte.
1. Perché l’industria navale, che dovrebbe sostenere dei costi, era a favore dell’accordo? Per l’industria, l’incertezza normativa è un costo maggiore di una regola chiara, anche se costosa. Gli armatori devono pianificare investimenti per navi che durano decenni. Senza uno standard globale (IMO), rischiano di investire miliardi in una tecnologia (es. GNL) per poi vederla superata da regole regionali diverse (es. UE o USA) che magari impongono l’ammoniaca. L’accordo IMO avrebbe fornito quella “chiarezza” indispensabile per pianificare investimenti a lungo termine, creando un mercato stabile e unificato per le nuove tecnologie.
2. Quali sono le motivazioni reali degli Stati Uniti e dell’Arabia Saudita? Gli Stati Uniti, sotto l’amministrazione Trump, hanno addotto la motivazione ufficiale di non voler “aumentare i prezzi per i consumatori americani”, definendo l’accordo una “truffa verde”. La vera spinta è però politica (un rigetto degli accordi multilaterali sul clima) ed economica (proteggere l’economia USA dai costi della transizione). L’Arabia Saudita, come altri “petrostati” (es. Russia), ha un interesse diretto a ritardare qualsiasi misura che riduca la domanda globale di combustibili fossili, come il diesel marino.
3. Cosa succede ora? Il settore non ridurrà mai le emissioni? A breve termine, l’obiettivo del 2028 è quasi certamente fallito. Il settore resta nel caos normativo. Le emissioni continueranno a essere legate al diesel marino. Tuttavia, la spinta non è morta. Regioni come l’Unione Europea hanno già proprie normative (come l’EU ETS per il trasporto marittimo) che tassano le emissioni. Il fallimento dell’accordo globale IMO potrebbe semplicemente portare a una frammentazione delle regole, con l’Europa che agisce da sola, costringendo comunque le navi che attraccano nei suoi porti ad adeguarsi o a pagare.

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