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IL VERO SPIN DI GRETA THUMBERG di Luigi Luccarini.

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C’è qualcosa di inquietante nel florilegio di immagini di Greta Thunberg che riempie ormai da tempo i social media ma soprattutto i campi dell’informazione mainstream. Persino più dei suoi discorsi, in cui non si ravvisa un solo centigrammo di verità scientifica, come dimostra il fatto che nessun membro di quella comunità si è mai impegnato a fornirle un sostegno ufficiale.

L’inquietudine nasce dal fatto che, come noto, la sedicenne di Stoccolma è affetta da sindrome di Asperger, un problema dello sviluppo che induce schemi di comportamento stereotipati ed interessi ristretti che possono arrivare ad un livello di sindrome ossessivo compulsiva. Anomalie che traspaiono da molti dei suoi ritratti (come la foto in alto, edita da Huffington Post Italia) al punto che stupisce che nessuno si sia posto il problema di quanto la loro pubblicazione sia compatibile con le tutele approntate per i diritti del minore dalla Convenzione di New York del 1989 o, per quanto riguarda l’Italia, dalla Carta di Treviso ed altre forme di regolamentazione dell’attività giornalistica e divulgativa in genere.

Il fatto è che Greta nel frattempo è diventata un autentico spin politico, su cui è in corso un massiccio investimento da parte di chi intende con lei promuovere una sorta di rito di autocoscienza collettiva attorno ai problemi di sostenibilità di modelli economici fondati su prospettive di crescita e benessere diffusi ovunque. E così tenere a freno le spinte centrifughe dall’attuale establishment istituzionale e sociale.

Per questo la sua immagine deve diffondersi il più possibile e la ossessione diventare in qualche modo anche la nostra.

D’altra parte le parole di Greta, quando non scadono nella più scontata retorica ecologista, contengono riferimenti precisi a decisioni già assunte o che comunque saranno presto cogenti per molti di noi, e di cui molti di noi sono ancora ignari.

Quando infatti la giovanissima di Stoccolma parla di countdown verso una possibile fine del pianeta, e pone il termine ultimo nell’anno 2030, invocando per la salvezza del genere umano una riduzione del 50% delle emissioni di CO2, non indica date e cifre a caso. Ma numeri che fanno già parte della realtà normativa del nostro continente.

L’Unione Europea ha infatti in questi giorni definitivamente licenziato il programma di riduzione delle emissioni di anidride carbonica per i veicoli di nuova immatricolazione dagli attuali 118 g/km di media, su un massimo consentito di 130, ai 95 obbligatori dal 2021, che diventeranno 80 nel 2025, per finire – proprio nel 2030 – ad un tetto di 59 g/km. Che è esattamente la metà di 118.

E’ previsto che i fabbricanti di auto che non si atterranno a questi limiti verranno sanzionati ma anche che il ricavato delle multe confluirà su fondo probabilmente destinato ad agevolarne la progressiva riconversione verso l’elettrico. Insomma, una spada di Damocle che potrebbe poi avere una punta di gomma, visto che il settore automotive, soprattutto in Germania, sconta ancora oggi le disastrose conseguenze dello scandalo Dieselgate e brama di poter far vivere un analogo incubo al paese – ed all’economia – da dove è partito: gli Stati Uniti di Trump.

Perché al contrario la politica americana antinquinamento non è mai decollata, neppure dopo che Obama inaugurò il suo secondo mandato con la proposta di un Energy Security Trust che avrebbe dovuto finanziare con il ricavato delle concessioni petrolifere ricerca e sviluppi in campo commerciale della cosiddetta auto verde. Troppo forti l’industria estrattiva ed il suo indotto e troppo cruciale la sopravvivenza di posti di lavoro tradizionali, come quelli a rischio in General Motors, perché si possa pensare ad un cambiamento radicale in un paese in cui Tesla, il principale produttore di auto elettriche, finirebbe così per acquisire una posizione assolutamente dominante a discapito di moltissimi stakeholders, non solo del settore automotive.

Eppure non c’è alcuna certezza sul fatto che la sostituzione dell’elettrico alla combustione fossile produca effettivi e comunque benefici all’ambiente, visto che molti già hanno fatto notare

E questo anche spiega la resistenza di Trump a qualsiasi istanza anche vagamente green ed anzi il fatto che negli USA si stia cercando in qualche modo di ostacolare l’espansione dell’azienda di Elon Musk. Punito prima con una sanzione milionaria dalla SEC e penalizzato poi dalla decisione del Governo Federale di ridurre gli incentivi per l’acquisto di auto elettriche, al punto da essere costretto per mantenere competitivi i prezzi di vendita ad una drastica riduzione di addetti. Poca roba, comunque, se paragonata al piano di chiusure e licenziamenti di General Motors.

E’ in tale quadro che si innesta il cambiamento che la nuova regolamentazione EU vuole determinare nelle future scelte dei consumatori. Perché l’imminenza del 2021, quando tutti dovranno conformarsi all’obbligo di riduzione delle emissioni, nell’impossibilità di adeguare per tempo le linee di produzione, verrà affrontata da molte aziende con acquisto di “crediti verdi” da Tesla, come pure la normativa consente. Sembra dunque che l’Europa abbia l’intenzione di adottare Musk e garantirgli quei margini che l’amministrazione USA gli sta negando.

Anche perché solo così le case automobilistiche del continente potranno fronteggiare la tendenza recessiva del settore: tanto nel mercato comune, dove si verrebbe a creare una barriera all’ingresso molto più efficace rispetto al classico dazio, quanto negli stessi USA dove Tesla, nonostante la situazione di apparente impasse, sembra comunque destinata a guadagnare sempre più spazio e competitività, come dimostra il grafico del suo andamento di borsa che segnala una congestione di tipo rettangolare all’interno di un trend ciclico a dir poco esplosivo

Greta può così diventare il volano per favorire il più rapido mutamento delle decisioni di acquisto dell’automobilista, a fronte della diversificazione già in atto nei principali brand del settore. Perché è possibile che i nuovi limiti di emissione vengano poi introdotti anche per il parco circolante, obbligandoci così ad una specie di ecotassa generale, spacciata come tributo per la sopravvivenza di ciascuno di noi, ma destinata in primo luogo ad alimentare i business plans delle case automobilistiche. Soprattutto, mi sembra chiaro, quelle del nord Europa, le più provate dalla crisi attuale. Area che comprende la Svezia, dove da tempo era stata sincronizzata la completa sostituzione della gamma di prodotti Volvo in perfetta coincidenza con l’avvento mediatico dell’attivista bambina.

Perciò Greta viene raffigurata diversa dall’archetipo del contestatore anti-sistema, ad esempio Josephine Witt di Blockupy che salta sul tavolo della presidenza BCE durante una conferenza stampa di Draghi esprimendo un’aggressività persino allegra, per quanto innocua.

Lei è invece cupa, seriosa, come un profeta di sventura e come tale la dobbiamo vedere.

Non perché così aumenti la nostra empatia nei confronti suoi e delle sue istanze.

Ma perché dobbiamo convincerci dell’ineluttabilità di nuovi sacrifici, perché il mondo non può più procedere con i ritmi di crescita degli ultimi anni. Che quindi il benessere non è per tutti, anzi sempre per meno, ma che quei pochi che ne dispongono sono comunque fondo i più competenti. E sanno anche essere generosi, come dimostra la pioggia di donazioni promessa dai ricchi del pianeta dopo l’incendio di Notre Dame.

Greta dunque è il simbolo della recessione comunque incombente, che ci obbliga a ridimensionare le nostre aspettative.

Non molto diversa quindi dall’uso che abbiamo visto fare dei minori e della loro presunta causa ogni volta che sentiamo parlare di “fardello del debito” destinato alle “nuove generazioni” o di altre scelte a cui veniamo obbligati.

Quando invece si tratta solo di affari, come sempre.

@luigiluccarini


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