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Prove generali di Troika sull’economia (politica) italiana

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Leggo a un certo punto, nell’ultimo Staff report del Fmi dedicato all’Italia, che “un rallentamento nella crescita globale o ulteriori perdite di competitività potrebbero far deragliare la ripresa export-led”, ossia guidata dalle esportazioni. E finalmente trovo qualcosa di nuovo, per non averlo già letto nei numerosi peana che ci infligge la stampa nazionale che tanto alimentano anche quella internazionale.

La novità, poi, non è tanto che la nostra ripresa sia, o almeno tutti si aspettano che sia, export-led, ma che finalmente leggo il sottinteso degli ultimi due anni scritto a chiare lettere nei documenti di un organismo internazionale che, giocoforza, finirà col diventare l’agenda della nostra vita politica.

Volete un paio di prove?

Il Fmi scrive che un contratto a tutele crescenti aiuterebbe il mercato del lavoro.

Il Fmi scrive che bisogna riformare la giustizia civile.

Entrambi i temi sono entrati nell’agenda della nostra vita politica.

Ora, il punto non è tanto se tali esortazioni siano giuste o sbagliate. Il punto è che dobbiamo, come Paese, farci i conti, perché abbiamo troppi debiti da farci finanziare da gente che i rapporti del Fmi li legge, a differenza di quanto succede in Italia.

Detto ciò, scoprire che il nostro paese sta sperimentando una ripresa, che però ancora non si vede, export-led, implica che dobbiamo puntare sul commercio estero per uscire dalle secche della nostra depressione, esattamente come hanno fatto gli altri PIIGS. E al tempo stesso che dovremmo fare i conti con un robusto consolidamento fiscale per continuare a garantire la sostenibilità del debito.

Ma anche questo lo sapevamo già.

E tuttavia vale la pena leggerlo, questo rapporto, perché ci ricorda alcune cose che il nostro dibattito pubblico tende a sottovalutare, purtroppo.

La prima è che i nostri tassi reali, a causa dell’inflazione declinante, orbitano intorno al 3%: solo la Spagna paga il denaro più di noi, quotandosi il tasso iberico sui prestiti intorno al 3,5%. Vale la pena sottolineare che tale tasso reale, che poi è quello che ci dice sulla sostenibilità dei nonstri debiti, pubblici e privati, era di poco superiore allo 0,5% ancora a settembre 2010 ed è persino diminuito fino al terzo trimestre del 2012, quando ha iniziato, inesorabile, la sua salita.

Quelli che festeggiano il ribasso dello spread, insomma, dovrebbero pure ricordare che è vero, come ci ricorda sempre il Fmi, che è diminuito di 320 punti base dal picco del 2011. Ma è altresì vero che nel 2011 pagavamo un tasso reale sui prestiti inferiore allo 0,5%, mentre adesso siamo decollati al 3%. Colpa del crollo dell’inflazione, certo. Ma, come diceva Totò, è il totale che fa la somma.

Avere tassi reali così alti, a parte danneggiare i conti pubblici, mette a repentaglio quelli privati, a cominciare da quelli corporate. Il Fmi osserva con una certa preoccupazione il livello raggiunto dai non performing loan (NPLs), ossia i crediti in sofferenza presso le banche, e nota che con sistema bancario che deve fare i conti con questa situazione è estremamente difficile far ripartire gli investimenti, autentico tallone d’achille del sistema italiano, ancora sotto del 27% rispetto al livello pre crisi.

Ne sia prova il fatto che le risorse che il governo ha destinato al pagamento dei debiti della PA, circa l’1,6% del Pil al momento in cui scrive il Fmi, non sono state usate dalle imprese per investire, ma per ripagare i debiti. In sostanza, è come se il pagamento dei debiti della Pa sia servito direttamente alle banche e indirettamente al Paese.

Ma poiché dovremmo scommettere sulla ripresa export-led, giova pure sottolineare un altro punto. “La combinazione fra una domanda interna debole e un miglioramento della crescita globale – scrive il Fmi – ha condotto a una diminuzione degli squilibri esteri italiani e a un modesto surplus di conto corrente nel 2013″. Addirittura, “la quota di export globale dell’Italia è aumentata per la prima volta dal 2013″.

Dev’esser questo, mi dico, ad aver generato l’equivoco. Il pensiero voglio dire che un’economia grande come quella italiana possa davvero sostenersi solo con le esportazioni: manco fossimo l’Irlanda o la Svizzera.

Allora mi vado a cercare il grafico che fotografa il rapporto fra investimenti ed esportazioni e osservo che, fatto 100 il livello del 2008, l’export, dopo aver conosciuto un tonfo nel 2009, quando è sceso quasi a 75, non ha ancora, malgrado tutto, superato il livello 95, mentre gli investimenti sono in costante calo, orami sotto 75. Il famoso 27% in meno. E mi riesce difficile capire come potrebbe, un’economia che non investe, recuperare quote di export.

Ma è di sicuro un mio limite. A meno che, certo, non si pensi di migliorare l’export netto semplicemente contraendo la domanda interna. La qualcosa sarebbe vagamente suicida, in un momento deflazionario come quello che stiamo vivendo, con una disoccupazione al 12,3%, cui bisognerebbe aggiungere un altro 2% di lavoratori non ricompresi delle statistiche, e la considerazione che abbiamo una disoccupazione di lungo termine al 58%, 20 punti sopra la meda Ocse.

A fronte di questi dati sul lavoro, abbiamo che i salari nominali sono aumentati dell’1,4%, nel primo quarto del 2014, che significa un incremento reale dello 0,9%. “L’esperienza di altri paesi indica che riprendersi da una bassa inflazione con salari crescenti è più probabile generi disoccupazione”, osserva il Fmi. Ciò sembra voler implicare o un ulteriore peggioramento della disoccupazione o una decisa diminuzione del salari.

Ma soprattutto, un’economia export-led dovrebbe poter contare su un sistema finanziario robusto per sostenere la produzione di merci a basso costo, come insegna la ricetta mercantilista. E invece le nostre banche, oltre ad essere gravate dalle sofferenze interne, soffrono di una notevole esposizione verso i paesi centro-orientali che le rende particolarmente vulnerabili a scossoni di quell’area geografica, come mostra con chiarezza il caso russo-ucraino.

Il Fmi ci ricorda che che oltre ad essere esposti a shock sul versante energetico, visto che importiamo l’80% del nostro fabbisogno, e ai relativi prezzi – un incremento del costo del 15-20% potrebbe far salire lo spread di 100 punti base – lo siamo anche sul versante finanziario, con esposizioni bancarie nell’ordine del 3% del Pil e di investimenti diretti per un altro 1%.

So what? “Ritardi nell’azione politica nazionale, o nelle riforme Ue, o grandi sorprese negative nell’asset quality review (della Bce, ndr) possono minare la fiducia e spingere l’Italia in un brutto equilibrio. E in quanto terzo mercato più grande dei bond sovrani, il contagio esterno potrebbe essere notevole”. Tale contagio inizierebbe propagandosi tramite gli altri PIGS, quindi Portogallo, Irlanda e Spagna e poi, da lì in poi, l’unico limite sarebbe la fantasia.

E così veniamo al punto. Abbiamo seminato obbligazioni pubbliche in mezzo mondo e adesso dobbiamo sostenerne la credibilità, pena un grave e doloroso redde rationem globale. “Rapidi progressi nell’agenda delle riforme potrebbero migliorare la fiducia e l’attività economica, rinforzandosi l’una con l’altra”, ci ricorda il Fmi.

Dobbiamo fare le riforme perché il resto del mondo continui a comprare il nostro debito, visto che siamo seduti sulla bomba che potrebbe far saltare la montagna di capitale fittizio generata in questi anni.

Dobbiamo quantomeno dire che le stiamo facendo e che vogliamo continuare a farle, visto che ancora, come nota il Fmi, le riforme sul mercato e sui prodotti non si vedono.

Al buon cuore del Fmi aiutarci a scriverne l’agenda. Il Fondo ci suggerisce anche le misure da adottare qualora si verificasse lo scenario di un drammatico calo di fiducia: costruire dei buffer fiscali aumentando l’avanzo primario, assicurare il rispetto delle fiscal rule, quindi la regola del debito del fiscal compact, per far aumentare la credibilità, e, dulcis in fundo, “attivare l’OMT se necessario”.

Ricordo ai non appassionati che l’OMT è il programma della Bce che prevede l’acquisto di bond di uno stato sovrano sul mercato secondario a fronte di chiari e certificati impegni dello Stato nazionale a fare “tutto ciò che è necessario”, per citare il nostro governatore della Bce.

Per la cronaca l’attivazione dell’OMT da parte della Bce prelude al coinvolgimento del Fmi, qualora sia necessario un supporto finanziario.

Arriviamo così ai due terzi della Troika. Manca giusto la Commissione europea e poi il gioco è fatto.

Se il mondo si convincerà che i nostri debiti sono più pericolosi del tollerabile, ci manderà la Troika. Intanto, grazie al Fmi, ci ricorda cosa ci aspetta.

Il governo italiano, qualunque esso sia, seguirà.

Piaciuto il post? Scopri The Walking Debt, il blog di Maurizio Sgroi


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