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Politica

MULTICULTURALISMO E INTOLLERANZA

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Il multiculturalismo può essere definito come la situazione di quello Stato che ha al proprio interno più culture – lingue, razze, forme di civiltà, religioni, usanze – trattate tutte nello stesso modo. Naturalmente la cosa in tanto è possibile, in quanto quelle culture siano pacifiche. Se i viola sono convinti che tutti i blu siano da sopprimere, e per questo cercano di ammazzarli, il multiculturalismo non è più ipotizzabile. Infatti, tutti i blu scapperanno o saranno soppressi o nascerà una guerra civile. Oppure, infine, lo Stato si attiverà tanto risolutamente contro i viola, da discriminarli e metterli in condizioni di non nuocere. Tutto, salvo la pace del multiculturalismo.
Se si lasciano perdere i paroloni e si smette di credere che fenomeni vecchissimi siano nuovi, si tratta soltanto di tolleranza e intolleranza. Se le varie fazioni all’interno della nazione – che si amino o che si odino, poco importa – si lasciano vicendevolmente in pace, lo Stato può essere multiculturale. Se invece anche soltanto una delle “culture” ne rigetta violentemente un’altra, all’intolleranza risponde una simmetrica e legittima intolleranza, arrivando ad una soluzione di forza.
Il fenomeno si è già visto nell’antica Roma. Nell’Impero le sette erano innumerevoli, convivevano le culture più diverse e la regola era la tolleranza. Si poteva essere fedeli di Mitra, Afrodite, Geova o Iside, senza che la cosa interessasse a nessuno. I problemi nacquero con i cristiani perché essi si rifiutavano di sacrificare all’imperatore, come facevano tutti. Si trattava di un adempimento in forma religiosa che parificava l’imperatore ad una divinità – cosa cui ovviamente non credeva nessuno – e che corrispondeva a dichiararsi fedeli allo Stato. Questo, agli occhi dei governanti, rese i cristiani gravemente pericolosi per la cosa pubblica. Anche se erano innocenti, i romani credettero di rispondere all’intolleranza con l’intolleranza.
Quando si verificano fenomeni che rendono il multiculturalismo non più praticabile, la storia vi pone fine. Ancora negli Anni Cinquanta del secolo scorso in Tunisia vivevano gomito a gomito, e in perfetta armonia, cristiani, musulmani ed ebrei. Poi cominciò la ventata integralista. Per gli ebrei l’aria fu resa tanto irrespirabile che essi furono costretti a lasciare il posto in cui erano nati e vissuti da sempre, emigrando in Israele. Fu un’ingiustizia, naturalmente: ma pose fine al problema insorto. Né diversamente andarono le cose con gli italiani di Libia o i francesi d’Algeria.
Ma nel Nord Africa europei ed ebrei erano piccole minoranze. Il problema sarebbe stato molto più grave se, per ipotesi, in Algeria i francesi fossero stati il quaranta per cento della popolazione. In casi del genere si possono verificare guerre civili, con i massacri che si sono visti nell’ex Jugoslavia. Tutto questo è innegabile, ma la difficoltà, quando si tratta di esporre i limiti del multiculturalismo, ha origine da una malformazione lessicale. Mentre molte parole hanno il loro opposto (freddo/caldo, lontano/vicino, lento/veloce) senza che uno dei due termini sia necessariamente cattivo e l’altro necessariamente buono, non c’è un opposto neutro ed accettabile di multiculturalismo. Si usa la parola “intolleranza”, e poiché essa ha cattiva stampa, finisce che l’opposizione al multiculturalismo parte condannata dalle connotazioni.
E dire che anche la stessa parola “intolleranza” è calunniata. Per giudicarla bisogna infatti vedere il suo oggetto. Che cosa c’è di sbagliato nell’intolleranza riguardo alla corruzione negli uffici pubblici?
E se l’intolleranza contro il malaffare è una cosa giusta, perché dovrebbe essere sbagliata l’intolleranza nei confronti degli intolleranti? È un semplice atto di legittima difesa, un’esimente che la coscienza comune concede perfino agli animali: se un cacciatore spara ad un elefante ed è poi calpestato dal bestione ferito, chi si sentirebbe di condannare il pachiderma?
Le conclusioni sono ovvie. Il multiculturalismo non deve essere un pregiudizio, un feticcio, un tabù. E neppure un’ubriacatura che appanna la vista. Se, nel Paese, un gruppo – non importa quanto numeroso, purché non prevalente – dichiara la guerra ad un altro gruppo, o in generale alle regole di convivenza accettate, si ha il diritto di metterlo in riga con le buone o con le cattive, inclusa la discriminazione soltanto sulla base della religione o della nazionalità. Cosa di cui hanno dato chiari ed innegabili esempi tutti i Paesi del Maghreb. Dunque che nessuno, dal Nord-Africa e dal Vicino Oriente, osi alzare il dito ammonitore nei confronti dell’Europa. Da loro, come lezione, essa è disposta soltanto ad imparare come si espellono dal Paese le persone indesiderate. Anche se non sono colpevoli di nulla.
Gianni Pardo, [email protected]
24 gennaio 2015


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