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LE TV LOCALI E IL BOICOTTAGGIO DELL’ARTICOLO 21 PERPETRATO DALL’UNIONE EUROPEA. (di Caterina Betti)

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La Costituzione Italiana del 1948 tra gli articoli della sezione “diritti e doveri dei cittadini” presenta uno degli articoli più importanti e, se vogliamo, affascinanti per coloro che seguono l’informazione o producono contenuti per mezzi di comunicazione di vario genere: l’articolo 21. In breve garantisce la libertà di manifestare liberamente con ogni mezzo di diffusione il proprio pensiero, esplicitando l’esenzione della stampa da autorizzazioni o censure e definendo i limiti di questa libertà correlati ai reati inseriti nel codice penale.

Sorvolando i casi legati alla stampa, è interessante avvicinarsi a quelli che poco rientrano nell’informazione quotidiana, i casi attualissimi riguardanti le televisioni locali private che costellano l’Italia già a partire dagli anni ‘70 con il periodo conosciuto come “caos dell’etere” avviatosi dopo la liberalizzazione dell’etere a livello locale da parte della sentenza 202 del 1976 della Corte Costituzionale. Dopo un lasso di tempo di quattordici anni (1990) arriva la prima legge antitrust a regolare l’anarchia data dall’assenza di una legislazione in materia e si susseguono in ordine la legge Mammì, la Maccanico (mai interamente applicata ad eccezione della nascita dell’Agcom) ed infine la legge più problematica sia per la divisione tra operatori di rete e fornitori di contenuti ma soprattutto per la sua nuova normativa antitrust, la legge Gasparri del 2004. L’evoluzione del settore radiotelevisivo di cui poco si sente parlare sui grandi canali di informazione, è piuttosto un’involuzione (ignorata e azzarderei, voluta anche dal sistema europeo come vedremo), dal momento in cui le frequenze assegnate alle emittenti locali private sono frequenze “di scarto”, gli avanzi delle 25 iniziali spartite tra telefonia mobile e reti nazionali. Questo è un enorme problema che porterà nell’immediato futuro (si parla di pochi mesi e già molti fornitori di contenuti hanno dovuto spostarsi su altre frequenze poiché le loro sono state soppresse sulla base di graduatorie poco chiare) alla scomparsa e all’estinzione delle televisioni locali private. Il punto chiave da capire è l’enorme importanza di quelle che non solo sono vere e proprie aziende che danno lavoro a dipendenti, acquistano strumentazioni e danno spazi pubblicitari, ma sono l’espressione innovativa e creativa, grazie allo sviluppo tecnologico in continuo divenire, del pluralismo delle realtà locali che in Italia (e in ogni grande paese) ricoprono un ruolo fondamentale; le televisioni e le radio locali danno spazio alle piccole aziende del territorio che altrimenti non avrebbero visibilità tramite i canali nazionali, promuovono i numerosi eventi regionali o provinciali, svolgono utili ed accurate attività informative in tempo reale, danno modo alle minoranze di esprimersi. Sono l’espressione di piccole ma tanto significative quanto imprescindibili realtà, che si vedono private (e che privano anche tutti i cittadini) di due importanti articoli della Costituzione Italiana che li riguardano, a partire dall’articolo 41, che tutela l’iniziativa economica privata per concludere con l’articolo 21, a difesa della libertà di manifestazione del pensiero.

Che ruolo gioca in tutto ciò il diritto comunitario?
L’art.10 della CEDU (1950) tutela la libertà di espressione assieme all’art.11 Carta di Nizza (2000), niente di più rispetto alla Costituzione Italiana tramite l’art.21.

Quell’Unione Europea che tramite la Commissione detiene il potere legislativo invece? Come interviene su privazioni di diritti di tale entità?
Le uniche direttive (che hanno effetti giuridici sulle legislazioni degli Stati) hanno riguardato ESCLUSIVAMENTE parametri pubblicitari e la digitalizzazione del segnale, dalla 552 dell ‘89, la SMAV del 2007 recepita in Italia dal TUSMAR del decreto Romani, e la 13 del 2010, evidenziando tout court l’indifferenza verso il diritto alla libertà di manifestazione di pensiero.

Un nulla di fatto se pensiamo dunque ai recenti crimini contro le emittenti.

Perché? Per il semplice quanto ripugnante motivo che i Trattati europei NON hanno come obbiettivo la tutela e il miglioramento delle vite dei cittadini degli Stati membri, ma hanno quello della concorrenza e del libero mercato, in cui SE NON TI ADATTI MUORI, a maggior ragione se sei un’azienda atipica come le emittenti locali private che potrebbe fare opposizione all’Unione e a politiche economiche errate, data l’impossibilità da parte dello Stato, divenuto ormai una mera pedina di un progetto criminale, di modificare i contenuti del palinsesto.

Le emittenti locali vengono tenute attaccate ad una flebo per sopravvivere (vivere sarebbe un eufemismo): i contributi statali, ormai scarsi date le ristrette regole del sistema Euro, che distruggono l’idea di trasparenza dell’informazione, la quale dovrebbe essere favorita da una molteplicità di emittenti private e la sottopongono ad un ricatto; in una condizione di crisi profonda quelle briciole che provengono dallo stato (che a sua volta li deve chiedere alla BCE) fanno sì che non si possa far altro che asserire al potere e alla politica economica in vigore, per non essere staccati dalla flebo.

All’interno di una politica economica espansiva e anticiclica queste “particolari aziende” non avrebbero bisogno di contributi statali poiché gli introiti deriverebbero solamente dalle pubblicità delle aziende locali e dai servizi informativi del territorio. Il fatto più triste e sconcertante è notare che il partito che dovrebbe sollevare questi problemi, puntare sul rispetto della costituzione e battersi per un’informazione libera e trasparente, pensa piuttosto ad attirare (ulteriori) sanzioni sull’Italia per la riforma della Rai da parte dell’Unione, la stessa che non garantisce alcuna difesa del pluralismo dell’informazione nè tantomeno dello sviluppo economico.
Della prossima soppressione delle emittenti locali, della correlata perdita di posti di lavoro e della subdola complicità dell’Europa in questo contesto? Nemmeno una parola.

Caterina Betti


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