Seguici su

Attualità

Le magie di Trump: Wall Street ai massimi di tutti i tempi di Marcello Bussi

Pubblicato

il

Processed with MOLDIV

Stando a un sondaggio di Evercore Isi tra gli investitori, nel 2017 il nuovo presidente aggiungerà un rialzo del 16,2% a quello già previsto per l’S&P 500 prima della sua vittoria. E l’Ocse migliora le stime di crescita del pil.

Dall’8 novembre al primo dicembre il Dow Jones ha guadagnato il 4,7%, lo S&P 500 il 2,4%, il Nasdaq l’1,1%. I tre principali indici della borsa di New York hanno toccato i massimi di tutti i tempi. Ecco la catastrofe evocata da troppi blasonati analisti in caso di vittoria di Donald Trump. In un batter d’occhio, echeggiando un comportamento che si ritiene tipico degli italiani, Wall Street è diventata compattamente trumpiana.

Evercore Isi, società di consulenza dell’investment banking, ha pubblicato un sondaggio tra gli investitori da cui risulta che la media tra le loro previsioni vede l’S&P a 2.425 punti alla fine del 2017. La stessa domanda era stata fatta il 3 novembre, quindi prima della vittoria del candidato repubblicano, e l’indice era previsto a 2.087 punti. Da un semplice calcolo risulta quindi che, secondo gli investitori di Wall Street, l’arrivo di Trump alla Casa Bianca vale un 16,2% in più per l’S&P.

La ventata di ottimismo portata dal magnate nuovaiorchese tocca anche l’economia reale. L’Ocse ha subito rivisto al rialzo le stime di crescita degli Stati Uniti: rispetto a settembre il pil 2016 è salito dall’1,4 al 2% e nel 2017 la stima è passata dal 2,1 al 2,5%. Nel 2018, poi, l’economia balzerà del 3%. Il motivo è presto detto: secondo l’organizzazione basata a Parigi, il vasto programma di spese pubbliche promesso da Trump sembra destinato a dare una «spinta all’economia». «Lo stimolo fiscale previsto invertirà il marcato rallentamento della spesa per infrastrutture pubbliche, sceso in mondo sostanziale», ha osservato l’Ocse nel suo Global Economic Outlook, sottolineando che «l’impulso alla spesa per infrastrutture e altri investimenti combatteranno l’ineguaglianza e contrasteranno lo stabile declino nel tasso di partecipazione alla forza lavoro, in particolare di uomini giovani e donne». Incredibile a dirsi, Trump è riuscito a far diventare keynesiana l’Ocse. Una trasformazione in corso anche nel Fondo Monetario Internazionale, le cui prossime stime di crescita saranno di sicuro interesse.

L’effetto Trump si è visto anche sul mercato del petrolio: dopo otto anni l’Opec ha deciso un taglio alla produzione, il cui obiettivo sarebbe quello di mettere un pavimento al prezzo del petrolio in area 45/50 dollari al barile. Mossa resa necessaria dalle politiche sull’energia annunciate da Trump che, mettendo da parte le preoccupazioni ecologiste, è deciso a sfruttare in misura massiccia tutte le risorse custodite nel sottosuolo degli Stati Uniti, riesumando anche il carbone. Una politica che inevitabilmente spingerà al ribasso i prezzi. E così l’Opec, insieme alla Russia, è stata costretta a dare il via libera a un taglio preventivo. Varrà la pena ricordare che la caduta dei prezzi era stata innescata dall’Arabia Saudita, che nel vertice Opec del 27 novembre 2014 aveva deciso di mantenere invariata la produzione con l’obiettivo di mettere fuori mercato i produttori statunitensi di shale oil. Obiettivo fallito. E ora Trump è pronto a rilanciare la sfida energetica.

Borse alle stelle, economia in accelerazione e Opec costretto alla difensiva. Tutto questo prima ancora dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca, in calendario il 20 gennaio. La cosa ha del miracoloso. Evidentemente i mercati, e non solo, sono convinti che il presidente eletto realizzerà davvero il suo programma elettorale. E dire che fino al giorno prima della vittoria la vulgata corrente era che Trump fosse un buffone, quindi un uomo alle cui parole non si sarebbe dovuto prestare fede.

Il programma dell’amministrazione Trump è stato illustrato dal prossimo segretario al Tesoro, Steve Mnuchin, in un’intervista a Cnbc pubblicata il primo dicembre da MF-Milano Finanza. L’ex banchiere di Goldman Sachs trasformatosi in produttore hollywoodiano (nel suo curriculum spiccano Avatar, il film numero uno di incassi nella storia del cinema, e il bellissimo e controverso American Sniper di Clint Eastwood) ha annunciato la più grande rivoluzione fiscale dai tempi di Ronald Reagan, con tagli alle tasse sia per le imprese che per le persone fisiche. E se l’Ocse ha rivisto al rialzo le stime di crescita del pil, quel 3% che l’organizzazione parigina vede nel 2018 è l’obiettivo minimo per Mnuchin, che punta invece ad arrivare al 4%. E dire che prima dell’8 novembre il mondo economico e finanziario sembrava rassegnato alla stagnazione secolare predicata dall’ex segretario al Tesoro di Bill Clinton, Larry Summers. Secondo questa visione una crescita del 2% era già una benedizione. Nel giro di un giorno tutti gli scritti fondati su questa teoria sono stati mandati al macero. Il futuro non è più cupo, si può tornare a sperare.

Il cambio di passo ha subito convinto anche chi vive fuori dagli Stati Uniti: Etsuro Honda, uno dei più stretti consiglieri del premier giapponese Shinzo Abe, si è spinto a dire che le promesse di stimoli all’economia di Trump, se mantenute, potrebbero essere manna dal cielo per la ripresa dell’economia del Giappone. Perfino il senatore ed economista del Pd, Paolo Guerrieri, nel corso di 5 Giorni, la trasmissione condotta da Marina Valerio in onda su Class Cnbc, ha dichiarato che la ripresa americana propiziata da Trump dovrebbe avere effetti positivi anche sull’economia dell’Eurozona. Cosa abbastanza sorprendente se si pensa che il senatore appartiene a un partito solidamente clintoniano.

Tornando all’intervista di Mnuchin, è da sottolineare che il prossimo segretario al Tesoro ha dichiarato di voler modificare la legge Dodd-Frank, per rendere più facile alle banche l’erogazione di prestiti alle piccole e medie imprese. Perché, come ha ripetuto in continuazione Trump nel corso della campagna elettorale, l’obiettivo primario della nuova amministrazione è quello di rivitalizzare l’economia reale, portando così alla creazione di nuovi posti di lavoro. Un messaggio laburista che si è rivelato vincente ed è strettamente legato al tema del protezionismo e della lotta alla delocalizzazione. Nel corso di un comizio in Ohio, il primo dal giorno della vittoria, giovedì primo dicembre, Trump ha proclamato che «le imprese non lasceranno più gli Stati Uniti senza conseguenze. Lasciare il Paese diventerà molto, molto difficile».

Poco prima il presidente eletto aveva raggiunto un accordo con Carrier, una controllata di United Technologies attiva nella produzione di condizionatori e impianti per il riscaldamento, che, in cambio di sgravi fiscali per 7 milioni di dollari, non trasferirà più dall’Indiana al Messico 1.000 posti di lavoro e manterrà negli Usa il quartier generale. Carrier potrebbe essere il prologo di una sfida ben più grossa: Ford ha in programma di costruire un nuovo impianto da 1,6 miliardi di dollari in Messico in cui produrre la Focus. Trump disapprova e ha già cominciato con le punture di spillo, prima fra tutte la nomina di Mary Barra, ceo di General Motors, nel nuovo gruppo di consiglieri economici formato dai numeri uno delle più importanti aziende americane, che si incontrerà periodicamente con il presidente. Vien da pensare che Gm sia stata premiata perché non ha in programma nuove delocalizzazioni. L’amministrazione Trump si presenta rivoluzionaria e Wall Street le dà fiducia. Resta da vedere se l’Europa si sintonizzerà sulle nuove tendenze in arrivo dagli Usa.
Marcello Bussi, Milano Finanza 3 dicembre 2016


Telegram
Grazie al nostro canale Telegram potete rimanere aggiornati sulla pubblicazione di nuovi articoli di Scenari Economici.

⇒ Iscrivetevi subito