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La politica “low cost”, ovvero l’ora del dilettante (e dello squalo…)

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Questo post prosegue il discorso del post precedente sulla democrazia e ne è corollario.

Voi sapete che abbiamo costituito Alternativa per l’Italia, un partito che ha per stella polare del suo programma il recupero del dettato costituzionale del 1948; orbene, e come è giusto che sia, molte persone incuriosite ed interessate ci pongono domande su cosa abbiamo intenzione di fare, cosa ne pensiamo di questo e quello. Una delle domande più frequenti è ormai un classico: “rinuncerete al finanziamento pubblico e vi taglierete gli stipendi?”. Di solito questa domanda, anche se scritta, si percepisce fatta con tono inquisitorio ed a volte con l’aggiunta espressa o sottointesa “voglio capire se siete come la “vecchia politica” o come la nuova ventata di freschezza portata dal M5S”.

Occorre far chiarezza.

Come detto nel post precedente le élite, attraverso la comunicazione da loro controllata, sono riusciti a far accettare l’illogico principio che, per aversi una vera, funzionante, democrazia, il potere deve essere tolto alla politica e data a tecnici o burocrati indipendenti, ovvero loro o i loro controllati. Ciò però non è abbastanza: per eliminare quasi totalmente il pericolo di una vera democrazia, le classi dirigenti sono riuscite a far passare un altro messaggio che si può sintetizzare così: la politica corrompe perché girano tanti soldi facili, quindi per moralizzarla bisogna toglierglieli e per non avere approfittatori ed opportunisti che entrano in politica solo per guadagnare lautamente bisogna abbassare gli stipendi dei parlamentari. Ciò oltretutto eliminerebbe tanti sprechi che farebbero bene all’economia. Scommetto che tanti sentendo questo discorso approverebbero entusiasti e molti di quelli che ce lo domandano si aspettano questa risposta per sentirsi soddisfatti, perché è giusto.

Sbagliato.

Togliere il denaro pubblico ai partiti, a chi vuole fare attività politica attiva, significa semplicemente lasciare la politica ai ricchi. Organizzare e gestire un partito costa, fare attività di informazione sul territorio costa, farsi conoscere attraverso pubblicità e l’organizzazione di eventi costa. Se un partito non ha un finanziamento dallo Stato (giusto ed adeguato, sia chiaro) semplicemente non può agire, a meno che uno o più dei suoi fondatori non sia ricco. Quello che auspica senza saperlo il sostenitore della rinuncia al finanziamento pubblico è una plutocrazia, quindi, ancora una volta, il governo delle élite, le sole che possono permettersi i costi ingenti dell’attività politica.

Veramente ci sarebbe anche un altro mezzo: il finanziamento privato. Tutto bene, quindi, il problema è superato. Non proprio.

Il finanziamento privato è il metodo seguito negli USA, dove i candidati pubblicamente girano per associazioni di industriali, contadini, allevatori e, più privatamente, incontrano lobbies di petrolieri, banchieri, multinazionali varie, per raccogliere sostegno e finanziamento. Ora, credete davvero che questi finanziamenti vengano dati solo perché piace la linea politica del candidato, la sua visione della società? Come è evidente il sostegno economico è barattato con l’aiuto legislativo: un’ammorbidimento dei limiti di inquinamento qui, una facilitazione al commercio là, una commessa governativa lì, la promessa di chiedere e sostenere un provvedimento favorevole per questa o quest’altra categoria. Tutto lecito, se fatto entro certi limiti, ma certo una pressione che rende meno libera l’attività politica.

Anche in questo caso quindi la politica rientra in mano delle élite, per via indiretta, con un patto di mutuo aiuto che vincola soprattutto il candidato ed il suo partito.

Ah, ma si parlava dei risparmi che comunque si otterrebbero: eccoli qui

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ebbene sì: questi sono i reali costi della politica nazionale e locale, paragonati al costo della nostra permanenza nella UEM. L’infografica è del 2014, ma la situazione non è cambiata, anzi è peggiorata riguardo all’impegno del MES, visto che ci costa ogni anno di soli interessi circa 180 milioni di euro (saldo fra attivi e passivi). Qualcuno può seriamente sostenere che tagliando parte dei costi elencati sulla sinistra si possono risolvere o mitigare i costi elencati sulla destra?

Chiarito il compito del finanziamento pubblico adesso affrontiamo quello degli stipendi dei parlamentari. Già dal grafico si dovrebbe capire che stiamo parlando di cifre irrilevanti, rispetto al costo di altri impegni, ma di solito si solleva il problema, perché è una questione di moralità. E allora vediamo.

Gli stipendi dei nostri parlamentari sono indubbiamente alti, se presi paragonandoli a quelli dei Parlamenti di altri Stati europei: l’indennità di un onorevole italiano è poco più di 11.200 euro al mese, contro i poco più di 7.000 di un tedesco, i circa 7.100 di un francese ed i neanche 3.000 di uno spagnolo (senza considerare rimborsi e benefit, non facilmente comparabili. Fonte: Commissione Giovannini 2012). Sicuramente c’è qualcosa da rivedere, visto che i costi totali della politica (tutto l’apparato legislativo, esecutivo e diplomatico) sono un 1% di PIL in più rispetto agli altri grandi Paesi (fonte: ibidem), ma è dimezzando gli stipendi che si risolve il problema? E soprattutto, è davvero un problema?

Analizzando le cifre raccolte per conto del think-tank Vision dalla London School of Economics si ricava un dato interessante: quello che pesa come costi sul Parlamento italiano non è tanto quanto prendono i deputati e senatori, ma quanto prendono gli impiegati. Il Parlamento italiano assorbe più del 40% delle risorse stanziate: “stenografi o commessi” – si legge nel documento – “individualmente arrivano, al massimo dell’anzianità, ad avere stipendi superiori ad alcune delle più alte cariche dello Stato.“. Da tagliare quindi sarebbero al limite questi stipendi e non quelli dei politici…

Ma in ogni caso, la domanda da porsi è: è sbagliato in via generale che un politico parlamentare sia ben pagato (senza eccessi)? La risposta è no.

Come per il finanziamento pubblico, lo stipendio superiore del politico, diciamo posto intorno a 3-4 volte quello del lavoratore medio, ha una funzione: permettere ai migliori di impegnarsi nel governo del Paese ed essere più immuni alla corruzione. Il primo punto è facile da spiegare: chi ha capacità ed intelligenza di solito riesce (o riuscirà) ad eccellere nel suo lavoro e ciò comporta normalmente che goda (o godrà) di un reddito mediamente più elevato. Se si vuole che si impegni a tempo pieno (e non come sinecura, come è successo) nella gestione della cosa pubblica, egli deve abbandonare il suo lavoro (o la sua prospettiva). Anzi, ritengo che l’abbandono di ogni attività lavorativa debba essere un obbligo, per non avere conflitti di interesse. Per convincerlo a ciò evidentemente bisogna che gli si riconosca un reddito almeno simile a quello goduto (o che si aspetta di godere) che serva da incentivo, oltre lo spirito civico, per diventare un politico. Altrimenti il rischio è che si candidino solo i falliti, gli incapaci che vedono in uno stipendio da parlamentare, pur ridotto, un netto miglioramento della loro situazione e che si candidano proprio per questo, oppure i dilettanti, entusiasti, quanto poco adatti a gestire la cosa pubblica. Ciò comporta inoltre che, una volta raggiunto lo scopo, l’incapace non si dedichi al proprio lavoro e comunque non sia adatto ad affrontare la complessità delle materie sottoposte al suo esame, diventando un semplice “prestatore di voto” a comando così come il dilettante volenteroso. Ancora una volta poi un parlamento di incapaci, ignoranti e dilettanti è molto utile a quelli che vogliono far passare provvedimenti a loro utili e magari dannosi per la maggioranza, ovvero le élite. Se qualcuno ha dei dubbi si vada a vedere quello che è accaduto con l’approvazione del famigerato “fiscal compact”: come hanno documentato “Le Iene” alcuni parlamentari non sapeva neanche cosa significasse il termine ed altri plaudivano al pareggio di bilancio come norma moralizzatrice…

E’ chiaro che la prospettiva di un reddito consistente porta ancor più al rischio di candidature scadenti per soldi, ma porta anche la parte migliore a farlo: sarà poi l’elettore a dover scegliere chi mandare, ma almeno avrà una scelta (con le preferenze, ovviamente).

Il secondo punto, ovvero la resistenza alla corruzione, mi sembra scontato. Non c’è bisogno di studi particolari (che pur sono stati fatti) per dimostrare che, almeno la corruzione più spicciola, è scongiurata da un reddito che consenta un buon tenore di vita, unitamente a norme severe che puniscano il corrotto: il rapporto costo (rischio di essere condannato duramente)/benefici (la tangente) sconsiglia di agire disonestamente e rende più oneroso per il corruttore la stessa corruzione. Magari tra quelli che gridano “Stato ladro” ci sono alcuni che agiscono proprio per avere una controparte più malleabile…

In via generale quindi uno stipendio abbastanza elevato di un parlamentare è un beneficio per la collettività, con buona pace dei rigoristi a senso unico.

Capire che determinate battaglie, a prima vista condivisibili, specie in tempi di crisi, nascondono delle insidie e fanno gli interessi di chi non vuole che la democrazia funzioni è fondamentale per la sopravvivenza democratica del Paese: altrimenti diverremo una frugale e sobria colonia.

Luigi Pecchioli – blogger di scenarieconomici.it e vice-segretario di Alternativa per l’Italia – Euro Exit


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