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Euro crisis

LA LEX MONETAE. COME USCIRE DALL’EURO SENZA FARSI ALCUN MALE (di Giuseppe PALMA)

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Un’eventuale uscita dall’Euro del nostro Paese andrebbe valutata anche – e soprattutto – tenendo conto di un importante principio del nostro ordinamento giuridico, ossia quello della Lex Monetae regolato dagli artt. 1277 e seguenti del codice civile.

 

In pratica lo Stato italiano, qualora decidesse di abbandonare l’Euro, dovrà applicare il principio della Lex Monetae in base al quale – scrive il prof. Alberto Bagnai – “uno Stato sovrano sceglie liberamente quale valuta usare”.

Ma andiamo per gradi. Leggiamo l’art. 1277 co. I e II c.c. “I debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento e per il suo valore nominale. Se la somma dovuta era determinata in una moneta che non ha più corso legale al tempo del pagamento, questo deve farsi in moneta legale ragguagliata per valore alla prima”.

 

Questo articolo si applicherebbe qualora deflagrasse l’intera Eurozona con la conseguenza che non vi sarebbe più la moneta unica e quindi questa non avrebbe più corso legale in nessuno degli Stati che vi avevano aderito. In tal caso i pagamenti andrebbero fatti in moneta legale (ad esempio la nuova Lira) ragguagliata per valore all’Euro, e il rapporto di cambio sarebbe uno a uno (il cosiddetto changeover, cioè il cambio “in uscita” e non, come sostengono alcuni sprovveduti, il cambio “in entrata”).

Ciò detto, qualora vi fosse la deflagrazione di tutta l’Eurozona (e quindi la fine dell’Euro), per noi non ci sarebbero eccessivi problemi perché troverebbe applicazione la norma di cui all’art. 1277 c.c.! I problemi sorgerebbero invece – quanto meno in apparenza – qualora ad uscire fosse l’Italia con parallela sopravvivenza dell’Eurozona e della moneta unica.

 

A tal proposito leggiamo l’art. 1278 c.c. “Se la somma dovuta è determinata in una moneta non avente corso legale nello Stato, il debitore ha facoltà di pagare in moneta legale, al corso del cambio nel giorno della scadenza e nel luogo stabilito per il pagamento”.

In tal caso il debitore potrebbe optare di pagare in Euro (e ciò sarebbe una iattura) oppure in moneta legale (la nuova Lira), con il rischio della svalutazione di questa nuova moneta (svalutazione che in tal caso rappresenterebbe un’ulteriore iattura).

Attenzione però! La chiave di svolta ce la fornisce uno dei principi cardine del nostro ordinamento giuridico, ossia lex specialis derogat generali (la norma speciale deroga quella generale), richiamato espressamente e specificatamente in merito a questo tema dall’art. 1281 co. I c.c. “Le norme che precedono si osservano in quanto non siano in contrasto con i principi derivanti da leggi speciali”.

 

Bene! Cosa vuol dire? Ce lo spiega molto chiaramente il prof. Alberto Bagnai in un suo articolo: “Lo Stato ovviamente dovrà, nel decreto di uscita, prevedere una deroga all’art. 1278 c.c. stabilendo che i rapporti di debito e di credito in euro disciplinati dal Codice Civile saranno regolati in nuove lire al cambio previsto alla data del changeover (cioè uno a uno), e non a quella della scadenza del pagamento (che incorporerebbe la svalutazione). Perché dico ovviamente? Perché se non lo facesse condannerebbe all’insolvenza una quantità abnorme di famiglie e di imprese” (http://goofynomics.blogspot.it/2012/09/a-rata-der-mutuo.html).

 

Ciò premesso, chi fa “terrorismo mediatico” contro l’eventualità di un’uscita dell’Italia dall’Euro ignora il principio della Lex Monetae oppure, come credo, è in totale mala fede! Teniamo alta la guardia perché non vorrei che, in una votazione notturna o in un comma “nascosto” degli annuali mille-proroghe, Governo e/o Parlamento modifichino o esautorino gli artt. 1277 e seguenti del codice civile.

 

A tal proposito è bene inoltre che si presti la massima attenzione anche a coloro che – propinandoci soluzioni “miracolose” per uscire dalla crisi – parlano dei cosiddetti eurobond, cioè conversioni del nostro debito pubblico in titoli comuni. E’ pur vero che oggi il nostro debito pubblico è in Euro (che per noi è una moneta straniera perché dobbiamo addirittura prenderla in prestito dai mercati dei capitali privati), ma è altrettanto vero che esso è ancora regolato dalla giurisdizione italiana, mentre – come scrive il prof. Antonio Maria Rinaldi – “con la conversione in emissioni comuni (eurobond), si tramuterebbe in giurisdizione internazionale e non più convertibile in valuta nazionale in caso di uscita poiché non più applicabile il principio di Lex Monetae previsto dagli artt.1277 e 1278 del nostro codice civile. Si tratterebbe dell’abdicazione più totale di qualsiasi residuo di sovranità […]” (http://www.formiche.net/2014/04/08/ecco-cosa-ci-aspetta-le-elezioni-europee-il-micidiale-erf/).

 

Inoltre, qualora l’Italia decidesse di uscire dall’Euro, dovrebbe immediatamente imporre la tassazione in nuova moneta nazionale (es. nuova Lira), esigendo dai cittadini – per il pagamento delle tasse – solo ed esclusivamente quella moneta: in tal modo tutti i cittadini italiani – e più in generale tutti i soggetti economici – sarebbero costretti a cercarsi la nuova moneta (cioè la nuova Lira) al fine di pagare le tasse (su tale questione sia il giornalista economico Paolo Barnard che la ME-MMT sono molto chiari). Prima di questo passaggio è tuttavia necessario che lo Stato prima spenda e poi tassi, altrimenti i soggetti economici non saprebbero come andarsi a procurare la moneta per pagare le tasse con la nuova valuta.

 

Ciò detto, concedetemi una “divagazione tematica”: quando lo Stato tassa dopo aver speso, può decidere di lasciare una parte di quella spesa ai cittadini (tassando meno di quanto ha speso, quindi spendendo a deficit), che costituisce ricchezza concreta per la collettività! Ecco perché il vincolo del pareggio di bilancio è un crimine: se lo Stato si auto-impone il pareggio di bilancio (addirittura per Costituzione come ha fatto l’Italia nel 2012), deve tassare in misura equivalente a quanto ha speso, lasciando ZERO ricchezza ai cittadini. E medesimo discorso andrebbe fatto anche in merito ai vincoli capestro contenuti nel Fiscal Compact (Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria), la cui ratifica è stata autorizzata dal nostro Parlamento nel luglio del 2012. Il Fiscal Compact, infatti, in aperto contrasto sia con il Trattato di Maastricht che con il cosiddetto Trattato di Lisbona, prevede – tra le altre scempiaggini – l’obbligo di non superamento della soglia di deficit strutturale superiore allo 0,5% del PIL (e superiore all’1% per i Paesi con debito pubblico inferiore al 60% del PIL). Questa misura impone a ciascuno degli Stati firmatari di non poter più spendere a deficit, lasciando quindi ZERO – dico ZERO – ricchezza ai cittadini!

 

Se oggi critichiamo giustamente il famigerato parametro del 3% del rapporto deficit/PIL, sappiate che dall’anno prossimo – al più tardi dal 2017 – non ci resterà più neppure quello!

 

Alla luce di tutto quanto sinora premesso appare quindi evidente che l’uscita dell’Italia dall’Euro – qualora avvenisse attraverso un uso corretto del principio della Lex Monetae – non rappresenti affatto un problema, tuttavia – ed è bene chiarirsi sul punto – il solo abbandono della moneta unica non sarebbe una soluzione di per sé sufficiente a risolvere i nostri problemi, infatti – a mio modesto parere – andrebbero adottate ulteriori ed urgenti misure come ad esempio: a) abrogare senza più alcun ulteriore ritardo, attraverso la procedura aggravata prevista dall’art. 138 Cost., la norma costituzionale che prevede il vincolo del pareggio di bilancio (occorre cioè cancellare l’art. 81 Cost. novellato dalla Legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1); b) denunciare i Trattati dell’UE (facoltà consentita espressamente dall’art. 50 TUE); c) pianificare e realizzare un piano di piena occupazione; d) superare definitivamente lo scellerato “divorzio” tra la Banca d’Italia e il Ministero del Tesoro avvenuto nel 1981; e) ripristinare concretamente i “principi supremi” dell’ordinamento costituzionale.

 

Giuseppe Palma


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