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IL PROBLEMA E’ L’EURO, NON L’UNIONE* di Paolo Savona

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Gli ultimi dati economici testimoniano una diversità crescente tra gli andamenti dell’Italia e quelli della Germania. La nostra crescita è pari alla metà di quella tedesca, la disoccupazione è doppia e l’inflazione da noi ristagna, mentre quella tedesca si approssima al tetto massimo del 2%. Un cardine della politica economica è che, per raggiungere due obiettivi, devi attivare due strumenti. Se se ne ha uno solo e si tenta di raggiungere due obiettivi, il fallimento è assicurato. Il Presidente della BCE Draghi, pur abile, non potrà sanare queste divergenze usando il solo strumento della politica monetaria. Se persiste nell’accondiscendenza monetaria può aiutare l’Italia, ma crea problemi alla Germania; se cambia politica va incontro ai bisogni della Germania, ma mette in crisi l’Italia. Quando la politica monetaria perde efficacia deve subentrare la politica fiscale, ma i trattati europei prevedono che essa venga decisa dai paesi membri, ma sottopone a vincoli parametrici le sue scelte, impedendo di fatto questo passaggio di responsabilità. La posizione espressa dalla Commissione europea che in marzo farà una verifica dei conti pubblici italiani conferma la nostra impossibilità di operare con la politica fiscale e imporrà il previsto aumento automatico dell’IVA o nuove tasse, che notoriamente operano in senso deflazionistico. I divari di crescita e di inflazione si amplieranno e la continuazione dell’attuale politica monetaria incontrerà maggiori ostacoli.
Molti analisti considerano che questa situazione costringerà l’Italia a uscire dall’euro o a seguire la strada della Grecia di accettare una sostanziale perdita della sovranità fiscale residua. Altri, considerato l’andamento dell’economia tedesca sintetizzabile da un accumulo di risparmio inutilizzato (misurato da un ingente surplus di bilancia estera corrente, peri all’8,8% del PIL), sostengono che sia la Germania a dover uscire dall’euro. Il Governo tedesco e l’industria esportatrice si oppongono a una tale soluzione, consci che gli accordi europei operano a loro favore, ma non intendono neanche discutere di come eliminare le divergenze, insistendo sulla necessità che l’Italia insista con le riforme. Giusta o sbagliata che sia, questa politica ha già mostrato i suoi limiti di attuazione, causando uno spostamento degli elettori verso i partiti che cavalcano la proposta di uscire dall’euro e porre fine all’esperienza dell’Europa unita. La situazione può sfuggire di mano alle attuali autorità di Governo e non si capisce quale possa essere l’interesse della Germania che l’Europa ripiombi in un conflitto economico di cui non si possono prevedere gli sbocchi. Il vice della Merkel, Sigmar Gabriel, anche se mosso da intenti elettorali, mostra di condividere questa diagnosi.
La moneta europea ha svolto bene il suo compito, andando anche oltre il proprio ruolo e forse anche il dettato statutario che lo regge; ora la BCE deve ammettere che il meccanismo dell’euro così com’è non funziona. Esso è viziato dal fatto che l’eurosistema è un’area monetaria non ottimale, ossia caratterizzata da divari strutturali di produttività che richiedono politiche adeguate per essere tenuta in vita. Giunti a questo punto è necessaria una flessibilità dei rapporti di cambio, senza rinunciare all’euro come termine di riferimento. Tecnicamente è possibile. Gli europeisti “a oltranza” accusano coloro che propongono questa soluzione d’essere perversi svalutazionisti, ignorando i canoni elementari di funzionamento di un’economia a diversi saggi di crescita. Se non si raggiunge l’accordo per una terapia alternativa alla flessibilità del cambio, la situazione giungerà alla rottura, anche considerato che esistono due micce accese: l’immigrazione illecita e le crisi bancarie. È giunto il momento che la BCE dichiari apertamente che così non può andare avanti. I suoi interventi hanno permesso di acquistare tempo, ma non di risolvere il problema. Dica che anche l’euro debba essere riformato. Se non si vuole l’unione politica, si decida almeno come affrontare la perdita di consenso a causa del disagio sociale, prima che succeda l’irreparabile. L’alta dirigenza politica italiana spera di evitare la deriva che bolla come populista con un’invenzione elettorale o una ripresa che non viene, perché non può venire. Poiché, come disse Carli, gli italiani non sono cretini, come i greci hanno già dimostrato di non esserlo, e attendiamo di sapere dai cugini francesi se anch’essi non lo sono, si spera che lo scossone non arrivi. Affidarsi alle speranze e non a scelte di cambiamento della governance europea non sembra un atteggiamento dignitoso dei Governi nazionali, specificatamente di quello tedesco, leader malgré elle. Aiuterebbe a trovare una soluzione se Il Consiglio dei Capi di Stato e di Governo inquadrasse i problemi dell’eurosistema nella dinamica geopolitica e geoeconomica che incombe sull’Europa, dagli Stati Uniti alla Cina, passando dalla Russia e dal Medio Oriente (per indicare solo alcune aree perché il mondo è in subbuglio).
Paolo Savona, MF 10 gennaio 2017

*”Abbiamo preso il titolo del commento che John Weeks, professore emerito all’Università SOAS di Londra, ha pubblicato su Social Europe del 9 gennaio 2017, nel quale riporta confronti tra paesi nell’euro e paesi fuori, che confermano le tesi di Paolo Savona che l’euro va riformato prima che crolli l’intera costruzione del mercato comune.”


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