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I TROPPO LUOGHI COMUNI SULLA CRISI GRECA: INIZIAMO A SFATARLI? PRIMA PARTE (di Francesco De Palo)

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La crisi ellenica, oltre a certa sciatta informazione fatta, come troppo spesso accade in Italia, un tanto a chilo, porta con sé anche una serie di luoghi comuni e di certezze dogmatiche su cui, forse, andrebbe spesa qualche parola. Non tanto per convincere il pubblico a convergere su una tesi o su un’altra (informazione libera si fa infatti senza propaganda ma con il dibattito), ma quantomeno per leggere il problema greco con lenti “libere” da intrecci e interessi precostituiti. Che fanno solo danni, tanto a chi propone quanto a chi prende con i paraocchi solo ciò che passa il convento.

Alcuni commentatori continuano a sottolineare come il default ellenico non convenga, né a Bruxelles né ad Atene. In parte, ma solo in parte, è vero. Il default nel 2012 avrebbe avuto l’effetto di gravare su quegli istituti di credito, tedeschi e francesi, che detenevano i titoli spazzatura. Oggi il conto più salato lo pagherebbero gli Stati che hanno prestato denari alla Grecia, come l’Italia che è esposta per 40 miliardi di euro: più o meno il valore dell’Imu. Ma guardando il panorama in prospettiva, quel default potrebbe invece segnare una svolta. Fino ad oggi gli Stati e la stessa Ue sono stati visti come una macchina da oliare e da correggere in corsa. Ma se invece fossero sin dall’inizio stati considerati alla stregua di un’azienda privata, solo il mercato ne avrebbe decretato pregi e difetti.

La Grecia, se fosse un’azienda che produce chiodi, sarebbe già fallita e anziché arrovellarsi da quasi un quinquennio su scorciatoie, memorandum e fughe in avanti, oggi sarebbe potuta essere già una cosa nuova. Ricominciare, ricostruire, modernizzare: ecco i tre verbi da utilizzare dopo un crack. Atene produce pochissimo, non ha una politica industriale, grazie alla miopia corrotta dei suoi governanti importa praticamente di tutto. Al netto delle macerie di oggi, però, c’è tantissimo margine di miglioramento per la semplice ragione che c’è tutto da fare. Una moneta interna diversa dall’euro, sì svalutata ma allo stesso tempo fiscalmente sexy, potrebbe favorire investimenti, avviare quelle produzioni che oggi moltissimi hanno delocalizzato in Cina o India, favorire una nuova business community del Mediterraneo anche grazie, se lo vorrà, al Qe della Bce da allargare anche alla Grecia.

In questo modo, e solo in questo modo, l’Europa potrà dire di aver veramente aiutato la Grecia, non proseguendo nella strategia di prestiti che servono esclusivamente a saldare i vecchi e a pagare interessi milionari. Ma investendo su prospettive e margini futuri. Quanto a Tsipras, al netto di errori, sterzate e incespicamenti figli di posizioni ideologiche personali, non ha altra strada se non alzare un muro sulle Termopili come fece Leonida contro Serse e il suo sterminato esercito persiano. In primis perché un altro memorandum, figlio dei precedenti, avrebbe come effetto un indebitamento perpetuo e altre tasse che raderebbero al suolo ciò che resta del Paese. In secondo luogo perché, proprio la piccola Grecia con il PIL pari a quello di un paio di province del nostro Triveneto, paradossalmente sta mettendo in crisi un meccanismo più grande e che fino a ieri sembrava inespugnabile. Salvo oggi renderci conto che di sola austerità e di isolamento a oriente si muore.

Francesco De Palo

Twitter@FDepalo

 


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