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I costituzionalisti ci fanno l’appello. Ma in passato chi furono gli assenti?

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In Italia, gli appelli sono come il Natale di Renato Pozzetto: quando arrivano, arrivano. E quando arrivano significa, di solito, che c’è un cambio di stagione nella politica italiana. Più precisamente, gli appelli si infittiscono quando l’elettorato vira da sinistra a destra ovvero dal rosso al blu o dai cosiddetti progressisti ai sedicenti antagonisti dei progressisti. Insomma, ci siamo capiti. Non che tra gli uni e gli altri ci sia tutta questa differenza, beninteso. Però, di solito gli “altri” – ovverossia tutti quelli che non rientrano nel novero della sinistra a matrice e trazione prima PCI, poi PDS, poi PD – non godono affatto di buona stampa e di degna considerazione. Soprattutto nei salotti progressisti, nei think tank progressisti, tra gli opinionisti progressisti. I quali, beati loro, rappresentano la stragrande maggioranza dei gangli di potere (“intellettuale” e comunicativo) in grado di produrre o condizionare (o entrambe le cose) la famosa pubblica opinione.

In questo contesto di appelli, la parte del leone la fanno ovviamente gli intellò. Non si contano, nella storia italica, gli appelli della nostra intellighenzia, alla nostra intelligenza, per tante cause, più o meno buone, ma certamente e quasi sempre “buone” per una precisa parte politica. Ora, però, le cose si fanno serie e il gioco si fa duro. E quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare, si diceva una volta. Oppure sottoscrivono un appello. Nel nostro caso lo fanno i costituzionalisti mettendo in campo  una squadra nutritissima, e probabilmente imbattibile, di ben cento ottantaquattro unità. I nostri l’hanno messa giù dura, appunto, contro  la riforma costituzionale  proposta dal Governo Meloni. Qui però, si obbietterà, non c’è alcuna pregiudiziale ostilità di natura ideologica di cui non potrebbero essere sospettati i costituzionalisti; come accade, invece e per quanto anzidetto, nel caso degli appelli colti e alti di scrittori, attori e affini. Qui, ci sarebbe una pura contestazione di carattere giuridico.

Ma va pur notato che essa “converge”, o è consonante, con gli strali della cosiddetta sinistra (va da sé: colta, alta e naturalmente progressista) nei confronti della liberticida, irresponsabile, illegittima – e magari anche un tantino fascista – riforma del Governo Meloni sulla elezione diretta del Presidente del Consiglio. Voi direte: perché mai “fascista”? E potreste aggiungere: quando mai attribuire maggiori poteri ai cittadini nella scelta del proprio massimo rappresentante costituirebbe un attentato alla democrazia? E perché mai impedire finalmente (di fronte a una crisi di Governo) i giochetti di palazzo, i ricami quirinalizi  e gli immancabili conseguenti ribaltoni,  dovrebbe integrare un vulnus alla nostra Costituzione?

Ma voi – scettici e incompetenti esegeti di cotanto appello –  siete anche ingenui. Confondete la democrazia con il “potere” del “popolo sovrano”: una filastrocca per bambini non “studiati”. Quelli avveduti, invece, quelli ferrati sulla Costituzione vedono cose a voi ignoranti precluse. E sanno che la democrazia è una faccenda di “pesi e contrappesi” per cui (leggiamo dall’appello) “la creazione di un sistema ibrido, né parlamentare né presidenziale, mai sperimentato nelle altre democrazie, introdurrebbe contraddizioni insanabili nella nostra Costituzione”. Può essere, anzi sicuramente è così, se così recita l’appello. A maggior ragione se si considera la “rarità”, e quindi, il pregio di tale intervento evidenziato proprio in un passaggio del medesimo: “Non è frequente che i costituzionalisti, i cultori professionali della Carta, prendano posizione collettivamente sottoscrivendo pubblici appelli. Molti di loro sono più favorevoli a prese di posizione individuali, magari nello spazio più protetto delle aule universitarie o in audizioni o convegni. Ci sono però dei momenti nella vita di un Paese nei quali il progetto di cambiamento delle regole fondamentali assume un significato preoccupante”.

Ora, concediamo senz’altro che, con l’appello in questione, non c’entri nulla il “colore” e l’estrazione del Governo autore della schifosissima schiforma. E diamo per buono che sia questa  l’ora funesta in cui rischiamo, dopo un secolo, di scorgere il fascio littorio protendere la sua lugubre ombra sui colli fatali di Roma. A ruota del fascio, sorge però la proverbiale e spontanea domanda: ma è davvero il primo momento, nella storia più o meno recente d’Italia, in cui urge un allarme costituzionale? Davvero, non ce ne sono stati altrettanti, e altrettali, di periodi ancor più gravi, nonché gravidi di torsioni illegali al più alto livello della gerarchia delle fonti,  in cui una consimile istanza non solo si giustificava, ma si imponeva date le circostanze?

Per esempio – e lo diciamo così, di passata, senza pretesa alcuna di esaustività – non era una buonissima occorrenza anche la firma dei trattati di Maastricht prima e di Lisbona poi? E, quindi, la patente, formale e sostanziale violazione dell’art. 11 della nostra Suprema Carta laddove la medesima (consentendo le “limitazioni” di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni) pacificamente esclude le “cessioni” di sovranità? Quelle, per intenderci, con le quali è stata progressivamente, e irrimediabilmente, spolpata, depotenziata e oltraggiata la Repubblica attraverso il “consolidamento” della costruzione unionista? E non rappresentava un’altra buonissima occasione la riforma dell’art. 117 della Costituzione, avvenuta con l’art. 3 della Legge Costituzionale (molto “progressista”, in effetti) dell’8 ottobre 2001, n. 3? Con essa, si rammenterà, si  decise di “costituzionalizzare” la subordinazione della potestà legislativa dello Stato (e, quindi, per derivazione, della sovranità popolare di cui all’art. 1) ai “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”.

E, magari – lo si chiede così, sommessamente, con tutta l’umile e schietta avventatezza del volgo – non costituiva una opportunità strepitosa per un altrettanto strepitoso appello, da parte di giuristi impegnati e attenti, la riforma (con legge costituzionale del 20 aprile 2012 n. 1) degli art. 81, 97, 117 e 119 della Costituzione con cui fu introdotto quel “monstrum” (rectius: quel vero e proprio feticcio per babbei) rappresentato dal c.d. “pareggio” di bilancio? Grazie al quale si impedisce allo Stato – in linea di principio e salvo fortuite eventualità esterne o graziose concessioni altrui –  di ricorrere all’indebitamento: vale a dire a quello strumento tipico, anzi imprescindibile, per qualsiasi nazione realmente sovrana, di immettere liquidità nel sistema e di innescare fasi espansive del ciclo economico? Riforma, sia detto per completezza, solo suggerita ma non imposta (per via costituzionale) dall’Unione europea. Attenzione: che il pareggio di bilancio sia una follia non è un’opinione da bar. Lo hanno “strillato” nelle orecchie dell’allora Presidente USA Obama ben cinque premi Nobel (Kenneth Arrow, Peter Diamond, William Sharpe, Eric Maskin, Robert Solow): «Una scelta politica estremamente improvvida… [con] effetti perversi in caso di recessione. [… ] Nei momenti di difficoltà diminuisce il gettito fiscale e aumentano alcune spese tra cui i sussidi di disoccupazione. Questi ammortizzatori sociali fanno aumentare il deficit, ma limitano la contrazione del reddito disponibile e del potere di acquisto».

Ad ogni buon conto, e per concludere, non era un ottimo momento per un appello dei costituzionalisti la riforma di Renzi del 2016 con la quale la Costituzione veniva non già ritoccata, ma addirittura sventrata nella sua seconda parte con un profluvio di articoli arzigogolati, logorroici e di dubbia “coerenza” costituzionale?

Ecco, ci fermiamo qui, ma solo per ragioni di spazio, e per non parlare del fiscal compact o del MES. Certamente dimentichiamo molte altre occasioni mancate. Giusto per dirla con le parole impiegate nell’appello odierno, ci riferiamo a quei “momenti nella vita di un Paese nei quali il progetto di cambiamento delle regole fondamentali assume un significato preoccupante”.

Ma forse, anzi certamente, ci stiamo sbagliando. Non vi è mai stato alcun rischio di alcun tipo in nessun precedente momento trascorso della nostra storia patria successiva al primo gennaio del 1948. Furono tutti mutamenti delle regole perfettamente legittimi e assolutamente “non preoccupanti” per la tenuta democratica del Paese. O forse, chi può dirlo, è proprio perché di ciò siamo stati persuasi – in assenza di appelli propizi da parte  di chi poteva e doveva lanciarli – che ci ritroviamo oggi in uno Stato così simile a una SRL. Anzi a una RSL: una Repubblica a Sovranità Limitata.

Francesco Carraro

www.francescocarraro.com


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