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“I costi del Sì” di Franco Mencarelli

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La riforma costituzionale sottoposta a referendum si incentra con tutta evidenza su tre punti principali.

Vi è anzitutto il superamento del cosiddetto bicameralismo paritario o perfetto, come delineato dalla Costituzione nel 1948, per cui in sostanza si è resa necessaria l’approvazione dei provvedimenti legislativi nello stesso testo da parte di due Camere espressioni di elettorati diversi, per età degli elettori e per il collegamento, nel caso del Senato, alle realtà regionali.

Scelta questa legata non solo alle esigenze di cautela che ispirarono le forze politiche dell’epoca partecipi dello scontro tra comunismo e democrazie occidentali, ma anche all’insorgere di movimenti separatisti tali da incidere sulla stessa unità nazionale e ai quali si era già cercato di rispondere con lo statuto siciliano del 1946. Di qui anche l’articolo 5 della Costituzione con cui si afferma che la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali, attuando in ispecie il più ampio decentramento amministrativo.

Peraltro al bicameralismo paritario si è imputato ben presto il fatto di essere troppo farraginoso e quindi di impedire, per mezzo dell’abuso defatigatorio della navette, l’adozione dei provvedimenti legislativi in grado di fronteggiare tempestivamente i bisogni del Paese. A tale giudizio – di cui peraltro non è facile comprendere il fondamento alla luce di una produzione legislativa superiore a quella di altri paesi quali Spagna, Francia Germania – si sono comunque conformati tutti i tentativi di riforma del sistema a partire dalla commissione Bozzi, anche se, nell’ intanto, i regolamenti parlamentari hanno introdotto molti correttivi e miglioramenti alla situazione. Restando ad ogni modo non chiarita la ragione per cui i regolamenti delle due camere abbiano sempre rifuggito dall’adozione dell’istituto della sessione parlamentare comunemente adottato dalla maggior parte dei Parlamenti, in quanto strumento che sulla base del programma di sessione, arriva a sveltire fortemente il lavoro parlamentare implicando l’approvazione o meno dei provvedimenti contenuti nel programma entro i limiti temporali predeterminati della sessione.

Strettamente collegato al primo è il secondo punto, laddove si incentra sulla Camera dei deputati la parte rilevante dell’attività legislativa, affidando ad essa altresì il rapporto fiduciario con il Governo; mentre il Senato assume la funzione di rappresentanza delle “istituzioni territoriali” – e più precisamente delle Regioni, dei Comuni e delle Città metropolitane – e in quanto tale viene a far parte del Parlamento con funzioni legislative a livello paritario con la Camera (per le leggi di revisione della Costituzione e leggi costituzionali, per le leggi che disciplinano i Comuni e le Città metropolitane e soprattutto, per la legge che stabilisce le norme generali regolanti la partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa delle politiche dell’Unione europea) ovvero in via non paritaria, restando, al di là delle varie tipologie di procedimenti legislativi, la decisione finale di competenza della Camera dei deputati. Funzioni alle quali si aggiunge la partecipazione all’elezione tra l’altro del Presidente della Repubblica e dei giudici costituzionali: cioè di fondamentali organi di garanzia.

Il bicameralismo “asimmetrico” così dunque impostato dovrebbe rendere più snello l’iter di approvazione delle leggi, distinguendo tra i casi limitati ove occorre una doppia deliberazione conforme delle Camere, da quelli in cui sussiste una generale prevalenza della Camera dei deputati, consentendosi nel contempo al Senato di richiamare tutti i provvedimenti legislativi in itinere nella prospettiva di fornire una garanzia tale da impedire eventuali colpi di mano della maggioranza della Camera dei deputati.

Il terzo punto qualificante della riforma riguarda il disegno di razionalizzazione e contenimento della potestà legislativa delle Regioni con la riduzione del ruolo delle stesse nell’assetto costituzionale. Questo come conseguenza di una riscontrata cattiva utilizzazione dei poteri legislativi attribuiti alle Regioni, che hanno finito, secondo i sostenitori della riforma, con l’assumere essenzialmente in alcune materie, soprattutto quelle relative alle infrastrutture nazionali, una funzione oppositiva e ritardatrice

A questi punti, che delineano una profonda modifica dell’assetto costituzionale italiano, ne va aggiunto un altro che attiene, sia pure indirettamente, al ruolo del Governo. Infatti l’aver accentrato presso la Camera dei deputati la funzione prevalente di guida del sistema – sono i deputati a votare la fiducia quindi collocandosi in un rapporto diretto con il Governo – mediante il forte accrescimento delle competenze legislative anche in ragione della drastica riduzione delle materie – oltre 50 affastellate sotto 21 lettere del nuovo articolo 117 – già di competenza regionale implica che il Governo titolare della fiducia votata dai deputati sembrerebbe in grado di gestire e dirigere con fermezza la parte prevalente dell’attività legislativa ordinaria, in questo senso supportato dall’attribuzione di un proprio potere di iniziativa che si estrinseca nella previsione di disegni di legge attuativi del programma governativo da approvare da parte dell’assemblea entro 70 giorni dalla deliberazione di urgenza. Donde anche il superamento degli inconvenienti del ricorso ai decreti legge, caratterizzati da una parte da i limiti temporali di conversione più ampi e dall’altra legati ai precisi vincoli della necessità e dell’urgenza.

Di qui in conclusione la sostanza dell’affermazione secondo cui la sera delle elezioni per la Camera dei deputati si conoscerebbe l’effettivo titolare del potere di guida del Paese.

La descritta riforma costituzionale si presta tuttavia a delle gravi obiezioni tali da prospettare l’impossibilità stessa di agibilità del nuovo sistema.

Una prima naturale obiezione attiene all’interrogativo fin qui non chiarito se la nuova dislocazione delle competenze tra Stato centrale e Regioni importi o meno dei costi.

Al riguardo va anzitutto rilevato che il deciso revirement, rispetto al 2001, dei rapporti tra Stato e Regioni, non può prescindere dalla ovvia necessità di riordinare, uniformandolo, tutto il complesso di normative fin qui emanate anche a livello legislativo dalle Regioni.

Operazione che non si presenta, già all’immediatezza, di facile realizzazione. E non solo per la complessità della materia e l’esigenza di rispettare diritti e situazioni insorti sulla base delle singole legislazioni regionali, ma, e soprattutto, per gli indirizzi nel frattempo tracciati, attraverso innumerevoli pronunce, dalla Corte Costituzionale, che hanno dato luogo, specie in riferimento al quadro delineato dalla riforma costituzionale 2001, ad un complesso di principi derivati dalla natura stessa delle Regioni – e dei comuni – e dai rapporti di questi con lo Stato.

Una giurisprudenza, che, pur arrivando sovente a restringere l’ambito dei poteri delle Regioni, ha sempre trattato queste, nonché i comuni, sostanzialmente come enti originali dell’ordinamento e non di natura derivata, caratterizzati quindi da una capacità espansiva dei propri poteri, limitandosi quindi ad una mera azione di contenimento sulla base del richiamo alle superiori esigenze del rispetto dell’unità dell’ordinamento e della leale collaborazione fra gli organi costituzionali. Impostazione questa con tutta evidenza recepita dal nuovo articolo 55 della Costituzione ed anzi in qualche modo superata: qui si precisa infatti che il nuovo Senato “ rappresenta le istituzioni territoriali ed esercita funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica”, superandosi per tanto decisamente il dettato dell’articolo 5 della Costituzione, per il quale “la Repubblica, una ed indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali”.

Dal che emerge tuttavia una questione che non può essere ridotta a mera disquisizione terminologica, giacché non si può non tenere conto del fatto per cui l’utilizzazione del termine “istituzioni territoriali” nei nuovi articoli 55 e 57 della Costituzione non ha più quella valenza di sinonimo di autonomie territoriali, sovente utilizzato anche dalla Corte Costituzionale. Infatti il testo sottoposto a Referendum non solo stabilisce che il Senato e i senatori sono “rappresentativi delle istituzioni territoriali”, ma precisa altresì quali sono le istituzioni territoriali – Regioni, Comuni, città metropolitane e, con tutta evidenza, i consigli delle Province autonome di Trento e Bolzano – dando ad esse funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti della Repubblica. Non più quindi autonomie locali ma soggetti che vengono a porsi con una loro specifica valenza di momenti costitutivi dello Stato.

Donde il sorgere dell’interrogativo se questa parte della riforma non violi l’articolo 139 della Costituzione, laddove si reca il divieto di sottoporre a revisione la forma repubblicana, prospettando il passaggio dalla Repubblica una ed indivisibile di cui all’art. 5 alla Repubblica articolata su istituzioni territoriali aventi natura non derivata.

E che l’interrogativo abbia un concreto fondamento lo rivela il nuovo testo dell’art. 117, con il quale si introduce una clausola di supremazia secondo cui la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva dello Stato medesimo, quando lo richieda la “tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica”.

Con ciò evidenziando, al di là della drastica riduzione delle competenze regionali, il permanere in capo alle istituzioni territoriali una capacità di intervento espansiva e di non facile contenimento nel sistema.

Su tali premesse appare facile la previsione, in caso di accoglimento referendario, di un lungo e complesso processo di adattamento di questa parte della riforma, per gli inevitabili contrasti e problematiche, risolubili solo davanti alla Corte Costituzionale, conseguenti all’introduzione nella nostra Carta delle istituzioni territoriali.

L’impostazione descritta della riforma ha, oltre ai profili normativi, evidenti ripercussioni sullo stesso livello organizzativo delle strutture regionali e dello Stato centrale.

È così facilmente prospettabile la situazione per cui le 15 Regioni a statuto ordinario – le sole oggetto della drastica riduzione di competenze rispetto a quelle a statuto speciale, con ulteriori problematiche circa l’accettabilità di una simile disparità – davanti alla non chiara evidenziazione di quali siano le loro effettive attribuzioni, attesa la prospettiva in cui si vengono a collocare in qualità di istituzioni territoriali rappresentate dal nuovo Senato, avranno grosse remore nello smantellare fino al momento di un definitivo chiarimento le strutture amministrative deputate ai settori coinvolti dalla riforma operata con il nuovo accentramento statale.

Ma qui emerge una ben più grave questione riguardante le implicazioni organizzative e finanziarie della riforma di questo punto della riforma.

Appare infatti del tutto evidente che nella specie – anche a voler dare ampio spazio ad ogni forma di delega alle Regioni interessate in ordine all’applicazione degli indirizzi e delle normative dettate dallo Stato centrale una volta superati i complessi ostacoli sopra rilevati – sarà necessario operare, al fine di realizzare comunque un controllo della situazione a livello locale, un nuovo decentramento su base regionale delle strutture ministeriali interessate. Quindi una vera e propria marcia indietro rispetto allo smantellamento degli uffici ministeriali effettuato nel passato a seguito soprattutto della riforma del 2001.

Il che implica costi organizzativi ed economici certo non indifferenti, e ovviamente non fronteggiabili mediante il ricorso agli strumenti di delega in via amministrativa già sperimentati al tempo delle leggi Bassanini anticipatrici in via amministrativa della gestione delle funzioni attribuite allo Stato. Leggi caratterizzate inevitabilmente da una faticosa complessità, superata all’epoca anche in grazia di una forte disponibilità e collaborazione da parte delle Regioni in vista del futuro trasferimento alle stesse della piena competenza sulle materie oggetto delle deleghe.

Disponibilità questa all’attualità ottenibile naturalmente con una certa difficoltà davanti alla drastica riduzione dei poteri regionali.

Tanto più se si considerano una serie di complesse e gravi questioni emergenti sotto il profilo finanziario.

In tal senso va così considerato che stante il mancato turn over dei dipendenti dello Stato, per l’indispensabile reintroduzione e ampliamento delle strutture ministeriali a livello locale, richiesti come si è visto dalla riforma saranno inevitabilmente necessarie, in tempi oltretutto relativamente brevi, nuove assunzioni. Assunzioni che – davanti ad un numero di circa 300/400 dipendenti utilizzati mediamente (stima assai contenuta) da ogni singola Regione per espletare le funzioni da restituite allo Stato centrale – richiederanno un numero doppio di addetti rispetto a quelli regionali, attesa la diversa e più ampia articolazione di competenze discendenti dal riferimento ai ministeri di volta in volta coinvolti nell’attività.

Dunque un sicuro aumento della burocrazia statale, cui si dovrà aggiungere il costo dei locali e delle attrezzature indispensabili per la allocazione degli addetti trasferiti nei territori.

Il tutto, contenendo la valutazione entro limiti minimi per altro difficilmente rispettabili, per un importo complessivo annuo di 150 milioni di euro: valutando in almeno 30 000 euro lordi annui la retribuzione dei singoli addetti ministeriali, inferiore d’altra parte di circa il 30% rispetto ai corrispondenti addetti regionali, con retribuzione media annua di circa 50.000 euro lordi. Al che va aggiunta la spesa, per attrezzature e locali, di altri 150 milioni di euro, per un importo medio annuo di 10 milioni di euro per ogni Regione a statuto ordinario.

Davanti a tale impegno finanziario dello Stato si pone altresì il peso sostenuto da parte delle Regioni a statuto ordinario, in un periodo di tempo sicuramente prolungato, per i propri dipendenti addetti ai settori oggetto del trasferimento dei poteri di cui si discute e, nelle varie situazioni, da reimpiegare altrove o scarsamente utilizzabili e nel frattempo inevitabilmente destinati a fronteggiare la gestione delle funzioni in corso di trasferimento allo Stato: il tutto, secondo una stima approssimativa, per un importo di circa 200 milioni di euro complessivi.

Ci si trova dunque davanti ad interventi che valgono per le pubbliche finanze circa 500 milioni di euro annui, secondo una valutazione chiaramente prudenziale, e destinati, per quanto riguarda le Regioni, a protrarsi per un periodo di tempo certamente non breve, restando invece permanenti per la parte che concerne lo Stato.

Va pertanto considerato che, davanti ai 100 milioni di euro stimati dalla Ragioneria dello Stato come risparmi annuali a seguito della riforma del Senato, di contro, con l’approvazione del referendum, viene ad emergere, tenendo anche conto dell’inevitabile aggravarsi dei costi degli interventi soprarichiamati, un impegno finanziario annuo intorno agli 800/900 milioni di euro per fronteggiare appunto le spese immediatamente riferibili alla nuova articolazione dei rapporti tra Stato e Regione. Conferma le grandezze della stima la necessità di tener conto di tutti gli oneri indiretti: dai ridotti proventi della gestione dei tributi trasferiti allo Stato in relazione alle materie oggetto di trasferimento, a quelli riscossi dai comuni nell’attività delegata dalla Regione nelle stesse materie, come nel caso ricorrente dell’istruzione delle pratiche relative, per cui vengono richiesti spesso agli interessati contributi che superano anche 140 euro.

La conclusione in oggetto rischia d’altronde di risultare assai parziale ove ci si lasci fuorviare dal silenzio tenuto nel dibattito parlamentare in ordine alle conseguenze finanziarie di ben più vasta portata connesse a questo imponente trasferimento di competenze dalle Regioni allo Stato, certo non limitate ai costi legati strettamente ai profili organizzativi.

Si tratta di una questione grande importanza da analizzare attentamente sia perché non si rinviene alcuna valutazione tecnica degli effetti del venire meno dei trasferimenti operati fin qui dallo Stato a favore delle Regioni per l’adempimento delle funzioni svolte da queste in precedenza, sia perché occorre tener conto dell’influenza che questo venir meno dei trasferimenti può avere sulla problematica del federalismo fiscale, la cui definizione procede faticosamente a causa in .particolare delle difficoltà incontrate nella definizione dei costi standard.

A tale questione non può far velo ritenere che la sostanza del nuovo articolo 117 si limiti ad un mero spostamento di competenze al solo livello legislativo, quando appare ben chiaro come non solo tale spostamento abbia profonda incidenza sul conseguente diverso articolarsi, secondo quanto già rilevato, delle strutture organizzative dello Stato e delle Regioni, ma soprattutto esso involga la materia dei trasferimenti operati a favore delle Regioni per le funzioni che dovranno essere invece esercitate dallo Stato.

Anzitutto un dato: sono circa 20- 30 miliardi di euro annui quelli fin qui tratti dai singoli capitoli di bilancio dei ministeri, in riferimento alle materie di competenza, per essere destinati ai relativi trasferimenti a sostegno delle funzioni esercitate dalle Regioni .

Cifra purtroppo non quantificata con precisione sia per i continui tagli cui i trasferimenti sono stati soggetti in ragione delle manovre di finanza pubblica sia per la diversa dinamica che ha contraddistinto le singole poste in bilancio.

Comunque in proposito si può osservare che la riforma non potrà con tutta evidenza non portare ad una riduzione di trasferimenti con la sottrazione di ingenti risorse al circuito regionale tanto per quanto concerne il profilo dei benefici che alla finanza locale non possono non derivare dalla gestione di tali flussi tanto per quanto concerne la maggiore elasticità dei bilanci regionali cui vanno aggiunti i positivi effetti connessi alla tendenziale movimentazione in sede locale della allocazione delle risorse.

Si aggiunga che, a seguito dei tagli operati anche sui trasferimenti in questione alle Regioni in conseguenza delle politiche di contenimento delle spese, molte di queste già da tempo si sono sforzate di reperire risorse ulteriori per fronteggiare i loro compiti. Risorse che ovviamente non potranno essere trasferite allo Stato, il quale si dovrà far carico almeno di trovare i mezzi per la copertura di quella parte di spese fin qui sostenute con mezzi propri dalle Regioni (nonché dai comuni).

C’è da chiedersi se nella specie l’ aver mancato di affrontare questa problematica non importi una chiara violazione dell’art. 81 della Costituzione, certamente applicabile nella sua attuale formulazione anche agli interventi di livello costituzionale laddove questi si importino delle spese. E si tratta di impegni di spesa sicuramente rilevanti attenendo a vasti settori dell’attività pubblica.

Va ancora fatta una riflessione circa le disparità che potranno verificarsi tra le Regioni che nelle materie prima attribuite hanno operato in maniera efficiente e quelle meno efficienti, con la possibile conseguenza di interventi, attese le limitate disponibilità della finanza pubblica, volti a sanare le situazioni di inefficienza sottraendo le risorse per gli interventi destinati alle Regioni più efficienti.

A questa riflessione va aggiunta un’altra legata alla nuova categoria delle disposizioni generali e comuni introdotta fra le competenze esclusive dello Stato in materia di tutela della salute e di governo del territorio (art.117 lettere m ed u). Entrambe le materie aprono una complessa questione foriera di scontri a livello politico e anche costituzionale: infatti a queste disposizioni generali e comuni fa riscontro la potestà legislativa regionale di pianificazione del territorio e mobilità al suo interno e di programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali.

Ne segue inevitabilmente che il Senato delle istituzioni territoriali sarà lo sbocco della complessità e difficoltà delle questioni prima richiamate, restandone condizionato il ruolo; cosicché nella nuova architettura costituzionale esso con ogni probabilità si troverà a svolgere in larga misura una funzione condizionante di contrasto e di ritardo sull’attività legislativa, nella prospettiva o di un recupero di competenze a favore delle Regioni ovvero in alternativa, di un conseguimento di una sorta di indennizzi finanziari.

Tanto più se si tiene conto dell’importanza della competenza paritaria in campo legislativo affidatagli in ordine alla verifica dell’impatto delle politiche dell’Unione Europea sui territori e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione Europea.

Appare allora evidente che l’obiettivo primario della riforma sottoposta a Referendum, e cioè snellire e rendere efficienti i meccanismi legislativi assicurando la capacità del Governo di agire con efficacia e rapidità, viene in gran parte vanificato attraverso l’introduzione diretta nel sistema decisionale statale di una istituzione, il Senato, che non potrà per sua natura non risultare di ostacolo al conseguimento dell’ obiettivo medesimo.

In più è certo che solo con estrema difficoltà vi sarà lo spazio per trovare sul piano economico una risposta alle questioni connesse all’operazione di accentramento delle competenze, in un contesto di risorse economiche limitate e oltre tutto appesantito dai costi economici determinati dalla riforma costituzionale, in larga parte non valutati e quindi in grado di determinare una sicura incertezza sulla tenuta dei conti pubblici.

Contemporaneamente si incepperà, per l’inevitabile opposizione del Senato, qualsiasi intervento a livello di leggi costituzionali per una revisione dei meccanismi costituzionali introdotti, a meno di riavviare un nuovo decentramento.

In conclusione è sicuramente prospettabile in caso di approvazione della riforma una situazione contrassegnata dai continui scontri in materia di competenze tra Senato, Regioni e Camera dei Deputati conseguendo l’effetto opposto delle finalità ispiratrici della riforma.

Il fatto è che a giustificare quest’ultima non può bastare certamente la sola indicazione – efficienza, rapidità, economicità, risparmi di risorse – degli obbiettivi perseguiti occorrendo invece un’attenta calibratura degli interventi posti in essere nel concreto.

Calibratura che certamente manca per quanto riguarda anzitutto lo snellimento del procedimento legislativo pure oggetto di un’attenta rivisitazione. Infatti la riforma muove dal presupposto erroneo di un Parlamento tardo nel legiferare, mentre quello che lascia preoccupati è l’eccessiva quantità di leggi prodotta annualmente, di cui va invece lamentata la scarsa qualità, la quale però dalla inefficienza della struttura amministrativa del Paese impari alla individuazione delle esigenze e all’elaborazione di dati sicuri su cui fondare i provvedimenti da adottare. Basti al riguardo porre mente all’incredibile e farsesco rituale delle leggi finanziarie (ora di stabilità) che annualmente danno luogo a veri e propri trattati normativi la cui comprensibilità è spesso ignota anche agli autori.

Si aggiunga la singolare confusa moltiplicazione delle procedure disciplinanti le attività del legislatore, tali da introdurre, ad esempio, inconvenienti e contrasti tutte le volte che i provvedimenti proposti involgano materie rientranti nell’ambito di diverse procedure. Il tutto sempre alla luce del ruolo svolto da un Senato portatore di specifiche realtà quelle territoriali)ed in grado di rappresentare quindi un forte ostacolo al raggiungimento dell’auspicato snellimento del procedimento legislativo.

Quanto infine alla problematica dell’ampio trasferimento di competenze dalle Regioni, già si è detto della pratica impossibilità di arrivare in tempi brevi alla realizzazione di tale obiettivo, sia per l’entità dei costi che esso importa sia per la complessità delle questioni comunque involte.

Conclusivamente va ribadita la scarsa agibilità di una riforma affetta da tali difetti che ne impediscono ogni positiva attuazione.

Franco Mencarelli

Vice Presidente del Comitato Popolare per il “No” al Referendum sulle modifiche della Costituzione


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